La circostanza in cui feci la conoscenza dell’uomo che chiamavano “Marri” conserva ancora inalterata tutta la singolarità del suo destino. Avevo sedici anni e mi trovavo poco fuori la casa di un idraulico, nella parte alta del paese, quando lo vidi arrivare assieme alla moglie sulla loro moto a tre ruote, una sorta di piccolo motocarro che si allargava nella parte posteriore e di cui non vidi mai un altro esemplare simile. Lei era alla guida, mentre lui sedeva rivolto all’indietro, intento a guardare le case. Basso e gonfio, con i capelli neri impomatati, all’epoca avrà avuto poco meno di quarant’anni. Devo fermarmi un po’ sulla prima parte della sua vita, prima di cercare di capire la seconda.
Nato a Como, figlio di un commerciante di vino che si era poi trasferito da noi, aveva frequentato l’istituto tecnico commerciale su pressione dei parenti, arrivando fino al diploma. Non si può dire che fosse uno studente brillante, ma era serio e meticoloso, educato, a suo modo anche socievole. Da un suo ex-compagno di studi ho saputo che a volte, nella conversazione, il suo temperamento poteva mostrare un fremito nervoso, che rivelava una natura intimamente volitiva. Amava la tecnica aziendale, fatto che aveva spinto il preside a credere che suo padre avesse fatto bene a inscriverlo a quella scuola, anche se gli insegnanti non arrivavano a pronosticargli una carriera brillante nell’impresa di famiglia. Dopo aver mantenuto per anni un profitto discreto, arrivato in quarta incontrò alcune difficoltà, aggravate da una bronchite che in inverno lo tenne a lungo lontano dai banchi: a fine anno fu respinto. I compagni ricordano che nel gioco esibiva una strana economia di movimenti. Nel calcio, quando riceveva la palla, il controllo era così calibrato che si trovava poi nella necessità di affrettare precipitosamente il gesto successivo, col rischio di riuscire impreciso nel passaggio (anche se il più delle volte riusciva a cavarsela). Era comunque una brava persona e gli amici erano contenti di lui. Diligente, discreto, compensava le sue carenze con una condotta ammirevole.
Conclusi gli studi, fu esonerato dal servizio militare per una malformazione al torace. Molti credettero che sull’esito degli esami avesse inciso anche l’influenza di suo padre, che conosceva di persona l’ufficiale medico. Quando si trattò di entrare nell’impresa di famiglia, senza impiegare quello che riteneva un inutile spreco di diplomazia, il padre gli disse che aveva preparato per lui un posto da ragioniere, dove avrebbe potuto essere apprezzato a patto che non nutrisse altre ambizioni perché la direzione dell’azienda fra qualche anno sarebbe passata in mano a suo fratello minore, Piero. Marri ringraziò dell’offerta e rispose che un lavoro lo avrebbe potuto trovare anche da un’altra parte: perciò, fra lo stupore di chi lo conosceva poco, andò a impiegarsi nell’amministrazione di una grande segheria della zona.
Nel corso degli studi non era stato un ragazzo popolare fra le compagne, ma non gli mancarono alcune avventure. Fu ad esempio molto vicino a fidanzarsi con una sarta che lavorava in proprio e che poi si trasferì in Veneto. Era da quasi tre anni in servizio presso la segheria quando conobbe Rita, che aveva da poco assunto l’incarico di levatrice nel comune dove vivevamo e che sarebbe divenuta sua moglie. Originaria di Genova, proveniva da una famiglia di piccoli proprietari che si era trasferita a Trento. I suoi genitori erano morti quando lei era bambina. Alta, magra, con i capelli biondi raccolti a coda, Rita era una donna di bellezza dinamica e concreta, con un modo di fare persuasivo che trasferiva efficacemente nella sua professione. Con lei Marri cominciò a vivere una vita normale.
Fu proprio per ragioni legate al lavoro di Rita che da ragazzo li vidi arrivare in moto a casa di un’amica di mia zia Flavia, dove di lì a poco mia cugina avrebbe dato alla luce il piccolo Riccardo. Mentre la moglie era entrata velocemente, Marri era rimasto solo presso la moto, dalla quale era sceso circa venti minuti dopo, per sgranchirsi le gambe e parlare un po’ con noi ragazzi. La sua espressione interrogativa sembrava quella di un idiota, e tale infatti appariva anche nell’atteggiamento, tirandosi continuamente su i pantaloni e cerando di rimettere a posto la camicia. Guardava tutti con sospetto, ma soprattutto continuava a borbottare fra sé in modo poco comprensibile di una faccenda per la quale avrebbero dovuto assegnargli una medaglia, che più tardi cominciai a capire era diventata la sua ossessione.
Riporto ancora due aspetti della sua vita di allora, prima della svolta.
La famiglia di lui non si era opposta al matrimonio, che fu celebrato a circa due anni dal loro incontro. Dopo l’abbandono di Marri dell’azienda di famiglia, la furia del padre si era protratta per qualche mese, conservando un atteggiamento di totale chiusura verso il figlio, cui non fu permesso neppure di rimettere piede in casa (le prime settimane dormì in albergo: i vestiti glieli portò la madre). Alloggiò quindi in una camera posta al pian terreno della casa, un tempo riservata ai camionisti. In seguito il padre si riprese, più che altro trovò il modo di apprezzare la scelta del figlio, arrivando a compiacersi di aver favorito quel passo, dopo averlo messo davanti ad un’alternativa secca, senza sconti. Non aveva cambiato parere su di lui, lo trovava sempre troppo mediocre, solo un po’ più maturo. E questo risultato – diceva a se stesso – era anche merito suo. Così, quando si trattò di benedirne l’unione con una donna concreta, che godeva perfino di una piccola posizione, non trovò alcuna ragione di opporsi. La coppia andò a vivere in una vecchia casa ereditata dalla madre di Marri, cui erano stati fatti pochi interventi di risistemazione.
Nei primi anni di matrimonio, Rita lavorò molto: il paese cresceva, anzi in quell’epoca continuò a registrarsi un buon numero di nascite (l’inversione di tendenza sarebbe intervenuta qualche anno più tardi). La vita coniugale con Marri trascorreva serena, salvo per l’assenza di figli, elemento che pesò, almeno all’inizio, sulla loro unione. Marri conduceva un’esistenza molto regolare: seguiva con passione le partite della squadra di calcio del paese ed era entrato nel corpo volontario dei vigili del fuoco, nel quale aveva partecipato ad alcune manovre. Nella simulazione di incendio aveva recitato tanto bene la parte della vittima in preda al panico che a distanza di tempo tutti, e lui per primo, ancora ne ridevano. Se nei primi tempi in cui raccoglievo qualche informazione sui di lui mi avessero chiesto in quale frangente avrei preferito incontrarlo, avrei senz’altro risposto che mi sarebbe piaciuto sedere con lui al bar nei momenti in cui ricordava con gli amici una di quelle imprese.
Sul finire del mese di agosto del 1980, tre settimane dopo la conclusione delle Olimpiadi di Mosca, Marri fu trovato riverso a terra vicino alla più piccola delle due fontane funzionanti in paese, quella con la colonna di marmo sulla quale sono scolpiti due serpenti. Il corpo era disteso in obliquo rispetto alla base rettangolare della fontana, con il centro della schiena posto in prossimità dello spigolo destro più in basso. I soccorsi arrivarono tempestivi, lui si riprese a fatica e fu portato all’ospedale per i controlli di rito, dove fu dimesso quasi subito con qualche contusione. Risultò che non era svenuto, ma che si era semplicemente addormentato. Dalla risposta del maggiore dei suoi nipoti a una lettera che gli ho scritto nel merito, come pure dalla testimonianza unanime dei molti che lo incontrarono in quei giorni posso sicuramente sostenere che la sua perdita di lucidità fu sconcertante, rapida e completa, non avvenne in modo progressivo come in tante altre patologie: fu piuttosto una caduta improvvisa dalla quale in seguito non si riprese, né peggiorò. Era regredito a una fase infantile, in cui tutto ciò che lo circondava sembrava aver assunto un aspetto enigmatico. Come certi pazienti colpiti da ictus (patologia nel suo caso subito esclusa) che rimangono fermi sulla frase che stavano pronunciando nel preciso istante dell’insorgere del male, continuava ossessivamente a ripetere che per essere rimasto tanto a lungo accanto a sua moglie avrebbe meritato una medaglia. Quella che forse in origine era nata come una battuta, ora era diventata la manifestazione insistente di una necessità, la pena della sua condizione: come se il non aver ricevuto un riconoscimento rappresentasse un’ingiustizia che non sapeva superare, o più probabilmente, come se l’ingiustizia che aveva subito col suo crollo psichico fosse pari a un successo conquistato a fatica, strappatogli poi a pochi metri dal traguardo.
Rita lo portò da vari medici i quali gli prescrissero una serie di terapie farmacologiche che non portarono a miglioramenti sensibili: ingrassò, ma non recuperò il terreno perduto. Camminava ciondolando, guardava a terra, raccoglieva sassi, piccoli oggetti per lui indispensabili e si tirava su i pantaloni. In certi giorni, a momenti, nel suo discorso sembrava riaffacciarsi l’ombra di un ragionamento complesso, ma il più delle volte la costruzione non si concludeva. Per il resto era rimasto di temperamento socievole, come era stato nel corso della sua giovinezza, ma tormentato da un’angustia segreta.
Rita lo portava sempre con sé. Lo accudiva e cercava di curarlo, tenendogli per quanto possibile impegnato l’ingegno e sottoponendolo ad esercizi presi dai libri di testo delle scuole elementari. Lui, però, mostrava di annoiarsi. Marri usciva di casa guardando in aria, sempre pulito, inappuntabile, con quell’eccesso di ordine che si coglie talvolta nell’abbigliamento di certi malati di mente. La accompagnava nel suo giro di visite, oppure si accomodava nella sala di aspetto dell’ambulatorio. L’attesa era diventata la sua unica, vera occupazione: passava ore ed ore nella speranza che lei tornasse e ripeteva, appunto, che per questo avrebbe meritato una medaglia. Due giorni in settimana li trascorreva in un centro diurno.
La famiglia di Marri reagì dignitosamente. Di fronte alla disgrazia il padre volle dar mostra di fare quanto dovuto. Andò a trovarlo, pagò qualche visita, offrì il suo appoggio. Non era rimasto troppo stupito della caduta di Marri perché nel suo pensiero l’aveva sempre compresa nell’ambito dei possibili, ma identificandosi totalmente nella famiglia non poteva smettere di soffrire per quanto era successo, come se fosse stata colpita una parte, sia pure marginale, del proprio corpo. Così si era sorpreso di dover provare un dolore simile. Piero gestiva l’azienda e con moglie e tre figli doveva curarsi anche della casa. La madre, dopo un primo interessamento attivo, che l’aveva portata ad accompagnare Rita nelle varie visite presso stimati psichiatri e neurologi, si era rifugiata nella preghiera. Lentamente, la famiglia si richiuse in se stessa.
Trascorse molto tempo. Dopo qualche anno di malattia, un po’ più avanti rispetto alla nascita del piccolo Riccardo, si sparse la voce che Rita avesse stretto una relazione con un elettricista, rimasto vedovo un paio d’anni prima, con un figlio neonato. L’uomo abitava nella parte alta del paese, non lontano dalla casa di mia zia. Quando Rita si recava dall’elettricista per visitare il bambino che veniva cresciuto dalla nonna paterna, si tratteneva sempre un po’ più a lungo del necessario. Marri aspettava fuori, nei pressi della moto, andava avanti e indietro o disponeva in terra il suo mazzo di carte in una forma elementare di solitario che prevedeva semplicemente di allinearle e poi di scoprirle. Rita usciva di corsa, accaldata, contenta, energica; lui raccoglieva le carte, si accomodava sulla parte posteriore della moto e insieme riprendevano il giro.
Lei era riuscita ad affermarsi in un contesto che non era il suo, senza poter contare su particolari appoggi (i rapporti con i medici erano infatti rimasti sempre molto formali). La malattia del marito consolidò la sua reputazione, che non fu poi intaccata troppo incisivamente dalle voci di una possibile relazione clandestina, la quale sembrò per lo più tollerata, anzi giudicata da alcuni comprensibile, visto lo stato in cui era costretta a tirare avanti. Molte donne la ammiravano. Nella sua aspirazione all’onorificenza, però, anche Marri guadagnò un po’ di credito.
Poco dopo aver concluso gli studi superiori, cominciai a scrivere per un quotidiano che ogni domenica mi spediva sui campi da gioco, dove curavo la cronaca degli incontri di calcio delle categorie dilettantistiche. Guadagnavo pochissimo, ma pensando di dover cominciare da una parte o dall’altra, accolsi l’incarico come un’opportunità (che in realtà non si rivelò mai tale). Fu lì, nella seconda stagione, sul campo della miglior squadra del circondario, che incontrai più volte Marri, invecchiato, ma sempre composto. Se ne stava in un angolo della tribuna, seduto su un cuscino del Milan, dal quale si muoveva solo nell’intervallo fra primo e secondo tempo, quando scendeva fino al piccolo bar della società sportiva dove gli offrivano un tè caldo. Andando dal direttore di gara per raccogliere le formazioni delle squadre, alcune volte gli passai accanto mentre stava seduto al tavolo, piegato sopra il giornale e chino con la testa sulla tazza di tè che bevendo quasi non sollevava. Fu lì che lo vidi per l’ultima volta. La stagione successiva lasciai il giornale.
Sei anni dopo, il maggiore dei suoi nipoti mi scrisse, non per parlarmi dello zio – benché nella lettera facesse esplicito riferimento al suo intervento in risposta al mio interesse per Marri – ma per chiedermi un parere su una sua raccolta di poesie, che intendeva presentare a un concorso. Accolsi la lettera con un certo fastidio, perché era chiaro che non era interessato alla mia opinione, quanto alla possibilità di promuovere il suo lavoro (mi chiedeva infatti di indicargli gli indirizzi di alcuni possibili recensori). La lettura della raccolta aumentò il mio disagio: le poesie erano pessime. Digiuno di conoscenze letterarie – come di nozioni metriche, che reputava inutili – mi fece il nome di due poeti noti a livello locale, dei quali vantava l’amicizia. Lo liquidai come uno dei tanti alfieri del sentimento convenzionale che la stagione aveva favorito. Quasi come allegato al suo libro, aggiungeva alcune considerazioni sull’ultimo periodo di vita dello zio, facendo intendere che, nel caso avessi avuto bisogno di lui, avrebbe potuto fornirmi ulteriori indicazioni.
Morti i genitori di Marri, Rita continuò a portarlo due volte in settimana a Trento, presso un centro per malati psichici, cui arrivava con la sua vecchia Citroen. Lui trascorreva le giornate facendo lavori nell’orto, oppure dipingendo piccoli fogli di vetro, o tessere di ceramica destinate a qualche mosaico. Rita aveva così un paio di giorni liberi, che impiegava per lo più sbrigando faccende burocratiche (cercava però di pensare un po’ anche a se stessa, per cui spesso tornava subito in paese). Tentando di andare incontro alla grande ossessione di Marri, in occasione di un loro anniversario di matrimonio gli regalò una medaglia d’oro, che lui prese in mano con grande curiosità e timore. Rimase a lungo a rigirarsela in mano, valutando mentalmente il pregio del riconoscimento. Poi, guardando verso la moglie, commentò che per essere rimasto proprio accanto a lei avrebbe potuto meritare di meglio. Rita ne rise molto, perché le sembrò che la risposta fosse uno dei pochi pensieri perfettamente riusciti di Marri, che ormai per infilare un ragionamento poco più che elementare doveva cogliere il centro di un bersaglio sempre più lontano. (Questa l’ho saputa da un’ex-collega di Rita).
Rimasta per molti anni intatta, la condizione fisica di Marri peggiorò d’un tratto precipitosamente verso il sessantesimo anno di età, tanto che dovette essere ricoverato prima in ospedale, poi in una casa di cura. Viveva ormai in stato di pressoché totale incoscienza. Rita gli rimase sempre accanto. Consumate le ferie, che per la prima volta nella loro vita insieme non li vide raggiungere la costa adriatica, chiese ed ottenne un periodo di aspettativa. Il marito morì sei mesi dopo e fu sepolto in paese al termine di una cerimonia funebre che ebbe molto seguito. Io all’epoca mi trovavo in Germania per motivi di lavoro, ma alcuni mesi più tardi, al bar, ascoltai un racconto estremamente dettagliato dei suoi ultimi giorni e del funerale. Il vero nome di Marri era Mario, storpiato molto tempo prima della sua malattia dai suoi compagni di giochi secondo le vie dell’immaginazione popolare, che sa produrre un soprannome nei modi più inattesi.
Nessuno fra quelli che interrogai volle parlare della malattia, considerando la sua condizione – di cui avevano rispetto – come il naturale sviluppo della sua personalità. Non era mai diventato lo scemo del villaggio perché nella sua ossessione e nella sua costanza tutti avevano potuto misurare una dignità rimasta integra. Aveva avuto una vita difficile: tutto qui.
Quasi tre anni più tardi, concluso abbondantemente il periodo del lutto, Rita andò a vivere con l’elettricista che aveva frequentato, prima con molta discrezione, poi più apertamente. Di comune accordo, non si risposarono.
Il giudizio sulla raccolta di poesie del nipote di Marri mi ha privato delle informazioni supplementari sulla vita dello zio. Il libro ha avuto scarso successo, e credo sia noto a una cerchia di lettori assai ristretta, se si eccettuano le persone cui l’ha distribuito gratuitamente. Per molto tempo, incontrandomi in strada, il nipote mi ha volutamente ignorato. Ora mi saluta, ma non credo che abbia alcuna intenzione di dimostrarmi la sua amicizia, né d’altra parte potrei essere io ad andargli incontro. A mia parziale discolpa, dopo aver confessato tutti i difetti del mio carattere, posso solo dire questo: bisogna cercare la poesia dove la si trova, non dove si presume di trovarla.