Se riesci a leggerla, verso dopo verso, fino alla fine, se la puoi scorrere con tranquillo apprezzamento, godere dell’ingegnosità e della bellezza di un verso e poi proseguire, terminarla e passare alla lirica successiva e poi ancora avanti, allora quello che stai leggendo non vale niente. Non serve a nulla, butta via.
Sono dieci anni che leggo Emily Dickinson, anzi che non la leggo. Non riesco ad andare avanti. Dieci anni che prendo in mano il libro e vado a quei versi, quelli che contornano, adornano, assistono, preparano il big bang.
Mando due tramonti.
Abissi che si spalancano, cieli che si aprono. Sto lì delle buone mezz’ore a contemplare quel verso. Poi mi perdo in interrogativi prosaici che non avranno mai risposta: ma come faceva questa zitella di villaggio, in quel mondo asfittico (sì, nuovo mondo, fermenti prometeici, ma non si era mica a New York, in un mondo di Uomini) a venirsene fuori con qualcosa di così apocalittico? Si alzava, si aggiustava la crocchia, metteva su un bricco di tè, salutava la vicina dalla finestra, poi si sedeva a un tavolino di legno scuro e compitava queste due paroline. Ma da quale pianeta proveniva? Dov’era nascosta l’astronave?
Vabbè, non è vero: passo anche ad altri versi, saltabecco qua e là e poi mi ritraggo, come se avessi preso in mano i poli della duecentoventi volt. Me ne sto lì, senza bisogno di leggere, mentre aleggia la presenza raggelante dell’aliena – o dell’angelo o del demonio – che veramente era.
Così Rilke. Ma dove vai, ma come fai a leggere la seconda elegia, la terza? Beh, alla terza ci sono, in verità, ma dispero di giungere alla decima: non mi basterà la vita. Non oso proseguire. Mollo il libretto bianco (è la traduzione dei De Portu, benedetti ovunque siano, lasciate perdere le imitazioni) e telefono a qualcuno: ma hai le Elegie Duinesi? Non chiedo: le hai lette? Non riesco a credere che le abbiano davvero lette, tutte. Mi piacerebbe sapere che vi si sono accostati, tutto qui. Che sappiano quanta potenza, quanto mondo, è racchiuso in quelle settanta pagine, a disposizione di chiunque. Di chiunque, signori. Non sono nascoste da spesse pareti in cemento armato, come dovrebbe essere, come si fa per il nucleo di Chernobyl: tutti possono essere irradiati.
No, non tutti. Se non sei in un certo stadio, se non sei centrato, se non sei allineato, è come se avessi la tuta d’amianto. Il mondo è un triste formicaio di tute bianche.