Quassù, dalle mie parti, vivono personaggi che vale la pena braccare. C’è ad esempio un tizio, un vecchietto tutto rughe, pallido come un agonizzante, che si fa spesso vedere ai vernissages e alle premières – ovunque ci sia da scroccare cibo e vino gratis. Non gli importa nulla di quadri, libri, conferenzieri: se ne sta in disparte e aspetta che l’evento abbia fine per buttarsi prima di tutti gli altri sul buffet. Si ficca in bocca manate di salatini e dolciumi, senza fare distinzione, e reclama bicchieri di vino dal cameriere – e man mano che l’alcol lo rende audace, la voce gli si fa sempre più imperiosa, le richieste sempre più ostinate. Quello che non ingurgita lì per lì se lo preme nelle tasche dell’impermeabile, poco importa se si tratta di roba unta. Non lascia avvicinare gli altri: piccolo e gracile com’è, si impone a tutti, e corre da un punto all’altro della tavolata dei rinfreschi per mettersi davanti ai convenuti e impedire loro di allungare la mano sui vassoi.
Certi miei amici artisti hanno finito per considerarlo una mascotte. Se non lo vedono arrivare alle loro presentazioni ci rimangono male, e, per effetto di quella insinuante superstizione che coglie anche i più sofisticati, finiscono per divenire pensosi, pessimisti, distratti, scostanti. Tra loro, inteneriti, nei salotti, si raccontano gli exploit del vecchietto, si dilungano sullo sguardo, su quel suo passo incerto, sulla forza prodigiosa che sa tirare fuori inaspettatamente quando crede che qualcuno gli voglia sottrarre le pizzette. Io, quel vecchio scroccone, lo detesto. Più di una volta l’ho mandato via di malo modo, e una volta – ma non ne vado fiero, lo racconto solo per amor di verità – ho cercato pure di lanciargli in faccia un mio libro, mancandolo. I miei amici, invece, gli regalano i loro libri o i loro quadri, e non sanno che lui, invece di leggerli, li venderà per comprarci le sigarette.
Bene, oggi ho deciso di seguire il vecchio scroccone. Lo pedinerò di nascosto, per ore, finché non scoprirò tutti i suoi segreti. So dove trovarlo: di solito ciondola nei pressi della saletta ristoro della biblioteca, dove scrocca caffè e panini e sigarette agli avventori più sprovveduti. Ha un modo tutto suo di guardarti negli occhi, con un’espressione umida e dolente, che ti fa sentire un criminale se non gli allunghi gli spiccioli per un caffè o mezzo pacchetto di sigarette, che poi lui arraffa senza dir grazie, per passare poi a inumidirsi gli occhi dinanzi a qualcun altro. I ragazzi stranieri che passano i pomeriggi in biblioteca perché non sanno dove altrimenti andare ci cascano subito: non hanno quasi soldi in tasca per sé, ma quel parassita mellifluo li costringe a tirar fuori il poco che hanno.
Lo trovo lì, infatti, che fa la posta a un paio di studenti universitari. Questi, per toglierselo dalle balle, gli hanno appena allungato un euro, che lui ha infilato subito nella macchinetta dei panini. Ora pigia pulsanti un po’ a caso, sconcertato che tutto quello che desidera maggiormente costi di più di un euro. Sta per elemosinare un altro euro agli studenti, ma questi, che hanno finalmente capito, se ne vanno. Lui resta lì, vicino alla macchinetta, in attesa di qualcun altro a cui spillare quel che manca.
Lo osservo da dietro l’angolo. Cammina in cerchio, nervoso, le mani incrociate dietro alla schiena. Sotto la luce impietosa della saletta, il suo spolverino appare sudicio, la sua testa incrostata, le scarpe sfondate. Ora si mangia un’unghia, ora un’altra. Passa dalle unghie alla pellicola attorno alle unghie, poi alla pelle annerita dei polpastrelli. Il suo sguardo cade spesso alla merendina che ha prescelto, ma che non scende ancora. Lui gira su se stesso. Gli animali allo zoo fanno così – quelli che la cattività ha reso folli.
Arriva finalmente un tizio di mezz’età che è tutto uno sbadiglio. Non fa in tempo ad avvicinarsi alla macchinetta del caffè che il vecchio gli si butta addosso e con una vocetta querula lo implora – gli impone – di aggiungere un euro al distributore delle cibarie. La sua giustificazione, che dal mio angolo è inintelligibile, dura qualche minuto, e sembra stordire ancora di più il nuovo arrivato, che alla fine estrae dal portamonete un euro e lo inserisce nella macchietta. Lo sguardo avido del vecchio parassita segue quell’euro fino a che non sparisce nel distributore. È pronto per richiedere con un dito il panino imbottito, e a seguirne la caduta fino al contenitore in fondo.
Mangia quel panino in tre bocconi. Magro com’è, si riempie le gote di cibo, e prima si fa sparire dalle mani il panino, forse condizionato dall’atavico timore che qualcuno possa sottrarglielo, poi, una volta ingozzatosi di quel pane a buon mercato e di quella fettarella di prosciutto, resta a ruminare per qualche minuto, gli occhi persi nel vuoto, la bocca impossibilitata a dire un grazie, o un crepa.
Dal mio nascondiglio, sbircio quella creatura selvatica, che solo uno spolverino bisunto consente di assimilare agli esseri umani, e non agli animali che in una savana si contendono il cibo a rischio della vita – uno spolverino e pochi altri cenci. Affascinante a modo suo, la creatura. Solitaria, sgraziata come uno spazzino delle savane, come un marabù, o una iena, e insieme ferocemente ostinata nella caccia come un predatore e pervasa da tremori e spaventi come una preda. Per questo non viene spontaneo rivolgergli la parola, ma piuttosto attenzioni adatte a una bestia – il lancio di un pezzo di cibo, o un calcio, a seconda delle circostanze.
Ecco, l’animale ha finito la sua ruminazione. Quando entra qualcuno si ritrae in un angolo, per procedere indisturbato con il pasto – non è il momento di scroccare, non gli riesce di parlare e piatire con la bocca intasata di pastone. Si pulisce tra i denti con un dito, poi con due, si succhia le dita, infine se le passa sullo spolverino. Si guarda attorno come se fosse pronto a ricominciare a scroccare – ma non passa più nessuno.
È il momento di andarsene, finalmente. Mi nascondo dietro una porta, mentre lui esce a passetti irregolari dalla saletta; e quando imbocca l’uscita della biblioteca, lo seguo.
Non è difficile pedinare qualcuno, mi dico. Basta mantenere una giusta distanza, evitare di attirare l’attenzione, avere sempre a disposizione qualche provvisorio nascondiglio, e strisciare lungo i muri. Se la preda si volta e vi guarda con aria interrogativa, voi avrete sempre un repertorio di gesti, risponderete al telefonino, ammirerete una vetrina, o in mancanza di questa un manifesto, un albero, un muro, qualsiasi altro dettaglio vi possa mettere a disposizione l’ambiente in cui vi state muovendo. Al limite, se non avete a portata di mano che un altro passante, vi fermerete a parlare con lui, come se si trattasse di un caro conoscente – chiarirete con lui velocemente l’equivoco in pochi secondi, una volta che l’inseguito avrà ripreso il suo percorso.
Il suo passo irregolare da anima in pena, da Monsieur Hulot all’inferno, mi conduce a poco a poco verso la periferia. So che abita in un alloggetto di una palazzina quasi fuori città, dove, in virtù di certi privilegi fiscali che ora non ricordo, non ha mai pagato una lira di affitto. Prima con la vecchia madre, poi con la madre vecchissima, poi, si racconta, con la madre morta, ma senza che il decesso fosse dichiarato per un certo tempo, in modo da continuare a percepire la pensione di invalidità della defunta e pure quella di reversibilità risalente a un padre misterioso di cui nessuno, nemmeno le comari più impiccione, hanno mai saputo nulla. Pare che non abbia mai lavorato in vita sua, nemmeno un giorno, e che dalla madre abbia imparato l’arte di approfittare della benevolenza altrui.
Eccolo rallentare, in prossimità dei cestelli delle immondizie: sbircia dentro, annusa (forse prima annusa, poi sbircia, come appunto una bestia), e se vi avverte qualcosa di appropriato vi rovista a piene mani; ne estrae sacchetti di avanzi, resti di tranci di focacce, anche qualche oggetto che potrebbe tornargli utile. Poi riparte. Di fronte a un paio di negozi di alimentari si blocca, torna ad annusare l’aria, entra a testa bassa: ne esce dopo vari minuti, con un sacchettino quasi vuoto, in cui ciondolano le poche cose che dev’essere riuscito a farsi dare gratis. Poi via, quasi di corsa.
A tre passanti chiede qualcosa – spiccioli, forse, o sigarette. Due degli interpellati gli allungano una sigaretta, che lui si ficca in bocca subito, e da cui, dopo che l’altro gli ha allungato anche un cerino o un accendino, inspira avido.
Il suo tragitto è irregolare e imprevedibile come la sua andatura. Più volte torna sui suoi passi, o procede per piccoli cerchi nel labirinto di viuzze che dal centro alla periferia si dipartono dai viali principali – stradine di asfalto vecchio, riconquistate dalle erbacce, che portano a case lontane, a depositi, o a orti e prati, e tendono a diventare quasi sentieri. Mi coglie un senso sempre più forte di esasperazione. Quel vecchio sembra non avere casa: sembra vagare alla ricerca di un rifugio, piuttosto, o, per insistere con le immagini animalesche, una tana. Vorrei corrergli dietro, raggiungerlo, strattonarlo e chiedergli di brutto se mi sta prendendo in giro, o se non gli sembra di avere perso tempo abbastanza.
Alla fine, in una zona esposta, e quando ormai è sera, lui si volta, torna indietro, mi corre incontro, e si ferma giusto dinanzi a me. I suoi piccoli occhi febbricitanti mi fissano dal basso. Non ho spicci, dico subito, come se me lo avesse chiesto. Mi spiace, aggiungo.
Lui mi fissa, il capo inclinato, gli occhi cespugliosi e grigi di forfora, e non dice nulla.
Mi accorgo che l’odore vago di sentina che attribuivo ai prati che costeggiano le periferie proviene da lui, che ora emana un tanfo quasi tattile semplicemente respirando. Un vecchio animale solitario e presumibilmente malato, ecco come mi appare – innocuo, pure, per chi si sa tenere alla larga.
Mi sento scoperto, e sto per giustificarmi, per scusarmi anzi, con qualche frasetta buttata lì alla bell’e meglio, quando lui scivola via, alle mie spalle, e si allontana lungo il percorso che abbiamo fatto sin qui. Punta di nuovo alla città, parrebbe. Lo seguo con lo sguardo, sbuffo, riprendo il cammino dietro a lui con l’aria di badare ad altro.
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