A bordo del piccolo aereo per Agadez, ripenso alla città che sto lasciando, Niamey: capitale del Niger, assetata dalla cronica siccità, asservita all’imposizione della monocoltura di arachidi, governata da un presidente rigoroso e dogmatico. Silenziosa, non echi di risate, né musiche urlate da radio gracchianti, solo segno di vitalità le decine di lavandai che sbattono con violenza i panni sulle pietre, e il greto fiorisce dei vivaci colori delle stoffe stese ad asciugare. I cartelli stradali indicano piazza Kennedy, viale Mitterrand… Solo il fiume Niger sembra aver conservato la sua nobiltà: scorre maestoso, ampio e color Africa. Simbolo di questo paese potrebbe essere l’albero del Teneré, un’acacia il cui scheletro calcificato è ora esposto al museo nazionale. Al centro del deserto, unico esemplare rimasto per un raggio di oltre quattrocento chilometri, era diventato un punto di riferimento quasi sacrale per le carovane: “ogni anno l’azalai, la carovana del sale, si raduna attorno all’Albero prima di affrontare la traversata del Ténéré”, scriveva un comandante francese in epoca coloniale. Abbattuto da un camionista ubriaco negli anni ’70, il suo corpo morto riceve ora i dovuti onori al museo di Niamey.
Scalo a Mahradi, ancora in Niger, aeroporto minimo di un ordine svizzero: fiori, ghiaia pettinata, panchine cui non mancano gambe né schienali. Sosta che rischia di diventare eterna nonostante gli sforzi dell’energico comandante malgascio: non c’è posto per i nuovi viaggiatori carichi di ingombranti bagagli e malgrado venga perfino smontata la toilette, il portellone si chiude su gente rimasta a terra e su valigie smembrate. Altro scalo a Zinder, la Guide Bleu annunciava un mercato ricco di ogni genere d’artigianato: l’unica commerciante in vista è però una bambina che regge sulla testa un vassoio con una noce di cola; le donne presenti hanno invece un’aria cittadina, splendidi vestiti ricamati, scarpe europee e acconciature fatte di centinaia di treccine vere o finte raccolte in fantasiose crocchie. La savana monotona, sempre uguale, inizia a diradarsi, appaiono chiazze di sabbia grigio dorato; gli alberi scompaiono per far posto al deserto assoluto, giallo, interrotto solo da rocce brune e pozze d’acqua. Non si vedono piste né tracce di vita sebbene si stia volando molto basso. Agadez! Quasi non ci si accorge di essere arrivati: dall’alto il suo perimetro sembra affiorare dalla sabbia di pochi centimetri; unico elemento dominante, l’irto minareto della celebre moschea. Laborioso recupero della valigia; all’esterno dell’aeroporto, un guado nel fango e nient’altro. Un gentile agente del fisco offre la sua Land per raggiungere l’hotel Air e, all’improvviso, sento, respiro, vedo che sono nel posto giusto. L’albergo è costruito in terra rossa e nei cortiletti interni dove affacciano le stanze si è avvolti da un intenso profumo di gelsomino. Abdullay, un tuareg ormai stanziale, si propone come guida capace di soddisfare ogni desiderio; abita una tenda costruita al’interno di un recinto di mattoni, è quasi notte, c’è solo il debole chiarore del fuoco su cui bolle il tè di menta: odori, fruscii, il vento lieve mi fanno sentire benissimo, felice, leggera, senza alcun pensiero al mondo. Tè schiumoso, dolcissimo, borbottii in una lingua di cui non afferro nemmeno una parola. I cammelli li tiene poco distante, ma potrebbe recuperarli per visitare i vicini accampamenti nel deserto.
La sera in albergo si cena sulla torretta alla luce di lampade a petrolio, nella notte la dominante presenza del deserto sfuma ogni volgarità di un folklore manipolato per far posto a spazi vacui che ognuno può colmare con la propria immaginazione. Al tavolo accanto due ragazzi, uno è cieco e l’altro gli descrive il mutare dei colori delle dune illuminate dalla luna; stanno facendo un lungo giro in Africa e il cieco mi racconta tutto ciò che ha visto. Sento che potrei stare giorni e giorni (mesi, anni) senza fare assolutamente nulla se non guardare il cielo, le nuvole che si muovono in sincrono; lasciare che gli strati del tempo si accumulino così come avviene per le dune con la sabbia trasportata dal vento.
La nostra carovana ha, ahimé, connotazioni negriere: due a dorso di cammello, mentre Abdullay e Ibrahim – un bellah, come vengono chiamati gli ex schiavi, di cui non vedrò mai il volto ma solo la nuca ornata di treccine – a piedi perché sono riusciti a trovare solo due animali. I cammelli sono pieni di esigenze: se la sabbia è umida, scivolano, se sottile, affondano, se dura, si risentono. E il loro malcontento cronico lo esprimono con continui sospiri, lamenti, disgustose bolle di saliva, battiti delle lunghe ciglia e occhiate languide. Subito, le dune nascondono la città ed è già deserto senza punti di riferimento; sosta per tè e manger indigène, che di fatto consiste di pane e sardine in scatola.
Rientriamo col buio, i cammelli hanno ormai perso ogni ritegno e, secondo me, oltre a ruttare stanno imprecando. Ho appuntamento con un marabutto che indovina con l’aiuto del Corano e dell’impronta della mano sulla sabbia; aspetto, per ore, pazientemente e inutilmente: il sant’uomo è troppo occupato e non può ricevermi.
Un capannone vuoto senza traccia di banchi, sportelli o altro che lasci prevedere una qualsiasi attività. L’aereo atterra con due ore di ritardo e l’accettazione diventa una sorta di ring dove manca un arbitro a impedire i colpi bassi: senza ragione apparente, i locali sono estremamente scortesi con chiunque voglia andare in Mali. Comunque, si parte. Sorvoliamo un deserto grintoso con larghe pozze d’acqua. Anche a Gao non c’è aeroporto ma solo una tettoia in lamiera arroventata dal sole e nessun mezzo per raggiungere la città eccetto un furgone privato che offre passaggi a prezzi esorbitanti. Un vecchio, il cui aspetto ricorda le illustrazioni dell’ebreo errante di un mio libro d’infanzia, ma che ovviamente è musulmano, stabilisce che pagherà chi vuole e quanto può. L’hotel Atlantide è una costruzione a mezzo disfatta, senza acqua corrente né aria condizionata; in compenso, ritrovo il clima maliano: la gente è allegra, cordiale, disponibile. Non c’è acqua, ma te lo dicono cantando e ballando perché ovunque c’è musica, assordante. I venditori del gran mercato stanno arrotolando le loro mercanzie, intravvedo bellissimi cuscini e sacche in pelle. Il fiume Niger qui è lurido e splendido: folla, canti, piroghe dalle prue decorate, bancarelle di cose minime. Un’Africa che di niente e con niente vive ed è ricca; insieme, miserabile, accattona, consumista e sprecona. Ovunque, resti di cose abbandonate: un oggetto importato viene usato sino a che cade a pezzi e poi lasciato per strada; mentre le stuoie, le grandi zucche scavate usate come contenitori, le sacche sono aggiustate e ricucite mille volte con sapienza, amore, gusto. Africa grandiosa, fantasiosa, magica, allegra, provvisoria, casinista, corrotta.
Al mercato compro perle triangolari di vetro colorato, una raffinata scatola in pelle per i bicchierini da tè, un cuscino che sembra disegnato da Malevič; acquisti che aprono a conversazioni sul caro vita, la siccità che sta decimando mandrie e greggi, l’ultimo portentoso rimedio che guarisce ogni male…
La tomba degli Askia: Mohamed Turi primo re della dinastia, morto nel 1525, fu seppellito tra i resti di un’antica moschea e, come per la Porziuncola d’Assisi, attorno alla sua tomba ne hanno costruito una nuova. È venerdì, i fedeli salmodiano con le palme delle mani rivolte al cielo e hanno sulla fronte l’impronta della sabbia su cui si sono prostrati.
È da poco passata l’alba, la piroga si dirige verso la duna rosa, c’è vento lieve, si scivola senza far rumore. Il barcaiolo viene dal Ghana, è camionista, pescatore e trasportatore a seconda delle occasioni. L’aiutante bambino ogni tanto scende, nuota sino alla più vicina lingua di sabbia, torna con un pacchetto di sigarette o un cartoccio d’arachidi e risale sulla piroga senza che questa debba fermarsi. Le dune rosa sono davvero rosa: colline simili a nuvole che sfumano e scompaiono sulla riva del fiume. Stanno cintando con fasci di rovi ritagli di campo, quando l’acqua salirà inondandoli li coltiveranno a riso e legumi.
Con un giovane mercante che appartiene a una famiglia di griots, registro canti in lingua sonrai; dice di conoscere un’indovina e promette di portarmi. Aissata è una donna robusta e decisa, nessun alone ieratico, interrompe le faccende domestiche, sistema il piatto di paglia rotondo, i cauri, la sabbia e inizia la divinazione. Dopo ogni lancio di conchiglie, sparge sabbia sul piatto perché questa toglie la parola dei cauri e così i responsi non si confondono. Dice che ho uno spirito che mi spinge lontano, scriverò e molti mi leggeranno (ho in mano penna e quaderno), sono dibattuta tra due idee ma la scelta sarà difficile. Per assicurarmi un ritorno senza pericoli devo dare qualche moneta ai bambini che incontro e a un vecchio la metà di un pesce bianco che non dovrò pescare. Fa caldo, miriadi di zanzare, acqua e luce non sono tornate; le notti insonni servono per parlare, di tutto, di niente; per ripensare, rivedere priorità e peso di schemi che sinora parevano funzionare. Domani, Timbuctù. Sul deserto sembra abbiano steso un telo mimetico, i rilievi bruni sono impennacchiati di cespugli e anche la sabbia appare coperta da una peluria verde. All’arrivo, l’ormai abituale vuoto e il solito fortunoso passaggio su un camion tra sacchi e bidoni di benzina. Sulla cima della grande duna rosata, accanto all’abbandonato campement, hanno costruito il nuovo Hotel Azalai. Acqua in bottiglia, fresca, un vero bagno e un giardino pieno di fiori. È bello camminare su queste larghe strade di sabbia bianca dove i passi non fanno rumore e quando ti volti indietro il vento ha già cancellato le tue orme. Le case sembrano solide fortezze: all’interno, suoli di sabbia lisciata e soffitti di stuoie colorate, porte e finestre in scuro legno massiccio, ornate da grosse borchie di metallo brunito. Lo sforzo è liberarsi dalla sterminata letteratura su questa città, dai fantasmi di antichi e recenti viaggiatori che l’hanno sognata e rincorsa anche al prezzo della vita. Nugoli di bambini che chiedono cadeau, regalo, poi da una porta esce una donna alta e sottile che, danzando, offre delle focaccine appena uscite dal forno e si allontana leggera come un uccello dalle ali di velo blu.
La moschea Djinguereber ricorda la chiesa di Mikonos: le stesse forme incerte, quasi interrotte eppure così perfettamente compiute. Il guardiano evidentemente non subisce lo stesso fascino; a passo di carica trascina i visitatori per corridoi oscuri, afferra i suoi 1000 franchi CFA e se ne va. Da lontano, l’hotel Azalai è scenografia da Deserto dei Tartari: fortezza circondata da ogni lato da dune mobili bianco rosate. Una donna velata e vestita di nero cammina in tondo a testa bassa, si ferma e ricomincia. Dietro di lei restano sulla sabbia i marchi cerchiati del suo pellegrinaggio. Vita sibaritica: doccia sempre disponibile, bevande fresche… Troppo, è ora di andarsene.
Da sempre, da tutti, Timbuctù è stata definita misteriosa. E misteriosa lo è davvero così come lo è il fascino da cui nessuno è esente. Sì, alcune costruzioni hanno echi medievali, è ancora possibile scorgere qualche traccia di antichi splendori, minimi accenni… Ma solo quando ti allontani e ti volti indietro capisci che la bellezza era là e tu non l’hai afferrata. E non serve ritornare sui tuoi passi per cercarla, sarebbe sempre un po’ oltre. In questo sta il suo mistero: la speciale luce, il pulviscolo dorato sospeso che fanno di ogni figura distante un’apparizione. Un santo, un profeta? Poi, da vicino potresti riconoscervi un commerciante o un tuareg che vende poveri oggetti. Forse, la fascinazione sta proprio nel mantenere la giusta distanza dalle cose.
La siccità ha allontanato il fiume e il porto è ora distante quindici chilometri dalla città. Nessun battello scende verso Mopti; decisione di noleggiare una pinasse, sorta di piroga stretta e lunga fatta da due metà cucite assieme. Si aspetta il rifornimento di benzina che pare manchi da giorni. La riva è popolata da martin pescatori che si esibiscono in acrobatiche picchiate, piccoli fenicotteri e ibis rosa. L’equipaggio è composto da tre uomini e un ragazzo, nessuno parla una parola di francese eccetto oui, c’est bon, poche prospettive di conversazione. Cinque ore di attesa e la benzina arriva insieme a otto altri viaggiatori carichi di fardelli e due bidoni di gasolio. Si parte, e il quaderno di viaggio diventa libro di bordo; i ruoli sono rigidamente assegnati: il ragazzo, con una mezza zucca scavata, vuota l’acqua dal fondo della piroga, il timoniere regge la barra fissata da un groviglio di filo di ferro, il comandante scruta l’orizzonte e con ampi gesti indica la rotta e da ultimo uno che di continuo fa bollire il tè di menta, prepara pipe e rasoi e sembra incaricato delle relazioni pubbliche con i passeggeri. Ossia, una matrona che porta alle caviglie grossi braccialetti d’ottone, ornamenti ritenuti erotici perché obbligano a camminare con le gambe divaricate, con figlia vestita di un ritaglio del tessuto della veste materna; tre uomini corpulenti e privi di spirito, pii musulmani; un tuareg roso dalla tisi che tossisce pietosamente accompagnato da una vecchissima e stupenda madre coperta di amuleti; un sonrai con grande turbante desideroso di fare conversazione ma, ahimè, nella sua lingua.
Poco dopo costeggiamo Dyouyou, villaggio fortificato dove moschea e case hanno preziosi trafori sulle facciate, una lingua di sabbia giallo ocra regge quattro palme che sembrano galleggiare sull’acqua. Come i piccoli negretti di Agatha Christie, ad uno ad uno perdo i miei compagni; solo resta il tuareg con madre e uno dei devoti. Scorrono villaggi con grandi tende, palmeti radicati al bordo del fiume, minime dune che di continuo cambiano forma. Fa ancora molto caldo anche se il sole è calato da ore; non si vede nulla, ci si affida ai rumori, agli odori della notte; incrociando altre piroghe gli uomini si scambiano informazioni sul percorso che l’altro ha già compiuto: le secche, il vento, la pioggia che sta per arrivare. Ogni tanto dal buio emerge un personaggio che sembra camminare sull’acqua ma è solo un abitante di queste sottili strisce di terra che il fiume ancora non ha invaso. Il vento aumenta, accostiamo verso un isolotto dove passeremo la notte. Nugoli di zanzare impazzite, raffiche violente, temporale, tempesta di sabbia che spazza via il nostro minimo riparo. Ma arriva il mattino, e con la luce tutto si calma; poco lontano, un ippopotamo ci osserva con i suoi occhi rotondi (ma lo sa che dal ’76 è stato eletto mio animale totemico?). Sosta a Durey, grosso villaggio dove si fermano i battelli di linea: case in mattoni, tetti in lamiera e posto di controllo di polizia. La piroga continua il suo cammino, per ore; una sensazione di calma beatitudine, non succede nulla di grandioso, solo immagini colte al volo di cui ti rimane dentro il riflesso: il bagno delle pecore che pazientemente in fila attendono il loro turno, un matrimonio peul. La sposa arriva in piroga accompagnata dalle amiche ed è seguita da una seconda imbarcazione di musici; donne bellissime con grandi orecchini d’oro e perle d’ambra al collo e nei capelli. Di notte sul fiume i gesti diventano fosforescenti come i pesci.
Il caffè fatto con l’acqua di fiume sa di melma e di pesce. Ci avviciniamo al lago Debo, il lago dalle mille leggende; nelle sue acque danza il lamantino, il pesce sirena che può dare la felicità o uccidere. Da qui sono nati i bozo, straordinari pescatori che nella stagione arida ne abitano le rive. Sosta a Aka, villaggio di architetture lievi e sapienti, facciate, scale, torrette sono traforate da disegni geometrici.
Torna il vento, la superficie dell’acqua è increspata da piccole onde rabbiose: pinasse petite trôp, la piroga è troppo piccola; attimi di panico, non si può invertire la rotta perché nella virata la piroga potrebbe spezzarsi ma proseguire è troppo pericoloso. I canti salgono di tono, le voci si fanno più acute, speriamo che Allah li senta nonostante l’urlo del vento. Poco distante una barriera di canne, quasi una diga, che rompe le onde e soffoca le raffiche di vento: cerchiamo il varco per uscire dal lago Debo, uno stretto passaggio tra lingue di terra e canne che si richiude dietro di noi lasciando al di là onde alte, acque profonde e mostri. Lungo le rive sono allineate le capanne dei bozo: salutano, sorridono, chiedono se il lago è stato buono con noi. Alla fine del canale, un tonfo, un urlo: un grosso pesce d’argento con la coda rossa è saltato nella piroga, quasi sui miei piedi. Lo spirito che abita il lago ci ha salutato, è un segno: all’improvviso ricordo la profezia di Aissata, l’indovina di Gao. Spiego agli altri, ci consultiamo: una parte del pesce la mangeremo, testa, coda e fegato sono l’offerta per il lago e l’altra metà la regaliamo a un vecchio che ci segue a lungo arrancando sulla riva e agitando le braccia simile a un uccello dalle ali color ruggine.
Il giovane salito a Durey esce dal suo torpore; ha taciuto lungo tutto il viaggio ma quando sfioriamo una secca inizia a raccontare di montagne sommerse, villaggi inghiottiti dal fiume dove abitano esseri dalla pelle bianchissima e lunghi capelli simili a alghe. È un griot peul di Walu; dalla sua famiglia sono usciti i cantori reali ma non tutti i griot hanno il diritto di vivere usando la parola, solo i più grandi, gli altri faranno i tessitori.
Alle nove di sera entriamo nel porto di Mopti. È buio, non si vede nulla: strade affollate, musiche, odore di fritto dei cibi venduti per strada. Già rimpiango il silenzio, l’odore dolciastro e nauseante delle stuoie che imputridivano sul fondo della piroga.
Stamattina, un uomo incrociato per strada mi ha detto: “La felicità è che sulla terra c’è più luce che tenebre, più donne che uomini!”.