C’è stato un momento, nel lungo corso della civilizzazione umana, in cui la parola onore ha voluto dire qualcosa? I cacciatori di significato battono in questi casi di preferenza i territori dell’antichità greca e latina, luoghi nei quali, si dice, le parole erano più vicine alle cose; e l’antichità non manca mai di offrire ai suoi seguaci una vasta scelta di exempla gustosi ed eruditi, molto adatti a condire amare riflessioni sul presente. Eppure, nonostante il gran parlare sulle virtù antiche (propaganda augustea spacciata fino a noi come moneta buona), non mi sembra che su questo tema l’antichità possa insegnarci molto di più di quello che già sappiamo. Allora come oggi, l’onore era una di quelle parole alate che appena escono dalla bocca si pietrificano in un monumento, talmente grande che non si riesce ad abbracciarlo con lo sguardo; e accostando l’orecchio, se non si è proprio sordi, si sente scorrere sotto al monumento un grande fiume, ricco più di fango che di acqua (perché se l’onore è il premio della virtù, come si ripete da Aristotele in poi, il fango è da tempo immemorabile compagno fedele dell’onore). La parola greca timè, che è l’equivalente del latino honor, nell’Iliade significa materialmente il bottino assegnato ai guerrieri in proporzione alla loro efficacia bellica: più uno massacrava, più grande era l’onore; e grandissimo il disonore di essere privati del bottino, fatto che com’è noto scatenò l’ira di Achille quando Agamennone gli tolse Briseide, sua legittima preda per aver raso al suolo la città di Lirnesso e averle ucciso il marito e i suoi tre figli. Qualche tempo dopo a Roma si formalizzavano i gradi del Cursus honorum, ovvero del percorso attraverso il quale il cittadino romano ascendeva i gradini della gloria pubblica dalla questura alla censura, passando attraverso l’edilità, la pretura, il consolato. Onori questi che costituivano il fondamento di una civiltà che, valutata secondo parametri odierni, è stata la più corrotta della storia occidentale, in una misura tale da far sembrare al confronto i posteri poco più che dilettanti. I brogli elettorali, i metodi pre-mafiosi di gestione della clientela, le ricchezze conquistate a danno delle province costituivano allora più di oggi le scorciatoie per procurarsi questi riconoscimenti pubblici, che quando non erano il fine da ottenere con qualunque mezzo rappresentavano il modo più rapido per conquistare privilegi normalmente fuori da ogni portata umana. Ci dobbiamo dunque rassegnare: la civilizzazione è bella ma si porta dietro la tendenza a inventarsi parole che non vogliono dire niente, e che servono solo da paravento o da cavallo di troia per nascondere altre parole diventate impronunciabili (come regola generale, mai fidarsi di parole che hanno più di tre significati nel vocabolario). Tuttavia, proprio nell’epoca ellenistica, proprio nel momento in cui la civiltà antica raggiunse il suo grado più elevato di raffinatezza e la smania di ricchezza, potenza e onore pubblico toccò il suo vertice, ci furono uomini come Diogene, Cratete, Metrocle che, scrivendo poco o nulla, si dedicarono a demolire giorno dopo giorno con l’esempio tutte le convenzioni sociali che nutrono il fiume di retorica di cui si è detto sopra (il primo di questi saggi, Antistene, diceva che la virtù ama il silenzio, e già questo basterebbe a far capire di che pasta è fatto il roboante onore). Mentre Platone e Aristippo correvano a Siracusa alla corte di un tiranno, Diogene cinico, l’uomo della lanterna, prendeva il sole a Corinto, e ad Alessandro che gli chiedeva cosa desiderasse da lui rispose di spostarsi, perché gli faceva ombra. Ed è questo quel Diogene che a Sinope batteva moneta falsa con il padre, allo stesso modo in cui svelava la falsità della morale tradizionale praticandone una nuova in cui, ad esempio, non aveva più senso il disonore dell’esilio, perché non c’era più una patria, o il disonore della povertà, perché la ricchezza è niente, o l’onore militare, perché non c’era più un nemico da combattere, o l’onore per gli dei, perché un dio che fa paura non è un dio; mentre avevano diritto di cittadinanza la sfacciataggine degli animali, l’accattonaggio e lo sport praticato dalle donne nude. In questo senso allora i cinici erano disonorati, perché si privavano volontariamente di quella parte di stima pubblica legata al possesso dei più ambìti beni morali e materiali; e in questo senso, infine, anche il nostro discorso sull’onore si può chiudere con un piccolo insegnamento frutto della saggezza dei padri, che è il seguente: il disonore, a volte, è il più splendido ornamento della virtù, e va cercato e celebrato come se fossimo filosofi antichi.
Le virtù del disonore presso gli antichi
in: ZibalDino •