Né cronachistico, né accademico, lo spirito che muove chi collabora ad una rivista è vicino a quello dello scrittore che, selezionato il tema sulla base del quale si cimenterà ad immaginare il suo rapporto con il mondo, non si propone di pervenire a delle risposte, ma solo di suscitare nuove domande.
La stessa finalità caratterizza la scrittura saggistica, di cui la rivista letteraria rappresenta il principale canale di diffusione. Questa finalità appare evidente, ammesso di non ridurre la nozione di saggio all’idea che ne viene propagata dall’attuale universo editoriale-commerciale, di genere scientifico o divulgativo.
I prodotti libreschi che – in libreria o nelle classifiche – troviamo oggi alla voce «saggio» sono molto diversi tra loro e, in generale, l’unica caratteristica che sembra accomunarli è quella di porsi oltre la letteratura; a meno di non considerare – equivoco tipico dei nostri tempi – tutto quanto sia stampato arte letteraria.
Ora, il testo che scegliamo di presentare in apertura del nuovo numero di «Zibaldoni e altre meraviglie» è la traduzione in italiano di un articolo che lo scrittore canadese François Ricard (autore, tra gli altri libri, di La Génération lyrique e L’ultimo pomeriggio di Agnes: saggio sull’opera di Milan Kundera) ha pubblicato sul numero 50 (giugno, 2007) della rivista «L’atelier du roman» (edita da Flammarion a Parigi) e si intitola La solitudine del saggista.
È stato composto in occasione del simposio che la rivista parigina organizzò nel 2006 attorno al tema «Romanzo, saggio: affinità elettive» e a cui parteciparono scrittori e critici letterari di tutto il mondo, collaboratori attuali della rivista.
Nel suo articolo, Ricard riconsidera i vari clichés che riguardano oggi il saggio e, rifiutando la sua comune interpretazione come genere sommariamente divulgativo, gli riconosce invece la qualifica di vera e propria arte letteraria, come lo sono la poesia o il romanzo; per Ricard, il saggio è un’arte caratterizzata da una propria tradizione e una precisa origine (l’opera di Montaigne) e il cui obiettivo sarebbe rivelato dal suo stesso nome: quella parola, «saggio», derivante dal verbo «saggiare», il cui significato può essere inteso nel senso di «sperimentare», «soppesare», ipotizzare il peso specifico di qualcosa, senza la pretesa di conseguirne una sistemazione definitiva.
Oltre alla nozione di «saggista», il titolo dell’articolo di Ricard pone l’accento su un altro concetto: quello di «solitudine».
Solo, il saggista “puro”, nel senso di colui «che si crede o vuole essere un saggista, allo stesso modo in cui altri sono poeti, romanzieri o drammaturghi», lo è – spiega Ricard – perché, rispetto al generale fraintendimento di cui risulta vittima oggi il saggio, è l’unico a riconoscerne il valore, a confronto con le altre arti, e la specifica valenza conoscitiva; il solo a sapere che esistono dei particolari risvolti dell’esistenza che non sarebbe possibile cogliere, se non attraverso la pratica del saggio.
Ma la solitudine non esprime una condizione necessariamente negativa.
Al contrario, essa implica la possibilità di un rapporto con se stessi che costituisce il presupposto e, allo stesso tempo, la meta di ogni avventura saggistica: «Lettore, sono io stesso la materia del mio libro», avvertiva Montaigne nel prologo ai celebri Saggi, opera in cui pur aveva passato in rassegna quasi tutto lo scibile umano disponibile all’epoca in cui scriveva (la seconda metà del XVI secolo), apparentemente parlando di tutto tranne che di sé. Tuttavia, solo apparentemente, visto che propria del saggio è la desistematizzazione costante del sapere, ottenuta attraverso la sua riconduzione al concreto della propria esperienza.
Solitudine, dunque, come possibilità di allontanarsi dal brusio del già detto per offrirsi l’occasione di restare in ascolto del proprio pensiero originario, nella cui ricerca consiste l’essenza dell’esperienza saggistica (per Marek Bieńczyk, «la forma saggistica corrisponde nel modo più profondo alla condizione umana»).
Virginia Woolf ricordava la necessità, per poter essere liberi di pensare e scrivere, di disporre di «una stanza tutta per sé».
Contro l’imperativo dell’aggregazione, imposto dai vari media e social networks, i saggi e le riviste letterarie sono oggi uno degli ultimi pochi strumenti rimasti a favorire l’accesso a questa stanza.