Me la immagino, la prima espressione sul volto dei musicisti che giungono quassù in provincia a suonare d’estate. Sono giovani, giovanissimi a volte, la faccia liscia degli adolescenti che fanno atletica, le mani grandi e robuste da adulti; oppure vecchi, a volte vecchissimi, leoni in disarmo, reliquie di epoche e di scuole interpretative passate, tutti rughe e ciuffi grigi, le mani enormi, nodose. Molti di loro percorrono in tournée l’intera Europa, suonano dove li chiamano a suonare, vivono sui furgoni assieme ai loro strumenti, quando va bene dormono in alberghi a tre stelle ospiti delle associazioni e degli enti che li hanno messi in cartellone, e qui condividono la camera con un agente, o una madre, o se va bene una moglie. Molti vengono dai paesi dell’Est, e vengono perché li chiamano volentieri, visto che costano ancora poco, in confronto ai loro colleghi dell’ovest, che sin dal diploma mettono su una spocchia da prime donne e avanzano pretese e non sorridono mai. Loro invece sorridono, umili anche quando hanno vinto fior di concorsi internazionali, rigorosi, anche un tantino rigidi se vogliamo, con un’aria da modernariato per via delle acconciature, delle dentature, della curvatura delle spalle.
Eccoli, giungono in provincia sul loro pulmino. Il concerto è per stasera, in un padiglione tutto di metallo creato per l’occasione, accanto alle famose e suggestivissime rovine di epoca romana. Ancora storditi per il lungo viaggio, chiedono di conoscere il pianoforte, o di provare l’acustica sul palco. Acustica? L’espressione del funzionario che li accoglie cangia, il discorso si fa sfuggente. Ma sì, l’acustica. Ora, subito? Be’, sì, ora. Il funzionario non sorride più, e trattiene uno sbuffo – non troppo, giusto perché che si noti che lo sbuffo era in partenza. Va bene, va bene. L’acustica. Sicuro.
I giovani o vecchissimi virtuosi sono accompagnati sul palco di legno.
La struttura metallica che avvolge il palco è progettata per emergere a gomitate tra le architetture cittadine, con prepotente incongruità. Apparentemente solida, cigola in realtà a ogni colpo di vento, dà schianti continui di assestamento, oscilla a ogni passo di visitatore. Solidi ponti sonori la attraversano da un capo all’altro: se uno posa il piede nel punto A, quel piede posato diventerà potente calcio nel punto B, all’opposto. I passettini delle donne con tacchi diventano attraversamenti di orde. I piedini dei bambini zampate di pachiderma. Il metallo freme di ogni segno di vita, amplifica e centuplica ogni spostamento nello spazio. Ecco, in quella struttura, laggiù, sul palco, il giovane (e ambizioso, non ancora rassegnato, solo un po’ sperduto) virtuoso dovrà eseguire il suo programma. Siamo al momento delle prove. Un accordatore ha appena dato una ripassata allo strumento. Il virtuoso si accosta al pianoforte, ne saggia la meccanica, tenta un approccio di accordi ascendenti. Il programma, elegantemente monografico, prevede notturni: Field, Chopin naturalmente, Fauré. Pianissimi estenuati, sospensioni dei suoni, fluttuazioni assecondate dall’uso accorto del pedale di risonanza. Il virtuoso suona: Immàginati dentro una campana di vetro, gli diceva la maestra, immàginati isolato da tutto il resto. Lui ricrea quell’illusione. Ma la campana di vetro non basta a isolarlo dagli schianti e dai lamenti della struttura di metallo che incombe tutt’attorno a lui. Suona, ma non si sente. Si vede pigiare i tasti, ma non ne sente uscire alcun suono. Suona più forte, alla ricerca di quel suono tanto lungamente distillato in mesi di prove: niente ancora. Più forte, più forte, fortissimo: e finalmente si ode qualcosa, di quanto scritto da Chopin o Field o Fauré – qualcosa, non tutto. Ecco, bravo, gli dice l’accordatore, che è rimasto ad ascoltare, suoni sempre così: sempre in fortissimo. Lasci stare le indicazioni dinamiche e agogiche, pesti quei tasti più che può. Ma sono notturni, balbetta il virtuoso. Quello che sono lo sappiamo. Ma stasera saranno qualcos’altro. Solo stasera, guardi. Non si preoccupi, non lo si verrà a sapere. Nessuno scriverà mai di questo concerto quassù, glielo garantisco per esperienza. Lei tra qualche tempo non ci crederà nemmeno, penserà a un sogno, a un brutto sogno. Ora invece pensi a onorare l’impegno, che l’hanno pagata bene.
Sconsolato, la sera, il virtuoso origlia dal camerino improvvisato il viavai del pubblico che penetra nella struttura metallica provocando un boato continuo. Li sente arrivare uno per uno fino all’ora dell’inizio del concerto, poi fin dopo quell’ora, ciabattanti, allegri, le donne con le zeppe, i bambini su e giù di corsa sui gradini di ferro agitati come cani, i vecchi appesantiti dalla cena, urlanti perché son sordi. Attirati dalla gratuità dell’ingresso, continuano a giungere, parlando ad alta voce, ridendo, taluni litigando, talaltri strillando nei cellulari. Lui è pronto, o rassegnato (ora si può dire che lo sia), a salire sul palco: ma uno sconosciuto in divisa, pomposo come un ammiraglio, gli fa segno che no, si aspetta ancora. Passa un quarto d’ora. No, meglio aspettare, fa segno l’ammiraglio – un usciere d’assessorato, ma il virtuoso non lo saprà mai. Altri dieci minuti di attesa. Ora? chiede il pianista. Ora, annuisce l’ammiraglio, come a dire: Vede come la trattiamo bene, come la coccoliamo, anche se lei viene dalla steppa o dalla puszta o simili? Ma non è ancora tempo: una gallinona in decolleté è appena salita sul palco a inanellare ringraziamenti alle autorità che hanno permesso (al pubblico, sì, ma anche all’artista) l’evento, alcune delle quali siedono in prima fila – se ne andranno a concerto appena iniziato, rumorosamente, fingendo tra loro impegni che non hanno.
Finalmente, seduto al piano, il virtuoso osserva stranito la tastiera, conscio che dovrà prenderla a unghiate, a pugni, mentre la gente ancora va e viene provocando clangori e nessuno la ferma.