La comune attenzione per il gioco come fenomeno culturale e sociale “universale”, di grande rilevanza filosofica ma soprattutto importante dal punto di vista educativo e come diritto infantile, dovrebbe accumunare tutti quelli che si occupano dei bambini. Gianfranco affermava che l’esperienza centrale della vita dei bambini è il gioco. Nella sua idea di luogo educativo ideale (anche scolastico), un terzo della giornata dovrebbe essere dedicato al gioco, un terzo all’attività manuale e al laboratorio, un terzo agli apprendimenti di base. Ogni volta che incontrava persone che condividevano queste idee la relazione prendeva una piega gioiosa, oltre che spirituale.
Piacevano a Gianfranco i bambini quando giocano e si costruiscono i loro giocattoli, le botteghe degli artigiani, ogni attrezzo di lavoro che serve per fare cose utili e inutili, le biciclette, i burattini e i burattinai, le ferramente, le persone che muovono le mani e la mente insieme. Per questa ragione la frequentazione e la ricerca dei maestri della manualità creativa in funzione del gioco, era una avventura che spesso diventava ricerca sistematica da fare insieme o singolarmente raccontando poi le scoperte.
Spesso queste ricerche portavano a conoscere artigiani e artisti che finivano per diventare amici, come il maestro Medio Calderoni, il poeta degli aquiloni di Ravenna che costruiva con carta e canna di fiume, o il grande Giancarlo Peremprunner, ideatore del centro della Cultura Ludica di Torino che costruiva giocattoli meravigliosi con le zucche, o anche Joao Piaxao, il malandro e barbone, costruttore di bacchette di fata, un senza dimora che viveva nelle strade prossime allo stadio Maracana a Rio de Janeiro.
Era una ricerca comune, si partiva quasi sempre da esili notizie, i maestri giocattolai non fanno vetrina, vivono appartati, sono miti, tranquilli e un po’ asociali.
Nel 2009 in Brasile, finalmente insieme dopo un anno di lontananza, Gianfranco ha molte proposte di ricerca. Sapevo di un’agenda piena di incontri, c’era da andare a trovare un artigiano di Belo Orizzonte che con i tappini di latta a corona faceva squadre di pedine per il calcetto da tavolo, mettendo, un artista che modificava le forchette come Bruno Munari, un tipo che faceva borsette con le spolette di alluminio delle lattine. Un pomeriggio di metà ottobre, l’estate brasiliana appena iniziata, con la gente della città a prendere il sole nelle bellissime spiagge di Rio, decidiamo di andare nella favelas di Santa Teresa alla ricerca del mastro giocattolaio, un tale Getulio Damato, di cui s’era sentito dire lavorasse in un vagone di un tram. Già il nome Getulio, è una promessa di allegria! Lasciamo le sabbie bianche e le onde dell’Atlantico e ci incamminiamo per strade chiassose. Dietro la cattedrale della città cerchiamo la stazione del piccolo tram che porta alla favelas di Santa Teresa. Saliamo su un trenino con due carrozze, un simpatico rottame dell’ottocento, partiamo e procediamo a strappi sulle rotaie strette, ora accanto ai muri delle case, ora paralleli alle stradelle che portano sulla cima della collina. Durante la corsa i passeggeri salgono e scendono dalle predelle del tram in movimento tanto questo procede a passo di lumaca. Più si sale più si allarga la vista sul paesaggio, giù in basso Rio de Janeiro, il porto, il mare, le insenature, il Pan di Zucchero, le favelas tutto attorno sulle colline. Nel quartiere degli artigiani scendiamo, camminiamo per via Leopold Froes fino ad una piazzetta dove staziona un piccolo vagone dello stesso trenino che ci ha portato fin là, dipinto di giallo, con la scritta, “Bozolandia”. Davanti a noi il laboratorio di Getulio Damato, compresso in un vagoncino, esuberante e poverissimo, esultante di oggetti colorati che dicono senza bisogno di parole l’intraprendenza fantastica di chi vive inventando con niente. Ogni giocattolo ha un nome, tra le finestrelle della carrozza cartelli espongono i pensieri dell’artigiano, dicono l’affetto che lui sente per il suo paese, le gioie e i dolori dell’amore, la devozione familiare; precisano pensieri come scarti della memoria e dall’ anima. Ecco il giocattolaio e il suo mondo, il “capolavoro”, non tanto per qualche oggetto portatore di un’aurea sublime ma per l’atto inventivo in se stesso che genera questa magica e incantata atmosfera.
Gianfranco intreccia un dialogo con l’ometto che se ne sta rintanato dentro il suo trabiccolo continuando a lavorare a occhi bassi. Getulio, minatore di origine italiana, “brinca figuras de potes, embalagen, velhos eletònico”, inventa da contenitori di plastica, pezzi di elettronica e altri materiali di imballaggio.
Faccio il giro del laboratorio-carrozza, i giocattoli sono prevalentemente pupazzi e piccole scenografie di vita popolare. Le stesse figure, ma di ceramica, avevamo visto nel museo di Antropologia di Rio, sono i personaggi dell’epica del Grande Sertao popolato di mandrie, santoni, banditi “jagunco”, uomini dai nomi altisonanti come eroi di saghe romantiche e remote.
“Ah, il buon modo di vivere del jagunco. Così è la vita riparata, vissuta per il di sopra. Chi si trova a jaguncare, non vede, né fa caso alla povertà di tutti, pulviscolo. Vossignoria sa: tanta povertà generale, gente nella fatica o nel disanimo: Il povero deve avere un triste amore per l’onestà”. G. Rosa Il Grande Sertao. Getulio è radicato al suo mondo natio, costruisce inni alla vita in un linguaggio che non è un fatto comunicativo ma la comunione e la venerazione di una tradizione. Costruisce giocattoli in presa diretta, davanti ai nostri occhi meravigliati, usa con velocità e precisione grosse forbici da lattoniere, martello, chiodi, tenaglie e pochi altri attrezzi. Parlando taglia il bordo di una lamiera di plastica, martella alcune parti, dopo pochi minuti presenta la sua nuova creazione: “NO TA APPARENTE UN VOLTO?”.
Gli occhi corrono sui giocattoli, la moltitudine di volti, non sanno dove fermarsi, si incrociano con i mille occhi di omini giocattoli, occhietti ritagliati da contenitori di plastica colorata, messi tra nasi, bocche, labbra, guance, orecchie, e questi occhi e volti dicono di padri, madri, fratelli, sorelle, figli e figlie, popoli e genti di ogni paese del mondo, il volto brulicante della famiglia umana.
Un filosofo a noi caro dice che “nei giocattoli è nascosto un tesoro”, qui, brilla la pagliuzza di un qualcosa il cui valore è incalcolabile, noi l’abbiamo scovata in questo perduto angolo di mondo.