Mi sento abbattuto di fronte all’automatismo che ci spinge a cercare sempre nel passato le ragionidi una situazione che ha luogo nel presente. Tutto sommato è qualcosa di più profondo e più potente di un semplice automatismo, di un’attività dello spirito resa meccanica dall’abitudine. È una faccenda d’immaginario collettivo, cioè di qualcosa che contiene e struttura i nostri rapporti con il mondo. Chiamiamolo «immaginario del principio». Non si tratta forse di quello stesso immaginario che governa la Bibbia, la maggior parte della filosofia e le scienze antiche e moderne, psicanalisi inclusa? Non è forse questo che contiene sia il peccato originale dei cristiani che il big bang degli astrofisici, per limitarci a questi due ‘principi’ tanto significativi per la nostra civiltà? E l’arte? Essa fa parte di questo immaginario? Dipende dall’arte di cui stiamo parlando. Se pensiamo all’epopea, alla tragedia e alla poesia lirica, è chiarissimo: esse sono inconcepibili al di fuori di esso.
Prendiamo per esempio l’Odissea e in particolare i due temi maggiori che s’intersecano attraverso l’intero poema: la ricerca di suo padre da parte di Telemaco e l’incurabile desiderio di Ulisse di fare ritorno alla sua isola natia. È Atena che, all’inizio dell’opera, suggerisce a Telemaco di partire alla ricerca di notizie sulla sorte di suo padre. Ed è sempre lei che cerca di placare la collera degli dei ostili a Ulisse, così ostili da opporsi all’idea che egli possa un giorno concludere felicemente le sue peripezie. Non è poco godere del favore di Atena. È un dato che il lettore ha a disposizione sin da quando si alza il sipario del poema. Qualunque cosa accadrà, egli giustamente pensa, la dea riuscirà a imporre la propria volontà. Ma perché ella inizia dal rinfocolare in Telemaco la nostalgia per il padre? Due personaggi astuti (uno, Atena, nell’alto dei cieli e l’altro, Ulisse, quaggiù) che lottano contro venti e maree, non sono sufficienti per far sì che il rimpatrio avvenga, e l’operazione si concluda felicemente? Certo che sì, ma in tal caso la storia morirebbe lì: con Ulisse e il suo obiettivo inalterabile di tornare al suo focolare, alla sua donna, ai suoi ulivi e alle sue pecore. Non sarebbe la prima volta che un dio si commuove dall’avversa fortuna di un mortale e lo prende sotto la sua protezione. Ulisse avrebbe infine ottenuto ciò che aveva così fortemente desiderato e il lettore si sarebbe intrattenuto piacevolmente leggendone le straordinarie peripezie. Ma ecco che, contro ogni aspettativa, Atena dà inizio alla sua strategia mettendo il figlio sulle orme del padre scomparso. Come setoccasse a Telemaco salvare il padre dalle trappole degli dei. Sebbene non abbia un ruolo attivo nella salvezza di Ulisse, nondimeno Telemaco è indispensabile per l’opera letteraria: sono i suoi vagabondaggi, il suo desiderio di sapere del padre e la sua speranza di ritrovarlo che dànno al pericoloso viaggio di Ulisse un significato universale. La presenza di Telemaco fa sì che il racconto non si riduca mai a un semplice accumulo seriale di avventure. Tra il padre sempre a un passo dalla morte e la sua destinazione finale, si frappone la figura del figlio, lo sguardo del figlio che cerca di bucare l’opacità del mondo e di riunirsi a suo padre. È questo ritorno che potremmo chiamare archetipico, primordiale, del figlio al padre, questa ostinata ricerca del genitore, che crea la bellezza unica del canto omerico. Grazie a Telemaco il senso dell’opera trascende l’aneddotico: l’ardente desiderio di Ulisse di far ritorno al suo amato focolare. Certamente, il padre giungerà indenne e vittorioso alla fine del suo viaggio. Ma è il figlio che crea il movimento, il suo ruolo è essenziale. Telemaco non aspetta con pazienza – un ruolo che tocca invece a Penelope, la sposa fedele. Si mette invece in cammino e, così facendo, assume un ruolo simile a quello di suo padre. Inoltre, per il suo ruolo di figlio, Telemaco è anche la voce interiore che costantemente richiama Ulisse verso Itaca. Ulisse vive la nostalgia a un livello per così dire pratico; Telemaco la trasforma in simbolo. Dal padre al figlio, dal figlio al padre, il ritorno di cui tratta l’Odissea evoca un destino umano che, generazione dopo generazione, si rinnova. La morale: che si tratti di un’isola natia, di un padre o di chissà che altro, ci sarà sempre da qualche parte un richiamo per ognuno di noi. La cui forza, al contrario di quanto avviene per quella gravitazionale, è tanto più grande quanto più vaghiamo lontani dal luogo dal quale proviene il richiamo.
La discendenza, la filiazione, così ben rappresentata nell’Odissea è un elemento fortemente legato alla letteratura europea, della quale costituisce la metafora per eccellenza, incarnando l’immagine del principio. Così l’estetica, su questo punto cardine, sembra essere tutt’uno con il sapere e la fede: l’estetica sottolinea e riproduce con le sue tecniche il peso determinante del passato sul presente. Di fronte a una simile concordanza di fondo tra scienza, religione e arte si deve concludere che, contrariamente a quanto ho affermato, il principio non è legato all’immaginario, cioè a qualcosa che deriva dalla creatività umana, bensì è un fondamento ontologico, universale, eterno, intoccabile. Quindi come addentrarsi nell’ipotesi di un immaginario diverso? Certo, come provocazione giocosa questa ipotesi è sempre concepibile. Tuttavia non compete all’analisi estetica creare le condizioni reali per un immaginario diverso da quello che sembra funzionare così bene: questo è il compito dell’opera d’arte. E se si trattasse di questo? Se il romanzo fosse esattamente quell’arte che va contro l’immaginario ereditato? In tal caso non si dovrebbe, se si crede al ruolo essenziale della critica, prima di analizzare le opere particolari, prima di scrivere manuali di storia letteraria, prima di scrivere tesi, articoli e recensioni, prima di svolgere ogni tipo di ricerca (storica, psicanalitica, sociologica, linguistica e così via), prima di tutto questo non si dovrebbe innanzitutto seguire il romanzo nella sua ribellione? Detto in altri termini: fintanto che la scienza letteraria rimane soggetta all’inerzia esercitata dall’immaginario del principio, essa sta di fatto tradendo il romanzo.
Quindi ricominciamo dall’inizio. Torniamo al primo capitolo di Pantagruele: Origine e antichità del gran Pantagruele. La storia ha inizio, dice Rabelais, «poco dopo che Abele fu ucciso da suo fratello Caino». 1Era stata un’annata eccezionale: con tre nespole si riempiva una botte, ferragosto cadeva di Maggio e sulla terra comparivano esseri bizzarri, tra cui giganti dagli immensi corpi. Il primo fu Chalbroth, «che generò Salabroth», 2 scrive ancora Rabelais, «che generò Fariboth […] che generò Grangola, che generò il nobile Pantagruele, mio padrone». 3 Ricalcata sul primo capitolo del Vangelo secondo Matteo questa litania genealogica di cinquantotto generazioni è stata perlopiù interpretata come una parodia, il che non è affatto sbagliato, ma, a mio avviso, in questa parodia si annida il nocciolo formale dell’intero universo romanzesco.
Innanzitutto osserviamo l’importanza che assume ora il figlio, in netto contrasto con il modello omerico. Il primo libro gli è interamente consacrato, sin dal titolo: Pantagruele re dei Dipsodi restituito al naturale con le sue gesta e prodezze spaventevoli. Così, nella storia dell’arte, il figlio nasce prima del padre, e poco importa se le edizioni ulteriori ristabiliscono l’ordine biologico e pongono Gargantua al primo posto. Nel 1532, al principio era Pantagruele. Gargantua ‘nascerà’ due anni dopo. Certamente, se ragioniamo così anche Telemaco precede Ulisse, ma nell’Odissea l’inversione dell’ordine di presentazione è funzionale a preparare l’apparizione di quest’ultimo. Telemaco si fa avanti per primo, ma è la filiazione che ne esce rafforzata. Tra lui e Ulisse non ci sarà una rottura significativa; padre e figlio formano un’unità tanto a livello estetico che di senso. Telemaco resterà per sempre all’ombra del padre. Pantagruele no, anche se la dettagliata presentazione del suo albero genealogico potrebbe dare l’impressione che Rabelais stia adottando il modello dei suoi antenati letterari. Anche se Pantagruele, come presto potrà constatare il lettore, nutre sincero rispetto per il padre, obbedendogli, difendendo generosamente il suo regno, aiutandolo a consolidare il suo potere. Nonostante tutto ciò, le prime impressioni sono sbagliate e ingannevoli. La novità di cui parlo fa bella mostra di sé nel primo elenco di Rabelais. Sia chiaro che non sto pensando agli effetti della parodia. Non è parodizzando un modello che possiamo cambiarne la logica interna, ovvero non è con la satira della filiazione che si renderà marginale il ruolo tanto centrale del padre e, più in generale, uscire dalla logica del principio come unico portatore di senso.
Di solito, quando si disegna un albero genealogico, radici, tronco, rami e fogliame formano un insieme coerente. È quantomeno difficile immaginare le foglie di una linea che nascono dai rami di un’altra. Sarebbe come se Matteo l’evangelista, nel riportare la genealogia di Cristo, ci avesse infilato dentro Socrate, o Zoroastro. Ma non importa, perché quanto è proibito alla biologia e alla storia sacra è permesso alla botanica e alla letteratura grazie all’innesto. È quanto accade con la commistione di registri, molto amata da Rabelais, è grazie all’innesto che un gigante della Bibbia può essere l’antenato di una serie di giganti appartenenti alla mitologia antica, i quali a loro volta portano agli eroi dei romanzi cavallereschi, e il tutto è cosparso di giganti mai visti prima negli annali della gigantologia. Certo, l’innesto non può spiegare tutto. Tralasciamo il fatto che già solo il mescolare a nomi consacrati altri inventati destabilizza la metafora dell’albero. Diciamo però che l’albero è ancora in piedi. Ma lo è davvero? E su che suolo poggia? Quali sono le sue radici? Da quale seme esso si è eretto, chi è il fondatore della stirpe? Per il Cristo, stando a Matteo, è Abramo. Per Pantagruele è Chalbroth; il quale non è in alcun registro o elenco. Prima constatazione: l’albero in questione ha le sue radici nell’immaginazione dell’autore. È un albero fittizio che non risale a un tempo precedente al prezioso istante della sua invenzione. Sin dal primo capitolo di Pantagruele il lettore, quindi, assiste a uno sconvolgimento di conoscenze estetiche mai più mutate dopo le peregrinazioni di Ulisse. Perché fino alla comparsa di Chalbroth è sempre stato il passato a garantire l’autenticità dei personaggi letterari. E anche quando era il presente, si trattava di un presente debitore dei significati del passato. Ora, in Pantagruele, questa specie di chiarimento della scena letteraria tramite il passato non è più necessario. Il padre di tutti i giganti è un prodotto della rêverie di Rabelais: Chalbroth. Quanto a Pantagruele, il personaggio principale, ha un bell’essere personaggio del folklore medievale, perché la genealogia di Rabelais lo designa ormai come discendente, secondo i codici letterari in vigore, di un essere irreale, ovvero di un essere che non è né mitico né storico. Ma se le cose stanno così, dov’è questa famosa novità?, si ribatterà. Non è sempre stata questo la letteratura, un’invenzione dello spirito che mischia forme dell’immaginario collettivo con quelle che nascono instancabilmente nell’immaginazione individuale? Certamente, però è grazie a Rabelais che viene reso esplicito questo punto, che l’arte, per così dire, poggia sul suo essere, che l’arte sottolinea la propria autonomia. Si può notare di sfuggita che Rabelais non si rivolta contro il passato. Non scarta le fonti, ci gioca.
Probabilmente verrà il giorno in cui uno di questi infaticabili specialisti ci mostrerà che Rabelais non ha inventato Chalbroth, che questo gigante era noto agli antichi tibetani o agli aztechi. Fino a che ci sarà ricerca, bisognerà aspettarsi di tutto. Allora in quel giorno la mia ipotesi dell’elenco rabelaisiano come inizio di una nuova era per i personaggi letterari, come svolta significativa nei loro rapporti con il passato, crollerà? Non lo credo. Perché Rabelais in persona sembra aver preso i suoi provvedimenti contro i ricercatori del futuro. Al punto che se anche gli verranno sottratte tutte le sue innovazioni, una resterà del tutto sua. Si trova all’altra estremità della lista, alla sua fine: «[…] che generò Grangola, che generò Gargantua, che generò il nobile Pantagruele mio padrone».
«Il mio padrone», dice l’autore. Proviamo ad ascoltarlo. Proviamo a comprendere questo istante unico, nel quale qualcosa si crea. Qualcosa che si crea ex nihilo. «Il mio padrone», dice: e cosa importa la Bibbia? Cosa importano i romanzi di cavalleria, la letteratura classica, la tradizione, gli alberi genealogici e le filiazioni? Ciò che conta è soltanto la comparsa della coppia personaggio-autore, e il loro rapporto maestro-allievo. Ciò che conta è l’alchimia, la magia letteraria. Accade tutto davanti ai nostri occhi. Noi sperimentiamo il cambiamento per un solo istante e subito comprendiamo che tutta la scrupolosa trasmissione della semenza dei giganti che dura per sessantun generazioni arriva a una partenogenesi: il momento miracoloso in cui Pantagruele si separa dal suo passato per farsi ospitare dall’immaginazione di Rabelais. Miracolosamente l’albero resta in piedi, i giganti sfilano, dal padre al figlio, da Chalbroth a Pantagruele. Senonché il ricorso alla filiazione ‘tradizionale’ partorisce qualcosa di assolutamente imprevisto dalla sua logica: la nascita di una persona umana senza passato.
Viva la finzione, io intendo esprimere il mio appoggio agli spiriti risolutamente moderni. Non andiamo così in fretta. Se l’obiettivo fosse stato rivendicare il libero gioco dell’immaginazione, Rabelais l’avrebbe potuto fare più direttamente, per esempio dicendo Ecco qua, cari lettori, la storia del mio padrone Pantagruele che fu un tempo un eroe dei racconti popolari. Per non dire che avrebbe potuto evitare questo interminabile inventario di sessantun giganti. Al contempo non ci si annoia per nulla. Perché lo scopo di Rabelais non è il sapere enciclopedico – né tantomeno la sua volgare caricatura. Se egli menziona tutti quei nomi e se calca così tanto la mano, è perché la strada che va da Chalbroth a Pantagruele gli sembra valga di per sé. A patto che avanziamo lentamente nella lettura, l’albero genealogico assomiglia meno a un diagramma tecnico che a un vero albero, del quale ogni ramo e ogni foglia ci sorprende piacevolmente. Molto spesso, del resto, la sfilza di nomi si interrompe per produrre mille altri frutti oltre i giganti. Così scopriamo che Ezione «fu il primo impestato, per non aver bevuto fresco d’estate, secondo che attesta Bartacchino», o che «Chiappamosche fu il primo che ebbe l’idea di affumicare le lingue di bue sotto il camino, mentre prima le salavano come i prosciutti». O ancora che Gaglioffo «aveva le palle molli come legno di pioppo e il cazzo duro come legno di sorbo». 4
Rabelais sospende per diciotto volte il suo catalogo per integrarvi qui una battuta, là un’informazione di fantasia e, ancora più in là, un’osservazione salace. Così che questo primo capitolo di Pantagruele è, più che un’accusa al Vangelo, una rettifica di ogni albero genealogico: essi devono essere completati dalla vita stessa, da tutto ciò che la vita comporta di futile, di aleatorio e risibile. La natura di Pantagruele è doppia: da una parte discende dal nobile lignaggio dei giganti, dall’altro è tutt’uno con la vita concreta. Ho scritto prima che è merito di Rabelais se l’opera letteraria afferma apertamente la sua autonomia. Meglio precisare: è grazie a Rabelais che tale autonomia si lega all’autonomia della vita, all’affascinante illogicità della vita.
Riassumiamo: l’autore con la sua opera letteraria manda in cortocircuito la sacra metafora della filiazione, l’eroe acquista la sua autonomia in quanto essere di finzione e il prosaico della vita fa la sua rumorosa irruzione – in poche parole niente è più come ai tempi di Ulisse e non si tratta di un semplice cambio di scena, ma di una trasformazione radicale delle premesse estetiche dell’intera tradizione greco-latina. L’«immaginario del principio» è stato sostituito dall’«immaginario della strada»; ciò vuol dire che, a partire da Rabelais, qualsiasi cosa può diventare principio. Prima un incidente qualsiasi poteva essere accettato solo come scarto o pausa nel percorso verso lo scopo che si doveva raggiungere. Ora, nel calderone del romanzesco dove sobbolle lentamente un avvenire ancora informe, ogni minimo accadimento è in potenza un nuovo inizio. Un caso di cronaca, un avvenimento storico, un’idea stramba — qualsiasi situazione andrà bene. Bisogna stare all’erta, fare la posta al mondo. Bisogna avere un grande appetito per il romanzesco come appunto Pantagruele, il maestro di Rabelais. Quanto al padre, non gli resta che seguire il movimento generale scatenato dal figlio. Fine del «ritorno al focolare». Ora c’è la «partenza verso l’ignoto».
L’influenza del padre sul figlio ha fatto preoccupare parecchio i bambini, le donne e gli uomini del XX secolo. Essi vi hanno visto un grande rischio per la libertà umana e, conseguentemente, non hanno mai smesso di proporre soluzioni sempre nuove allo scopo di sfuggire a questa influenza. Tra le molte le tre più importanti sono: uccidere il padre (soluzione psicanalitica), glorificare soltanto il figlio (decostruzionismo), avere tanti padri quanti se ne vogliono (postmodernismo). Al contempo tutte le tre soluzioni emanano dall’«immaginario del principio». I padri (di queste teorie) negati, ignorati, moltiplicati all’infinito, continuano a perseguitare gli spiriti dei figli e i figli (di queste stesse teorie) continuano a non capire niente del romanzo.
Traduzione di Carlo Tirinanzi De Medici