In una conferenza sui rapporti tra Vico e Leopardi tenuta a Napoli il 5 marzo scorso, Antonio Prete ricorda la domanda, “all’altezza della nostra epoca”, del poeta recanatese: “come abitare la natura in un mondo snaturato”? In che modo essere naturali, quando non solo la natura, ma il sistema che ne sosteneva il pensiero – l’umanismo – si è dissolto?
Forse bisogna cominciare chiedendosi che cosa c’è in fondo alle ricerche della filosofia. C’è la poesia, la “sapienza poetica”, suggerisce Vico. Le domande più difficili, che portano all’essenza di qualsiasi pensiero, incontrano la loro soluzione o sensatezza nel canto di un poeta antico. È così che Vico sogna Leopardi. Ma anche Leopardi ha sognato Vico. Cosa c’è, infatti, al colmo del lavoro del poeta, se non un filosofo che cammina all’indietro per scrutare l’azzardo storico in cui è stato gettato?
Non c’è differenza tra poesia e filosofia, non c’è mai stata. Nell’epoca della “morte del passato” vorrebbero farci credere il contrario, ma è una menzogna. Chi fa il filosofo o il poeta senza porsi il problema delle forme e dei modi del soggiorno in un mondo snaturato, è falso e bugiardo. Ritrovare quello che Heidegger definisce il semplice, che abita solo e sempre nelle nostre vicinanze, e risalire, così, all’iniziale – si trovi esso nelle “favole antiche” leopardiane o nella “sapienza poetica” di Vico o in altri rarissimi libri odierni – è una questione ancora tutta presente e viva, nonostante le distrazioni della tecnologia.
Vico e Leopardi ci insegnano che in un mondo snaturato, abitare la natura è ancora possibile. A patto che ciascuno torni a esercitare la propria voce, senza paura dei propri limiti, fino a sentirne di nuovo la sapienza iniziale e l’originarietà, che nessun progresso o pedagogia potranno mai cancellare; fino a riscoprire una sorta di petite musique, che è la cosa che ci è più vicina e ci risuona dentro incessantemente, guidandoci verso la “perduta e inattingibile comunanza dei nomi con l’essenza delle cose, o almeno nella prossimità a questa comunanza” (Antonio Prete). Ecco: “almeno nella prossimità”.
Perché soltanto così, grazie a una tale “prossimità”, le parole potranno uscire dai sarcofaghi “social” muti e sordi nei quali sono costrette dalla chiacchiera contemporanea, e restituirci lo sguardo che noi aspettiamo da esse con fiducia e incanto. Un uomo, un animale o una cosa inanimata che ci guardano, diceva Benjamin, sognano e ci trascinano nel loro sogno. Anche le parole hanno un’aura, uno sguardo che trascina a sognare. Ma se smettono di abitare nelle vicinanze del “pensiero poetante”, se rimangono imbalsamate nei sarcofaghi “social”, non potranno mai trascinarci da nessuna parte, in nessun sogno.
E ogni aura sarà perduta, ogni speranza di “abitare la natura” svanirà per sempre.
“Non c’è differenza tra poesia e filosofia, non c’è mai stata”: sono perfettamente d’accordo; e non c’è differenza tra poesia e matematica, non c’è mai stata, né tra poesia e fisica, non c’è mai stata (rileggere, appunto, Vico e Leopardi per credere, ma anche Giorgio Colli che ci instrada verso i cosiddetti Presocratici e poi rileggere proprio loro, una sorta di punto di partenza e di arrivo contemporaneamente: i Presocratici che rimangono, ancora, illuminanti e sapienti).