1.
Costretta dietro reticoli d’ombre
naufraga la pupilla
che a fatica tiene a distanza il morso
la bocca da cui la notte scivola
straripa (quale non era stata mai
nel libro dei millenni
immensa, inarrestabile deriva
di corpi pietrificati nell’eco
dell’ultimo grido) –
scivola, straripa, avanza a ondate
seminando relitti di sogni
al suo passaggio – marea danzante
di acque che fioriscono spine
spuma di rovi per fingere parole.
Ha sillabe di esistenze lacerate
sulla lingua, e tra le labbra
nomi senza storia, per ogni ora
un miraggio che cancella la tristezza
e guarisce piaghe d’abbandono
– in cambio chiede respiri
carnali schegge d’alba
una memoria inerte, spianata
d’ogni traccia, d’ogni voce, ogni pensiero spento.
Lontano
là dove il cielo grandina stelle
in lampi di sterminio, altri occhi
altre mani raccolgono
il sangue disperso delle rose
– intrecciano oasi
per dare riparo a un’ala, alla sua sete
dimore dove accende il canto
desideri impensabili di vita
per le nostre anime franate
nella follia dei giorni
– invisibili, inascoltati palpiti di mondo
davanti alle nostre tavole imbandite
nel dormitorio che ci consola
di diventare ciechi, esistere da morti
appena nati.
2.
La mente mareggia nel nulla del crepuscolo
ingrigia, crepita, sorda al richiamo
che dalla polvere di case sradicate
guida la mano all’estasi che vive
all’abbraccio lunare
che attesta la nascita alberata della sera
– una mano ancora aperta
sul baratro del sonno, con la sua ciotola
il suo pane marcio di detriti
il corpo in attesa
sulla soglia di un dolore cristallino
(soltanto lo sguardo
tradisce il segreto
di occhi verdemare sempre accesi
nonostante la retina spezzata
a disperazione dell’onda che preme
la mandibola, il respiro) –
E qui il lutto, la predica
imputridita in mille lingue
la benedizione oppressa di numeri
la conta dei superstiti
tra cumuli di tempo, tra morti assediati
di colori.
Il drappo che sventola sdrucito
alle finestre delle nostre vite, è già domani –
un mosaico
di bave
e grida di gabbiani, l’arcobaleno
oscurato da ore ammutolite di clessidra
dallo schermo che fissa la paga di caronte
prima dell’ultimo giro di giostra
poco prima del canto dell’ultima sorgente.
Ecco, diremo – se avremo ancora
voci in cui specchiarci –
noi qui si osserva e passa
masticando accenti miserabili d’oblio
mentre l’incendio lentamente cresce
come una vampata di lava, e a fiotti intermittenti
matura d’ombre quella fonte, scava
ci abita
solidifica notti lungo il viso.
3.
Non ricoprire di pietre
l’immagine che dal tuo respiro grida
fino a tentare il sonno
di un dio imbiancato di rughe e di tramonti
la sua ombra non mai coniugata
di pianto
(il paradiso lo scopri nel breve volo
di un bambino
senz’ali – lo vedi, beve dalla tua bocca
anni sfioriti, frutto dell’incesto
tra miseria e miseria) –
un dio consacrato dalle sabbie
che finge neve satura di pollini
il chiarore di luminarie senza giorni
offerte votive di frutti e di stagioni
gli artigli del carnefice –
perché ai suoi occhi tutto il dolore
è niente, la vita stessa è niente
è appena ciò che accade
in una traccia ammuffita di voci
e di alfabeti, un segno che aggiunge note
a partiture di angeli malati
a liturgie di vuoto.
Solo l’ora in attesa
al limitare di un mondo
colmo di figure senza anagrafe, quello stormo
inquieto di minuti
che sbarra la rotta a presagi d’uragano
e il cielo spinge a rovescio
dell’ultimo orizzonte, recita il suo rosario
tra polvere e derive
– una preghiera muta, un frangere di silenzi
contro lo scoglio della prima lacrima
che reca in sorte immagini
affrancate, memorie limpide di voci
di futuro.
4.
a Cana, dalle parti del cielo
La casa sul confine della sera
ti fa cenni di saluto, accende lampade di addio
nelle pupille nere del ricordo.
Tua madre visita in silenzio angoli di cielo
numerando le ombre una a una, raccogliendo
macule di stelle
dai capelli che conserva dentro il palmo
(ieri
sorpresa come una fontana
nel gioco delle ore, si fermò
orfana di giorni
ad illustrarti i fiori del giardino, la morte in attesa
in mille e mille petali di luce) –
Tu ora nuoti nel guado devastato del meriggio
e nomini il sangue
che ti germoglia in bocca parole senza suono –
qui è il presente –
dove un grido conficcato nel petto
traduce in sillabe di fiamma
il lontano di un mare
immobile sotto il peso di vite a pelo d’onda.
5.
Coscienza – è tutta in quest’arsura
che non ha più sorgenti da sperare
tutta nel lampo che costringe le labbra
tra dirupati alvei
colmi di storia, crimini e macerie
e l’urlo inudibile di comete dissolte
dietro gli occhi –
traccia di acque abrase
che ancora dura e in parte schiuma
dove albeggia un cielo di ferite
dove al silenzio si offre
quanto tra i vivi è ancora vita, neve
fragrante in ceste di parole
(il vuoto intorno
cova i suoi nidi di palude
per l’ala che si cerca e nuda annaspa
dopo il naufragio dell’ultima speranza).
Il fuoco è spento, ma il grido
trattenuto negli sguardi
rischiara ancora l’orizzonte ai vincitori
– le case, fatte di calce e cenere
perdono vento in flutti salati di preghiera
confuse nell’attesa di una stella
che porta inciso dentro il nome morte
l’attimo che ferocemente si fa luce.
(Solo l’esilio resta
agli ultimi abitatori del deserto –
migrare verso i chiostri di altre aurore
trascinando nei sandali
il sogno di pianure senza notte
recitando il salmo che sbarra il passo
all’era glaciale prossima a venire.
Non lavare le mani alle mie rive
mormora il giorno ad ogni nuovo incontro
non ripulire il fango
prima di ricamare croci sulla fronte –
piuttosto
addestra la tua polvere
a essere voce che parla in altri segni
sbozzola i fossili
fanne scorza di pane e vino – il pasto che conforta
il dolore di un dio senza più figli
il silenzio del suo mondo che va cieco.)
6.
Che tu sia maledetto in eterno
signore degli eserciti
dominatore di sabbie millenarie
di regni appesi al cielo o chiusi
a scrigno in cattedrali d’alba
impastate di lacrime e di sangue
pietra su pietra, luce dopo luce
abisso azzurro di puttane e mercanti di stagioni
di teste mozze, di acque e sorgenti deflorate
di bambini immolati alla tua gloria
di donne stuprate, di voci calpestate
di occhi ridotti a squame dal fuoco che purifica
e porta pace in terre di tormento –
dio dei poeti che parlano in tuo nome
di crociati armati di membri benedetti
per inseminare il bene in moltitudini malate
per scacciare il male alla radice
dal midollo venduto pochi denari al chilo
dalle vagine sventrate a colpi di preghiera
di vergini infanti che partoriranno sale
non più corpi di cani, di infedeli.
Che tu sia maledetto, relitto osceno del diluvio
idolo che si quieta nel furore
notte di notti, immagine di notti –
maledetta la tua stirpe di ombre salmodianti
di morti assiepati sotto le tue grasse insegne.
Guardami –
io che non so pregare, che non ho mai pregato
io oggi prego
non te, i tuoi feroci altari
ma il soffio che parla nei sogni di mio figlio
– il respiro della mano
che al risveglio gli accarezza il viso
mentre in silenzio depone un fiore
nell’urna d’aria della luce
– un fiore per non dimenticare
i mille giorni e mille, tutti i mancati soli
le voci assenti, recise sullo stelo
dei suoi fratelli che non avranno nome.
7.
Luminescenti segnali di festa in ogni strada –
ai margini, come seguendo orme
senza suono, il passo ampio
di chi si impenna e vola
dove il silenzio è madre
il dono di un tempo che si trattiene
fino a che il mondo emerge dalla sua pelle infetta
e si abbandona al richiamo
del lume che tace nel profondo
(un papavero
intanto
conserva nel suo colore
le voci in cui trapianta ogni sera
la nuda piaga delle spighe sradicate) –
Declinare la cenere, coniugare le pupille
a immaginari residui di scintille
per dismisura di umano bruciare divise e bandiere
dare fuoco ai giorni dell’inverno
procurarsi una lingua
che parla il seme e il verbo del disgelo
camminare di fianco all’angelo
che recita i nomi degli assenti
essere le sue gambe, l’acqua che porta alle sue labbra –
e ancora urlare quanto negli occhi resta
trapassando dal sonno
alla veglia misericordiosa delle ali
portare la sua ombra stretta al dito
reggere grani e vento, farsi sete.
Farsi sete – cercare il ristoro di ogni fonte
abbeverarsi all’eco
dell’altro che reca in mano
la voce ferita che ci salva
l’alfabeto dell’unico cielo che ripara