4.
Un tempo in una terra senza musica
viveva un cavaliere versolibero:
versificava allegro nel suo angolo
sentendosi un eroe per i coriandoli
scombiccherati sul taccuino piccolo
comprato nella fiera delle favole.
Ma intorno a lui, nel chiuso della camera,
lancette intempestive rintoccavano
con moto alterno di secondi incònditi.
E se talora nelle notti morbide
l’amata gli rendeva in fuochi tiepidi
il prezzo vieto degli amori insipidi,
con disappunto il vate versolibero
da lei sentiva in ritmo alterno i gemiti
sfiorare il buio dei piaceri torpidi.
E nel riposo dell’eroe, posatole
l’orecchio teso in mezzo ai seni liquidi,
non si cullava, il vate versolibero,
al quieto ritmo di respiri e battiti,
ma deprecava quel pulsare isocrono
(e di maniera) in sistoli e diastoli.
E non amava poi che dalle nuvole
piovesse al mondo con fruscio monotono
il dono della pioggia ai campi sterili
cullando piano sul rollio degli alberi
l’odore azzurro della terra umida
e non amava il sempre uguale infrangersi
dell’onda sugli scogli in schiume e vortici
(un vortice non è che un cerchio, sfumano
le spume ai lidi in trine e sinusoidi).
E le stagioni – beffa inenarrabile –
in ritmi sempre uguali ritornavano
e i soli tramontavano e nascevano
le stelle risorgevano e morivano
a un tempo uguale di rintocchi cosmici.
Seccato dallo scorrere monotono
del mondo, il cavaliere versolibero
allora divinò che un incantesimo
stregasse l’universo, costringendolo
a soggiacere a un’ossessione euritmica
ripetitiva, per prodigio orribile.
Allora si risolse, se possibile,
d’allontanare il sortilegio subdolo.
Andò dal Re del regno senza musica,
e lo trovò a ballare fra i suoi nobili
un walzer muto e di maniera facile.
Il cavaliere ruppe l’incantesimo
sfrangiando la sua voce in parole atone
e svelò al Re di quell’inganno livido,
di quell’insulsa diavoleria ritmica.
Lo scaltro Re si accorse del pericolo
e con parole blese e democratiche
al vate comandò l’impresa eroica
(sperando che nel gioco andasse a perdersi).
Il nostro eroe, gasato dall’incarico,
così promise: “Io salverò il mio secolo,
riscatterò la Fantasia stucchevole
dall’orrida palude del post-lirico”.
Così l’eroe si sobbarcò tre carichi
l’impresa e l’armatura e il verso libero
salì sulla sua brenna disarmonica
e salutò l’amata (che fu rapida
per sua virtù e saggezza a liberarsene).
Attento a non tenere un passo rigido
cambiava nella marcia il tempo e il battere
dei passi e degli zoccoli sui basoli.
E corse buie lande e rupi ripide
in cerca d’un rimedio all’incantesimo,
vagò e vagò, finché in un’alba futile
non arrivò dal Genio delle Macchine,
che gli promise di mutare l’abito
delle stagioni e i cicli delle nuvole
“La terra e il cielo: là sta l’incantesimo.
Ti basta un po’ di fumo: insudiciandoli,
stagioni e giorni perderanno l’abito
consueto e il ritmo e il sortilegio subdolo”
E così fu: le macchine sporcarono
la terra e il cielo e le stagioni persero
il vecchio andazzo e il vate versolibero
poté con tutta pace e gloria scrivere
i suoi versetti di denuncia. I battiti
dei cuori in extrasistoli nevrotiche
si persero e i respiri si serrarono
nel groppo dei diaframmi -e nuovi despoti
al posto degli antichi si installarono
con pari orrori e meno senso estetico.
[IV – continua]