Gustavo Paradiso – «Dopo duemilacinquecento anni di effetto-Platone, ora sembra che non solo gli dèi, ma anche i saggi si siano ritirati, e che ci abbiano lasciati soli, con la nostra sconsideratezza e le nostre mezze conoscenze su tutto». Da questa citazione tratta da Regole per il parco umano di Peter Sloterdijk, con la quale si apre il tuo libro Saggi Inventati, capisco il senso del termine “saggi”. Ma perché “inventati”?
Enrico De Vivo – Ho scritto questi saggi nell’arco degli ultimi dieci anni, e quando li ho riletti e messi assieme mi sono accorto che nascevano dall’esigenza di sfuggire all’opinionismo propagandato dai “saggi” dell’economia, della politica e della cultura. Per trovare aria – ma anche per trovare una mia via – ho fatto ricorso così a una saggezza inventata, nel duplice senso di scovata e fantastica. Sono andato a scovare i miei maestri in luoghi sperduti e dimenticati, e ho fantasticato insieme a loro o ai loro libri in assoluta libertà. In questo modo, sono riuscito a non rimanere asfissiato dalle certezze balenghe degli esperti, dei papi e dei presidenti.
G. P. – Questo significa che quella citazione di Sloterdijk è un trabocchetto…
E. D. V. – La citazione di Sloterdijk è utile perché indica la direzione verso cui guardano tutti solitamente, e cioè la saggezza come equilibrio, moderazione, correttezza politica, e dunque tutto sommato come strumento di potere. È evidente che le mie invenzioni saggistiche rappresentano una netta deviazione rispetto al problema della perdita o del recupero di qualsiasi equilibrio.
G. P. – Si potrebbe dire allora che il tuo libro pone il problema di che cosa intendiamo con il termine “saggezza” – oltre che con il termine “saggio” in senso letterario.
E. D. V. – Quello che intendiamo con il termine “saggezza” mi fa mancare l’aria, come dicevo. Non mi interessano gli attributi veteroumanisti da appiccicare alla saggezza perché non mi interessa un suo ripescaggio, con buona pace di Sloterdijk. Con la parola “saggezza” – che ho mescolato appositamente con il termine letterario che indica un genere preciso – mi riferisco piuttosto a un tipo di discorsi che coinvolgono e quasi coincidono perfettamente con la vita di chi li enuncia, attribuendo così un valore aggiunto alle parole.
G. P. – Ma perché attribuire un “valore aggiunto” alle parole?
E. D. V. – Perché ormai le parole sono etichette pubblicitarie o strumenti al servizio di tecniche specialistiche. Appena escono di bocca cadono subito a terra stecchite, non arrivano a nessuno, estenuate dalle pretese e menzogne di cui sono rigonfie. Benché amplificate e ripetute all’infinito, assumono sempre più un aspetto estraneo e cupo. L’altro giorno ascoltavo due vecchi contadini qui al mio paese, seduti su una panchina, mente litigavano in dialetto napoletano sullo spread: naturalmente, uno diceva che ‘o sc-pread saliva e l’altro diceva che ‘o sc-pread scendeva. Parliamo ormai tutti una lingua boriosa e barbara, della quale non solo ignoriamo il senso, ma che ci rende anche più infelici. Per questo, chi fa letteratura deve continuamente inventarsi dei modi per far vivere alle parole una vita normale, più naturale, anche se il campo d’azione si restringe sempre più. La chiacchiera pubblicitaria nella quale siamo immersi ha effetti devastanti, ed è come se le parole da sole non ce la facessero più. Chiedono aiuto, e questo aiuto può venire solo da una pratica assolutamente libera dell’attività poetica e intellettuale, come quella a cui alludo con il mio libro, o come quella dei filosofi cinici presentati da Foucault nel suo ultimo corso al Collège de France.
G. P. – Puoi spiegarti meglio?
E. D. V. – Quelle lezioni di Foucault mi sembrano indicare una strada dove i discorsi filosofici riguardano direttamente la vita, senza nessuna astrazione o separazione. La vita quotidiana dei filosofi cinici è il loro primo, grande discorso, e tutte le loro verità sono espresse a partire da una condizione esistenziale che illustra come con delle immagini, con degli exempla dal vivo, i concetti più difficili, esercitando infine una critica della società e della morale in maniera immediata e senza trucchi. Il problema dei cinici è dire la verità non all’interno di un sistema concettuale, ma in un ambito ben più vasto e universale, sebbene abbassato al livello più terreno.
G. P. – Mi viene in mente un certo Attilio Vecchiatto…
E. D. V. – Vecchiatto è il primo dei Saggi Inventati e l’ultimo dei cinici – anche se bisogna dire che quando ne scrivevo non avevo ancora letto Foucault, e solo da qualche mese ho scoperto che il mantello e il bastone, che Vecchiatto portava spesso con sé, costituivano l’armamentario caratteristico di quei filosofi. I sonetti e la parrēsia (il parlar franco) di Vecchiatto sono come la quintessenza della lingua e del pensiero, e inneggiano a un tipo di esperienza sganciato dai discorsi tecnici. Le parole al servizio della tecnica possono esprimere soltanto una piccolissima parte della loro potenza: per andare oltre e guardare lontano, c’è bisogno della poesia, c’è bisogno di Vecchiatto e dei suoi sonetti.
G. P. – Mentre parlavi di parrēsia, mi è venuto in mente un racconto di Machado de Assis, L’alienista, in cui un “medico dei pazzi” rinchiude a poco a poco in manicomio un intero paese, suscitando l’ira delle autorità, anche se alla fine, paradossalmente e coerentemente con la sua ricerca della verità, si accorge che l’unico ad aver bisogno di cure è lui, con tutte le sue pretese scientifiche.
E. D. V. – Poiché intravede che cosa si nasconde dietro i comportamenti sociali e dice la verità su di essi, sulla loro ipocrisia falsità vacuità, l’alienista di Machado de Assis viene attaccato e destituito. Oggi, se si prendono i “saggi” che sono in circolazione sui giornali, nella politica, nel cosiddetto mondo della cultura, quasi sempre si ha a che fare con esperti della menzogna e della retorica (che è l’opposto della parrēsia). La letteratura, invece, per come la concepisco io, è il mondo privilegiato del “discorso di verità”, e un libro o ha a che fare con questo discorso o non serve a niente. Io sono stato costretto a “inventarmi” i miei saggi perché – sembra un paradosso, ma non lo è – i “discorsi di verità” stanno scomparendo, soppiantati da quelli che io chiamo “discorsi persuasivi”. Questi ultimi non mettono mai in discussione nulla e dicono quello che il lettore vuol sentirsi dire, non quello che avrebbe bisogno di sentire, cioè la verità su di lui e sul mondo.
G. P. – Averroè, Bruno, Vico, Leopardi, come tu li hai riletti e ripresi, potrebbero esser considerati allora come prosecutori dell’antichissima tradizione della parrēsia cinica?
E. D. V. – Mi rendo conto che leggere questi autori come maestri di parrēsia possa dare adito a qualche imbarazzo. Ma per ritrovare nella letteratura una qualche utilità per la vita, non c’è altra via che affrontare da punti di vista sempre nuovi i libri che l’accademia e l’uso hanno sepolto e dichiarato portatori di saggezza e verità una volta per tutte. I saggi, insomma, vanno continuamente… saggiati e inventati da prospettive spregiudicate, senza dare per scontato nulla. E non solo loro. Anche gli autori contemporanei che popolano i miei scritti, infatti, me li sono inventati avendo presente – mi viene da dire: istintivamente – il modello cinico. Massimo Rizzante, Alessandro Carrera, Gianni Celati, Lapin sono tutta gente che va in giro con il mantello e con il bastone, e che ha un solo cruccio: dire la verità e parlar franco, senza badare a spese.
G. P. – Forse a questo punto bisogna aggiungere che la verità arrischiata dei cinici non è la verità dei metafisici, non ha nulla di astratto.
E. D. V. – Gli scrittori che ho citato sono un chiaro esempio in questa direzione. Inoltre, “dire la verità” in senso cinico, secondo me, ha molto a che fare con la forma saggistica. Un saggio è una prova, un azzardo, un’uscita in avanscoperta per vedere quello che nessuno ti fa vedere, e assomiglia a un eterno adolescente perché si accompagna impavido alla provvisorietà e all’errore. Saggio, quindi, nel senso in cui lo intendevano Montaigne e Leopardi (che diceva: «J’ai fait seulement des essais en comptant toujours prelude»), non in senso universitoide.
G. P. – Ci sono anche altri personaggi stranamente filosofici nel tuo libro. I ragazzini di scuola media, ad esempio, o certi bidelli analfabeti.
E. D. V. – La saggezza intesa come mescolanza o sovrapposizione di parola e di vita, come parrēsia, non ammette gerarchie o corporazioni. I saggi, da questo punto di vista, si trovano dappertutto, se si hanno occhi e orecchie adeguati. Da certi ragazzini di scuola media ho imparato molto di più che da tanti libri. Alcuni di loro somigliavano davvero a Cratete o a Diogene: ogni loro gesto o azione conteneva un problema per la messa in discussione dello status quo. Certi ragazzini di Torre Annunziata gettavano a terra nei corridoi della scuola cartacce e rifiuti, «perché tanto poi c’è il Preside che li raccoglie», dicevano. E quel Preside, infatti, era uno che aveva l’idea di educare con il “buon esempio” – salvo poi accorgersi che il “buon esempio”, se utilizzato come clava pedagogica, per inculcare, può sortire effetti paradossali.
G. P. – Come mai per la copertina hai scelto L’altalena dei Pulcinella di Giandomenico Tiepolo?
E. D. V. – Ho pensato molto a un’immagine adeguata per i Saggi Inventati, e alla fine credo di averla azzeccata. Gianni Celati mi ha scritto che rispecchia benissimo lo spirito del mio libro, che si muove «con giri che abbandona e riprende in un’unica direzione, da altalena». Prima ancora però mi aveva scritto un’altra cosa, sempre a proposito dei miei Saggi, che forse mi ha guidato inconsapevolmente: «Tutte le tue pensate escono da un’atmosfera di modestia, il pensare della modestia, perché non siamo mai capaci di andare molto avanti con le nostre mete intellettuali, e allora ci arrangiamo giocando con i concetti, con pseudoconcetti, con le trovate del cuore e quelle dell’immaginario, oppure con le nuvole». Ecco, le nuvole che popolano lo sfondo dell’opera di Tiepolo – che io credo siano le stesse sulle quali si chiude la Lettera sull’Umanismo di Heidegger – alludono forse alla necessità di preservare la vaghezza in cui è immerso l’altalenante pensiero-pulcinella, sono cioè il presupposto per non ridurre la scrittura a una porcheria (Artaud).
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Il tuo libro è bellissimo, caro Enrico: l’ho letto tutto d’un fiato (straordinaria la riflessione “vichiana” e indimenticabile quel che scrivi di Celati); adesso tornerò a centellinarlo per tirarne fuori riflessioni più meditate. Un grazie di cuore
Antonio