Ma senti questa, che ti sembrerà
un’allucinazione veracissima.
C’è chi esalta la guerra,
la mette in cima a tutte le altre cose,
e non appena s’innalza un’insegna
e si sente la tromba
che chiama alla raccolta,
lui va, corre e si arruola.
È preso per la gola
e ingannato da quattro bigliettoni
sparsi sopra una panca. Soldi freschi,
così si va a vestire alla Giudecca
come una mula tutta impennacchiata
e ingualdrappata. Se un amico gli dice:
“Dove vai?”, lui risponde
allegro e inorgoglito:
“Alla guerra! Alla guerra!”.
Sguazza nelle taverne,
va in trionfo nelle case dei Gelsi,
acquista e vende tutto quel che ha,
fa tanto di quel rumore e fracasso,
che non si fermerebbe
al cospetto di Gradasso!
Ah, disgraziato! Se solo facesse
la prova a mettere il tutto
in questo gran crogiolo svelatore!
Tutte queste allegrezze,
buffonerie e spaparanzamenti,
gli si trasformerebbero
in triboli e tormenti.
Il freddo lo fa irrigidire – il caldo
lo fa squagliare – la fame lo rode –
la fatica lo scanna –
il pericolo gli sta sempre a fianco –
il premio arriva solo, forse, in fine –
le ferite sono invece in contati,
e le paghe a credito –
gli affanni interminabili
e le dolcezze brevi –
la vita incerta e sicura la morte.
E come va a finire?
O strapazzato da tanti patimenti
scappa via e con tre salti
fa prova se la corda a cui lo impiccano
è fina come miccia
o spessa come un laccio;
oppure finisce mezzo storpiato,
e altro non gli resta che l’appoggio
di una stampella, o una comoda rogna,
o, se proprio gli va bene, il ricovero
in un ospizio o in un tetro ospedale.
“Hai fatto venire fuori il fradicio, non ho niente da obiettare”, gli ho risposto, “è vero e stravero quel che dici, perché il destino di un oscuro soldato è tornare o pezzente o bucherellato”.
Prendi ora un vanitoso,
un vacuo cacasentenze e borioso,
che si sta pretenzioso
sopra il suo cavalluccio
e che si elogia con gran prosopopea,
che ti riempie di palle e di palloni,
che sbotta fuori immensi paparacchi,
sputa parole fini e spacconeggia,
contorce e sgrigna il muso,
e si succhia le labbra mentre parla,
misura i passi camminando altero…
Ma chi si crede di essere? E fa
il millantatore e si esalta dicendo:
“Orsù, mi si trasporti
qui la cavalla fulva o la pezzata –
si convochino venti dei miei uomini –
si richieda se il conte mio nipote
vuol venir meco a spasso –
quand’è pronta la carrozza dal fabbro? –
si riferisca al signor sarto che
entro stasera io voglio
le brache ricamate d’oro! – e a quella
dama che mi perseguita,
si dica pur che forse –
e sottolineo forse –
le vorrò un po’ di bene”.
Pure, da uno così,
appena gli riversi
tutte le cose che dice e che fa
in questo eccelso e magico
crogiolo svelatore,
non ci ricavi niente,
è un gran fuoco di paglia,
quanto più alza la testa,
tanto più si annoia,
dice che ha sempre troppo, ma niente ha,
fa un sacco d’aria, ma in canna ha il vuoto,
ha il collare increspato ed è spianato,
trippa contenta ma senza un contante,
e in conclusione: ogni barba gli riesce
una basetta, ogni pertica uno stecco,
ogni pasticcio un lesso,
e infine la bombarda
spara solo scoregge.
“Che la tua lingua sia benedetta! Sei stato capace di penetrare fino alla sostanza delle cose, e le hai perfettamente squadrate. Insomma, è un antico detto: Ogni vanitoso è una vescica”.
Chi va dietro al potere e ai suoi sfarzi,
affatturato dalla brutta strega,
che si gonfia di vento
e si pasce del fumo dell’arrosto,
con le vesciche piene di speranza,
che ha fede nelle bolle di sapone
che prima di arrivare
scoppiano per la via,
che con la bocca aperta
resta imbambolato da tanti e tanti
sfarzi, e per una pezza
vecchia con cui vestirsi,
e per succhiare brodo
da un tinello con un pezzo di pane
sereticcio e durissimo,
vende la libertà, che pure è cara!
Ebbene, se versasse
il solvente nel magico crogiolo
su tutto questo sfarzo, scorgerebbe
labirinti di frodi e tradimenti,
troverebbe, fratello mio, abissi
d’inganni e infingimenti, scoprirebbe
terre senza confine
di lingue mozze e aspre.
Ora si scorgerebbe
preso in palma di mano,
ora invece affondato –
ora caro e stimato dal padrone,
ora da lui schifato –
or pezzente, ora ricco –
ora grasso e allungato,
ora accorciato e tutto rinsecchito.
Serve, stenta, fatica,
e suda come un cane,
cammina più di trotto che di passo
e porta perfino l’acqua con l’orecchio:
ma perde tempo, opera e semenza,
tutto viene portato via dal vento,
tutto è gettato a mare.
Fai pure tutto quel che vuoi, ma sappi
che tutto è niente; fai sogni e progetti
di speranza, di merito e di stenti,
ma basta un poco di vento contrario,
e tutto quel che hai eretto crolla a terra.
Alla fine, ti ritrovi davanti
a un buffone, una spia, un Ganimede,
un gran coglione, oppure un bel cornuto,
che ha la casa con doppie porte ovvero
un uomo con due facce.
“Fratello, mi dai la vita!”, ho detto a Iacopuccio abbracciandolo. “Credimi, ho imparato più in questo poco di tempo ad ascoltarti, e più questa volta sola, di tutti gli anni che ho speso a scuola. Meglio di un consulto dottorale: Chi serve a corte, in un pagliaio trova morte”.
[II – continua]