L’arte della parola

di in: Timbuctù

Geneviève Calame-Griaule

Nel 1948 usciva in Francia un testo di letteratura orale destinato a diventare rivoluzionario per lo studio della cosmologia e del mito, ma soprattutto per lo studio della parola e dell’espressione, attraverso la parola, del pensiero simbolico. Il libro è il celeberrimo Dieu d’eau [1] in cui, diviso in trentatré giornate, fluisce il racconto del mito cosmogonico dei Dogon del Mali, in Africa Occidentale, narrato dalla voce del vecchio Ogotemmeli del villaggio di Ogol. L’autore è  Marcel Griaule, etnologo, africanista, caposcuola del nutrito gruppo di studiosi che si dedicò per decenni allo studio della cultura dogon.

Nel 1963, un altro fondamentale lavoro, Ethnologie et langage. La parole chez les Dogon [2], di Geneviève Calame-Griaule, figlia di Marcel Griaule, della parola, che è al centro del pensiero dogon, esaminava tutti gli aspetti sociali, simbolici, religiosi. Lo stesso mito della creazione ne attesta il ruolo primordiale:

“Il dio Amma ha creato l’universo con la sua parola. I primi uomini che, dopo diverse peripezie, sono arrivati sulla terra, erano come neonati che non sapevano gridare. Nommo, figlio del dio creatore, espulse dalla bocca dei fili di cotone e inventò il primo telaio, la sua bocca forcuta serviva da spoletta: parlava, e la sua parola si materializzava in un tessuto. La parola, venne poi agli uomini: forgiata nelle profondità del corpo umano, il cuore è il fuoco, i polmoni sono il mantice. A livello fonatorio, la parola, che si innalza in forma di vapore acqueo, diventa sonora poi viene “tessuta”: la lingua è la spoletta, i denti sono il pettine del telaio… Il discorso si forma nella bocca dove riceve forma, colore, disegno, e esce come una striscia di cotone che si srotola.

Nel pensiero africano la concezione della parola umana è in stretta relazione con le componenti della persona di cui è considerata la più alta produzione. Essendo un dono divino, l’uomo deve mostrarsene degno e farne buon uso. La padronanza della parola, cioè a dire l’impiego con cognizione di causa delle parole efficaci oppure, secondo il caso, del silenzio, della discrezione, del rispetto del segreto, costituisce una vera etica” [3].

Fin dalle prime analisi condotte, risultò evidente alla studiosa che i Dogon erano perfettamente consapevoli della differenza che esiste tra parola normale e parola poetica, parola contenente più olio, come si dice, che scorre via liscia e agevole, gradevole a chi la ascolta, che non si inceppa, che segue un suo ritmo, e si arricchisce via via della personalità di chi la sa far vivere. Parola coltivata, costruita, nutrita di buona sostanza e che solo alcuni detengono ed esercitano: quelli che noi chiameremmo i letterati.

Un’arte della parola, dunque, che appariva particolarmente sviluppata presso un’altra cultura di quell’area geografica, i Tuareg, pastori e guerrieri nomadi del Sahara tra i quali la parola poetica, i versi, le narrazioni, i canti, erano oggetto di cura e di continua elaborazione. Epigrammi, madrigali galanti o faceti, elegie, epopee di guerra, poesie d’amore, canti, invocazioni, accompagnavano tradizionalmente le notti di veglia negli accampamenti, gli spostamenti delle carovane.

La letteratura orale, con materiali provenienti dai Dogon e dai Tuareg del Niger, divenne il terreno di studio di Geneviève Calame-Griaule, etnolinguista, africanista, quello che le dette grande fama e su cui scrisse ampiamente.

Contes tendres et cruels du Sahel nigérien è intitolata una raccolta di racconti dei Tuareg Isawaghen dei villaggi di In Gall e Tegidda-n-Tesemt, in Niger, da lei curata: trentasei racconti, “teneri e crudeli”, apertura su un immaginario che mette in scena passioni e bellezza, ma anche ferocia e crudeltà, come nel mondo degli animali, protagonisti di innumerevoli storie che hanno al centro il machiavellico Sciacallo.

Si entra, attraverso quei testi, in un universo distante e sconosciuto a noi che siamo abituati alla scrittura, in cui viaggiano favole, poemi, proverbi, enigmi, indovinelli, ossia le parole che sono al centro delle veglie, che accompagnano il sonno notturno. Che, sotto forma di cassette registrate in vendita in tutti i mercati, sono la colonna sonora dei lunghi spostamenti da un punto all’altro del paese nei taxi collettivi e negli autobus, con gli interminabili poemi, i romanzi, i testi di teatro popolare, le storie esemplari, le vicende di eroi e di eroine, recitati dai cantori tradizionali e trasmessi dal registratore dell’autista, punteggiati dai commenti dei viaggiatori, da esclamazioni di stupore, di approvazione o disappunto, da risate.

Specialista della parola, il cantore, quello che nell’Africa occidentale francofona è indicato col termine griot, con la sua funzione cardine nella trasmissione della poesia epica, della lirica e del sapere collettivo, ha caratteri assimilabili a quelli del nostro giullare nel momento forse di massima espressione dell’oralità occidentale. Accompagnato da uno strumento a corde, o da un tamburo, o ritmando il parlato secondo una melodia, si esibisce recitando storie e genealogie, rievocando le memorie del passato, declamando lodi dei personaggi illustri e delle belle donne. Uomo di casta, ha uno statuto speciale; è presente in ogni evento collettivo. In culture dove l’uso della parola è strettamente codificato e segue regole molto rigide e interdetti non valicabili, gode della libertà di spostarsi trasversalmente nel discorso, varcando i livelli dell’uso linguistico imposti agli altri e servendosi quindi dello scherzo, dell’insulto, dell’esplicitazione della verità al di fuori dei canoni stabiliti. Compone nuove trame su una traccia, il canovaccio, secondo rigide regole di formalizzazione tramandate da una generazione all’altra: rima, allitterazione, assonanza, ritorno degli stessi elementi in ordine e ordine inverso, inserzione di proverbi e così via.

Per i Dogon, il griot possiede otto “voci”, otto modalità di parola, tutte in rapporto con la dizione poetica e con l’arte della parola: la parola dolce, degli emblemi e delle lusinghe; la parola cattiva, di quando non è soddisfatto del compenso; la parola che sale, propria della declamazione; la parola che scende, la parola chiara, la parola sussurrata, la parola del richiamo, la parola stupefacente. “La sua declamazione si caratterizza per un’elocuzione che sale sempre più in alto per ridiscendere rapidamente, senza arresti. Gli ascoltatori ne sono sedotti, il loro cuore batte forte, “si dondola”, e l’emozione li costringe a fare regali al cantastorie. […] Nella declamazione, l’”acqua” e l’”olio” sono mescolati, mentre il canto è essenzialmente composto di “olio” e l’acqua è scarsa. Il cantastorie si accompagna con il tamburo gombòy, la cui voce è “la più dolce” di tutti gli altri tamburi, e questo conferisce un supplemento d’”olio” alla sua parola.” [4] Nel suo eloquio, parole “zuccherate” si alternano a parole “salate”, le quali “svegliano” l’organismo, accelerano la circolazione del sangue e conferiscono fluidità all’”olio” delle articolazioni.

 

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Il primo viaggio di Geneviève Calame-Griaule per l’altopiano dogon ebbe luogo nel 1946. Suo padre, Marcel Griaule, le annunciò che avrebbe fatto parte della missione che, dopo la guerra, partiva nuovamente per Sanga: “Avevo ventidue anni e preparavo il diploma della Scuola di lingue orientali e contemporaneamente la licenza di arabo classico, dopo una licenza in lettere classiche e una tesi in greco: essendo considerate la mia formazione filologica e le mie conoscenze di arabo una buona base di partenza, mi sarei ora dovuta iniziare alla lingua dogon cominciando col redigerne un dizionario.[…] Provavo una grande eccitazione all’idea di scoprire infine quel paese dogon di cui sentivo parlare fin dalla mia più tenera infanzia.

Chi va oggi a Sanga per la prima volta su una strada per turisti, liscia come un nastro, non ha la minima idea di come potesse essere nel 1946, e d’altronde fino a un’epoca recente. Era una pista irta di affioramenti rocciosi su cui si saltava a ogni giro di ruote, corredata di ripide discese che ci portavano in fondo a un canyon da cui bisognava risalire una pendenza ancor più ripida dopo aver passato alla bell’e meglio uno stagno la cui carreggiata era crollata… Si vedevano bei villaggi costruiti sulle rocce, campi di miglio e gente al lavoro (era l’epoca del raccolto). Penetravo sempre più nell’avventura ed ero enormemente felice.

Tutti i viaggiatori sanno che quando ci si avvicina ai villaggi degli Ogol […] il cammino diventa più accogliente: si corre su un terreno sabbioso e piatto, poi una piantagione di baobab rimpiazza la sterpaglia e ci si ritrova di colpo tra due villaggi, quello di sinistra all’altezza della strada e quello di destra arrampicato su una piccola falesia di qualche metro. E si scoprono così Ogol-basso e Ogol-alto… Ero arrivata alla Terra promessa.

Ricordo di aver cominciato una lettera a mia madre con queste parole: “Sanga! Sanga!”, che mi risuonavano in testa un po’ come “Thalassa! Thalassa!” dei Greci dell’Anabasi”. [5]

 

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Nel 1990, in occasione della pubblicazione di un volume di scritti in suo onore, chiesi a Geneviève Calame-Griaule di farle un’intervista per Radio Tre-Rai. Da qualche anno lavoravo a Bandiagara, sull’altopiano dogon. Miei temi di ricerca erano la medicina dei guaritori tradizionali e degli erboristi, e la divinazione che le accompagnava, ed ero entrata in un universo di parole a me prima sconosciuto: parole nella lingua segreta degli iniziati, parole delle cantilene degli indovini rivolte alla volpe, parole per richiamare gli esseri sovrannaturali, parole nella lingua degli uccelli, parole dei demoni, parole autorevoli dei vecchi, parole delle fiabe che accompagnavano le notti, parole delle lingue inventate dai giovani per gioco… Lingue diverse si intrecciavano sull’altopiano: il bambara, i cui suoni, consonante-vocale, consonante-vocale, sembravano di una lingua facile e accessibile, la lingua acuta e schioccante dei pastori Peul, quella gutturale dei Dogon, il tamashek frusciante e nasale dei Tuareg che venivano il venerdì al mercato a vendere le barre di sale provenienti dalle saline del deserto. Le parole catturavano costantemente la mia attenzione.

Così, a Parigi, andai a trovare Geneviève Calame-Griaule perché mi parlasse dei suoi lavori sull’oralità in Africa. Entrando nella sua casa di rue Gay-Lussac, notai sulla libreria dei disegni colorati fatti da bambini: “Sono dei miei nipotini”, mi disse. “Con loro, così come con i miei figli, ho sempre seguito l’etichetta dogon della parola. Tra i Dogon, all’interno di ogni classe di età c’è libertà di parola, ma chi appartiene alla classe d’età inferiore non può servirsi di quella stessa libertà con chi appartiene alla classe d’età superiore. Così anche se in mia presenza i miei nipoti sono liberi, tra di loro, di insultarsi e di dire quelle che noi chiamiamo brutte parole, o anche oscenità, non possono farlo quando si rivolgono a me con cui devono seguire regole ben precise di rispetto verbale”. Eravamo già in argomento.

Le sue riflessioni per l’intervista che allora registrammo diventano preziose oggi che, in questo mese di agosto, Geneviève Calame-Griaule è andata a raggiungere le ombre nel paese degli antenati, la cui parola, dicono i Dogon, erra per il mondo, nostalgica di interlocutori, vagabonda come il vento.

 

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Barbara Fiore – Di recente è uscito in Francia un volume di scritti in suo onore, Graines de parole. Puissance du verbe et traditions orales [6]: semi di parola, potenza del verbo… Nel risvolto di copertina si legge: “Geneviève Calame-Griaule ha dato alla parola i suoi titoli di nobiltà mostrando come attraverso di essa si possa leggere il sistema in cui funziona e si rappresenta una società”. Alla fine del volume, c’è l’elenco dei suoi lavori, più di cento titoli che hanno al centro l’espressione verbale, il linguaggio, la comunicazione, la vocalità e la visione del mondo quale emerge da favole, poemi, racconti, indovinelli, cioè dalle parole destinate ad essere pronunciate ad alta voce, dinnanzi a un pubblico. Una investigazione quanto mai importante oggi, scrive nel volume Paul Zumthor, quando, usciti dalla scrittura, stiamo rientrando in un mondo di voce simile a quello del nostro Medioevo. Lei ha cominciato con studi classici, poi si è spostata in Africa: i Dogon del Mali, i Tuareg del Niger…

Geneviève Calame-Griaule – Il mio primo soggiorno tra i Dogon risale al 1946. Allora ero una giovane studentessa, per nulla abituata a lavorare sulle lingue africane, ma avevo fatto molti studi di linguistica e di filologia classica e araba… Mio padre, Marcel Griaule, sperava da tempo che mi mettessi a lavorare sulla lingua dogon, che allora era stata poco studiata. Sono dunque partita per fare questo studio. E, cammin facendo, pur lavorando sul lessico eccetera, ho cominciato a raccogliere dei testi, essenzialmente testi di racconti, ma anche di canti, di indovinelli e di altri generi letterari. Nel corso del tempo, ma dopo molti anni nei quali ho continuato a raccogliere storie, mi sono resa conto che i Dogon mi avevano trattato come una bambina, che mi avevano raccontato le fiabe di animali che si raccontano ai bambini e che, passo dopo passo, man mano che cominciavo a conoscere la loro lingua e la loro cultura, mi avevano portato verso racconti sempre più complicati, che con i bambini non avevano più nulla a che vedere… E ho scoperto allora che i racconti interessano anche gli adulti.

B.F. – Oltre che per l’iniziazione all’antropologia sul terreno, la sua esperienza si incrociava con l’attività di ricerca di suo padre?

G. C.-G. – Lavorando sul racconto, ho cominciato a interessarmi alla parola. Era l’anno in cui mio padre, Marcel Griaule, faceva le sue inchieste col famoso Ogotemmeli, l’eroe del Dieu d’eau, e la nozione di parola nella cosmogonia e nella creazione del mondo cominciava ad apparire in tutta la sua importanza. A partire da questo, e da un certo numero di etimologie e di giochi di parole – nel senso sapiente del termine – che si faceva su parole come appunto parola, e il legame della parola con la tessitura, con il numero sette eccetera, e con altri simboli ancora, su richiesta di mio padre ho cominciato a lavorare su quei termini. E indagando sulla nozione di parola, poco a poco mi sono resa conto che la parola era importante non soltanto dal punto di vista cosmico (il che era già molto: la creazione del mondo dogon avviene attraverso la parola del dio creatore), ma che il suo ruolo era molto, molto importante anche a livello umano: che è la più alta creazione dell’uomo, insieme al bambino. Parlare e procreare ha pressappoco lo stesso valore per i Dogon. E d’altronde la parola è strettamente legata alla fecondità e alla fecondazione, c’è tutto un meccanismo che viene spiegato molto chiaramente. La parola, dunque, legata alla creazione del mondo, legata anche all’uomo, è uno dei prodotti più nobili della persona umana, il cemento di ogni rapporto sociale.

 

B.F. – Questo fa pensare che per i Dogon esiste una parola normale, corrente, che la gente si scambia incontrandosi per strada, durante il giorno, e una parola istituzionalizzata, che richiede invece un diverso apparato.

G. C.-G. – Sì. Esistono anche molti più tipi di parola oltre a questi, perché come tutti gli elementi del mondo, sia naturali che culturali, le parole sono classificate. I Dogon classificano tutto e il numero di classificazioni per ogni cosa è ventidue: ventidue categorie, che è uno dei numeri chiave del mondo e nello stesso tempo una cifra che si rifà all’anatomia umana. Allora: ci sono ventidue tipi di parola, che bisogna ancora moltiplicare per due, perché ventidue sono dal lato, come si dice in dogon,  del Nommo, che è il monitore, il figlio di dio, l’eroe culturale, e ventidue sono dal lato della Volpe pallida, che ha portato il disordine nell’universo.

Esistono molte sfumature tra i vari tipi di parola. C’è sì la parola ordinaria, che ci si scambia, che non ha molto senso… ma in fin dei conti esistono pochissime parole che siano veramente ordinarie, perché tutti i tipi di parola che si ha l’occasione di scambiarsi, nella vita di ogni giorno sono definiti in modo molto preciso. Ad esempio il saluto non è una parola ordinaria, è una parola particolare che ha la sua importanza per aprire la comunicazione. C’è la parola negli scambi amorosi, che ha anch’essa le sue regole. C’è la parola autoritaria, la parola religiosa, ossia la preghiera, la parola gentile, benefica, opposta alla cattiva parola, parola di collera… Dunque parole legate a tutti gli stati psicologici, al modo in cui si manifestano nella società: la parola del guaritore, la parola del saggio, la parola della tradizione… un gran numero, ma molto ben precisato. E c’è poi naturalmente un altro tipo di parola, alla quale mi sono particolarmente interessata e su cui continuo a lavorare, che è la parola letteraria, la parola estetica, la parola della letteratura orale e di tutti i generi letterari.

B.F. Può fare un esempio di una seduta in cui chi utilizza questa parola letteraria, estetica, la indirizza ad un pubblico?

G. C.-G. – Prendiamo l’esempio del racconto che è il genere più corrente e anche quello a me più familiare. Posso descrivere come si svolge una veglia: perché bisogna dire subito che tutti i generi di letteratura orale si scambiano soltanto di notte, dopo il tramonto del sole, è una regola molto rigida, che va ben oltre i Dogon e ben oltre l’Africa. Il racconto, la letteratura orale, sono parole oscure, in quanto sono enigmatiche e in quanto pongono enigmi. E non soltanto pone enigmi l’indovinello, che è l’enigma per definizione, ma anche il racconto perché c’è sempre un senso nascosto che bisogna scoprire. E quindi tutta la parola letteraria è legata alla notte, si deve scambiare nell’oscurità. Inoltre, dall’enigma deve uscire la verità così come dalla notte deve uscire il giorno. Dunque, rispondere all’enigma, indovinare il senso del racconto, capirlo, significa far uscire il giorno dalla notte ed è l’equivalente della nascita, è come un bambino che esce dall’oscurità del ventre materno per vedere la luce, come si dice in molte lingue.

B.F. – Una notte, In Gall, Niger, novembre 1972. Un corteo di donne in nero, strettamente agglutinate intorno a una forma bianca, si svolge lentamente nelle vie del villaggio. Alla sua testa, una vecchia tuareg cieca canta i canti del matrimonio… Un’altra sera: una casa del villaggio. La stessa vecchia è seduta a gambe incrociate su una stuoia nella sua casa. Bambini della sua famiglia e giovani vicini la circondano. Lei racconta. I passanti nella strada si fermano ad ascoltare: veglia di racconto da Taheera. Entrano, silenziosamente vanno a sedersi… e la vecchia, poco a poco si anima, la voce, prima bassa, si alza. Canta, mima, gesticola alla incerta luce di una lampada a petrolio accesa nella corte… Lei parla di questa veglia in un suo lavoro dedicato ai gesti narrativi.

G. C.-G. – La veglia, come il suo nome indica, la veglia del racconto, si svolge nell’oscurità. In genere nella corte di una casa in cui la gente è riunita, le donne filano, fanno piccoli lavori, come accade dovunque nel mondo… e bisogna dire che esistono regole anche per il pubblico e il luogo in cui ci si ritrova. Perché sono le donne sposate che si raccolgono nelle case per raccontare, insieme ai bambini, e poi sì, ci sono anche gli uomini che a volte vengono ad ascoltare, ma si tratta essenzialmente di riunioni di donne e bambini. I giovani in genere si riuniscono piuttosto tra di loro fuori della casa o anche fuori del villaggio, perché esiste una opposizione tra matrimonio, tra chi è sposato, che sta all’interno, e chi non lo è, che sta ancora all’esterno. Opposizione tra interno ed esterno come opposizione tra giorno e notte.

Esistono anche regole per il pubblico: certe categorie di parentela non possono scambiarsi racconti. Ad esempio un padre non può raccontare alla figlia, e una madre al figlio, quando sono già in età nubile, perché simbolicamente si tratterebbe di un incesto dal momento che la parola del racconto, della letteratura orale è legata alla fecondità. Esistono tutte queste regole, e tuttavia molto spesso ci si riunisce nelle corti, o attorno a un fuoco, se fa freddo, o al chiarore della luna… e poi si racconta.

B. F. – E la presenza dei bambini? Come mai sempre questo pubblico attento? Si tratta di educazione alla parola o di altro?

G. C.-G. – Sono sempre i bambini che cominciano, e sempre con uno scambio di indovinelli. Questo è molto interessante perché tra i Dogon, e presso altri popoli africani, i bambini spesso cominciano qualcosa, possono ad esempio dare inizio ai rituali, con una specie di gioco, di gioco serio che poi si trasforma in rito… E per la letteratura orale sono loro che aprono con indovinelli che cercano di scambiarsi più rapidamente e più abilmente possibile. L’indovinello è dunque l’enigma, l’oscurità da cui deve uscire la luce, e i bambini sono l’inizio del mondo, la creazione del mondo; l’uomo ha cominciato per essere un bambino ed è per questo che il bambino comincia le cose serie, importanti. Quindi scambio di indovinelli tra bambini per un certo tempo, fino a quando sono stanchi e allora cercano di narrare delle storie, piccoli racconti di animali, alla loro portata… e poi cose un po’ più complicate, spesso sbagliando… ed è a questo punto che gli adulti, le donne, prendono la parola, con racconti perlopiù accompagnati dal canto, cantafavole, nenie. E poi qualcuno ricomincia…

B. F. – L’inizio e la fine della narrazione sono codificati e introdotti da una sorta di annuncio. Vorrei che parlassimo appunto di queste formule, che spesso sono molto belle e ricche di significato… A una di queste formule fa riferimento il titolo di un suo libro, Cauris au marché, cauri al mercato.

G. C.-G. – Spesso i racconti si concatenano nel senso che il tema di un racconto fa pensare ad un altro. Allora qualcuno riprende dicendo: “Ho un racconto”, oppure pronuncia la formula: “Un racconto! Un racconto”. Questa è la formula semplice. Spesso le formule invece assai più complicate… ma tra i Dogon è così. Si dice soltanto: “racconti”, o anche “un racconto”, “ecco il racconto”. Oppure si annuncia il titolo, ossia il nome del personaggio. Invece, la formula finale, che deve obbligatoriamente terminare il racconto, che mostra che è finito e che si cambia livello di parola, la formula antica, che è meno usata oggi, è: “Domani andremo a raccogliere cauri al mercato”. I cauri sono piccole conchiglie di origine indiana che in Africa erano molto diffusi, servivano come moneta prima che ci fosse la moneta europea, fino a non molto tempo fa, una cinquantina di anni fa, forse, al mercato si pagava con i cauri. Allora: “Domani andrò a raccogliere cauri al mercato”, significa raccogliere cauri, conchiglie-moneta, caduti per terra, simbolo di parole che bisogna raccogliere, che non si devono mai perdere. Che bisogna continuare a trasmettere, a passarsi di generazione in generazione senza che si perda. Si può dire anche: “Domani andremo a raccogliere cauri sul bordo dell’acqua”. Cauri che vengono dall’acqua, conchiglie… il che naturalmente è collegato alla fecondità. Le parole e la fecondità…

Una formula più recente, che ho sentito molto spesso, è: “Il racconto ha parlato, ora tace”, il che significa che si può cominciare un altro racconto. Ma, molto spesso, dopo una narrazione, ci sono i commenti, spesso proverbi, per far capire ai più giovani la lezione del racconto: la lezione, immediata, di morale sociale, quella che prova che non bisogna essere cattivi con i compagni, che non bisogna fare questo e quello.

B. F. – Veniamo ora all’analisi dei testi. Lei ha raccolto una grande quantità di racconti tra i Dogon,  molti dei quali sono stati pubblicati, ma molti dei quali sono ancora oggetto di analisi. Che cosa significa analizzare un racconto?

G. C.-G. – Nel corso degli anni, ho messo a punto un metodo che definirei mio personale, che si ispira d’altra parte ad altri metodi. Non sono certo la sola ad analizzare il racconto: ci sono altre scuole, ci sono gli strutturalisti, i formalisti, i folkloristi, i semiotici eccetera. Io ho tentato, ispirandomi naturalmente a tutti questi metodi e a tutto quello che ci forniscono, di elaborarne uno che considero etnolinguistico, perché contrariamente a tutte queste scuole tenta di prendere il testo del racconto come qualcosa di globale. Gli etnologi si sono interessati al ruolo del racconto nella società, ed è un aspetto che esiste, ma oltre a quello sociale, che mette in causa, dunque, tutti i ruoli della letteratura orale nella società, tutte le regole e gli interdetti cui ho fatto allusione poco fa e che sono molto più complessi di quanto abbia detto, c’è un altro aspetto che non si deve dimenticare, e cioè la forma del testo, forma che è modellata in una lingua particolare, in un’epoca particolare dell’evoluzione della lingua, e a un livello particolare di lingua, che implica appunto questa ricerca estetica.

B. F. – Sì, ecco. Livelli differenziati di parola e dunque anche arte della parola. Il buon narratore, lei scrive nel suo libro Ethnologie et langage, deve avere “la bocca dolce come il sale”, il che significa che il suo livello di esecuzione deve essere molto alto, che non sono permessi né errori né esitazioni. In cosa consistono questi livelli e quali ne sono i contenuti analizzabili?

G. C.-G. – Il livello di parola non è lo stesso in una conversazione corrente e nella narrazione di un racconto, e ancor più differente è in un testo poetico. Un testo poetico si sente subito che è tale: c’è un ritmo, una sorta di musica della parola che, anche se la lingua non ci è familiare, ci fa capire che ci si trova nella declamazione poetica. Per quel che riguarda il racconto, c’è tutta una discussione sull’argomento, perché alcuni sostengono che si narra nella lingua di ogni giorno. Io invece sono tra quelli che dicono che c’è un’”arte” del racconto e che, anche se si tratta di prosa, non si narra nella lingua di ogni giorno. Nel momento stesso in cui si comincia a raccontare, si prende il ritmo della narrazione, dell’eloquio, un certo uso della lingua, della morfologia, delle forme verbali, dei pronomi, dell’introduzione ai dialoghi… C’è tutta una codificazione della lingua, che è molto importante e che si deve analizzare in sé, e c’è poi una ricerca estetica a livello del lessico e dell’espressività.

B.F. – Il lavoro di analisi investe non soltanto la forma del racconto ma anche il corpo di chi lo enuncia nella sua fisicità: voce, presenza, gesti, espressioni del volto… In un volume antologico da lei curato dedicato alla relazione tra linguaggio e cultura, c’è un suo saggio corredato da fotografie che si concentra sulla gestualità, la postura, i movimenti che accompagnano l’arte della parola tra i Tuareg del Niger.

G. C.-G. – In questo metodo di analisi bisogna tenere conto della forma del testo dal punto di vista del modo in cui ci si serve di una data lingua nella ricerca estetica narrativa. Ma c’è anche tutto l’apporto personale dell’agente della trasmissione, cioè di chi narra, che dà alla realizzazione del testo tutte le qualità del suo corpo e della sua voce, tutta la forza espressiva che ha in se stesso. Quindi, giochi di voce, intonazioni, gesti, atteggiamenti, mimiche che fanno del racconto una drammatizzazione nel senso etimologico di drama, che in greco significa “azione”: ovvero esecuzione del racconto attraverso la voce e i gesti, tutto uno studio da fare, che invece è stato abbastanza trascurato. Io personalmente ho cercato di lavorare sui gesti del narratore, sui mezzi espressivi, sull’intonazione e così via. Come vede, esistono tutti questi poli di studio di un testo di letteratura orale e in particolare del racconto: lo studio etnolinguistico lo considera globalmente, cerca di restituirne tutti gli aspetti. Perché si possono studiare i racconti interessandosi soltanto alla loro funzione nella società, ed è l’aspetto etnologico; si può studiare il senso, il contenuto…si può studiare solo la forma. Alcuni linguisti fanno ricerche sullo stile, i letterati ne studiano la forma letteraria, ma la ricerca etnolinguistica tiene conto di tutti questi aspetti, anche se evidentemente ci si concentrerà sull’uno o sull’altro secondo il tipo di studio che se ne vuol fare, ma senza mai perdere di vista anche gli altri.

B.F. – Tornando a quanto diceva prima sulla necessità di adottare livelli diversi da quelli consueti nel trattare questo tipo di parola pubblica, ciò significa che il contenuto della comunicazione ha un carattere quasi sacro, che in qualche modo deve essere velato, reso non facilmente accessibile, per mezzo di una forma complessa.

G. C.-G. – La ricerca del senso, del contenuto del racconto, mi ha molto interessato, e probabilmente è su questo che ho fatto i miei lavori principali, perché ho scoperto tra i Dogon (sulla scia dei lavori di mio padre) che tutto è simbolo, tutto vuol dire qualcosa e che tutti gli elementi della natura e della realtà sono legati simbolicamente ad altri elementi. C’è una specie di “linguaggio del mondo” e, d’altra parte i Dogon chiamano il simbolo “la parola del mondo”, una parola che bisogna saper decifrare, decodificare. Anche i racconti hanno un senso immediato, naturalmente, con la lezione di morale di cui ho parlato a proposito della veglia… Ma c’è, inoltre, tutto un senso nascosto, un senso simbolico, molto difficile da scoprire e assai più interessante che è rivelato solo più tardi, con l’iniziazione dei giovani e poi poco a poco nell’insegnamento elargito dagli anziani, dai padri ai figli, dalle madri alle figlie, dai vecchi ai giovani. Per scoprire questo senso simbolico, ossia il senso profondo del racconto, bisogna in primo luogo occuparsi di decrittare tutti gli elementi messi in gioco, perché non c’è mai un elemento gratuito: se un oggetto è citato, se sono citati un albero, o una pianta, o un qualsiasi altro elemento naturale, c’è un perché, e non è un caso che arrivi a quel dato punto della narrazione. Bisogna dunque arrivare e leggere tutto questo senso simbolico (e a volte a vari livelli) sotto il senso immediato della storia narrata.

B.F. – E veniamo ora ai temi. Nella forma variabile del racconto, lei dice, esistono alcune costanti, non solo all’interno di una data cultura ma anche in qualche modo “sovra-culturali”. Tra questi il tema dell’iniziazione, del passaggio nell’esistenza da una fase all’altra, è un tema centrale.

G. C.-G. – Una cosa mi ha colpito dopo molti anni di pratica di questa analisi ed è che un tema quello appunto dell’iniziazione, tornava molto spesso, era forse il più importante. Lei sa che in molti racconti c’è un eroe, o un’eroina, che parte alla ricerca di qualcosa o che va a riparare un oggetto che è stato rovinato, oppure che viene cacciato, per esempio dalla matrigna o da un personaggio presentato come malvagio, e inviato molto lontano, nei pericoli, o sottoposto a prove, per riportare qualcosa o per riparare qualcosa… Spesso i personaggi sono due. L’eroe buono parte, fa  tutto molto bene, supera bene le prove, è bravo, gentile, piacevole, aiuta vecchi e vecchie… e alla fine arriva in un luogo dove deve andare sotto terra o sott’acqua, affrontando un cambiamento di mondo, di livello, è sottoposto ad altre prove definitive, infine riceve la ricompensa e torna. E poi c’è un secondo personaggio, geloso di ciò che il precedente ha ottenuto, il quale a sua volta parte. Ma questo si comporta male, risponde male, fa cose stupide, si comporta da persona immatura ossia come qualcuno che ancora non ha imparato le regole del vivere, e alla fine invece che ricompense riceve cose che non hanno nessun valore… oppure muore. Insomma è punito.

Io ho cercato di mostrare che questi racconti seguono lo stesso scenario dell’iniziazione. La finalità del racconto è la stessa dell’iniziazione, e cioè mostrare come diventare adulti e come essere integrati nella società, conquistare la maturità, che per i Dogon è tutt’uno con la fecondità. Sto ora parlando dei Dogon, ma questo è vero dovunque. Ho cominciato a capire l’universalità di un certo numero di problemi che io definisco i “nuclei resistenti”, che si trovano in tutto il mondo, e che spiegano come le strutture del racconto si trasmettano da così lungo tempo e per spazi così distanti tra loro, perché rispondono a questioni che l’umanità si pone dappertutto: rapporti tra uomini e donne, tra generazioni, tra genitori e figli, problemi relativi all’incesto, alla integrazione dei giovani nella società… e così via. Il tema dell’iniziazione, ad esempio, è un tema assolutamente universale.

B. F. – Lei ha lavorato molto anche sul tema del miele, molto diffuso, legato alla sessualità, ma anche all’equilibrio nei rapporti tra uomo e donne.

G. C.-G. – Il mio interesse per il tema del miele risale, è evidente, ai lavori di Lévi-Strauss che in Mythologiques ne ha molto parlato. Effettivamente il miele si trova spesso: è legato non tanto alla fecondità di per sé ma alla sessualità, più esattamente, al piacere sessuale. Il miele – cosa generale in Africa, ma non soltanto (e Lévi-Strauss arriva alla stessa conclusione) – è il piacere sessuale, non necessariamente legato alla fecondità, perché anzi in alcune società è in antinomia con la fecondità: si sostiene, infatti, che un eccesso di piacere sessuale impedisce la fecondità. Bisogna saper associare le due cose, e i Dogon dicono dunque che di miele ce ne vuole, ma in quantità ragionevole, che nei rapporti amorosi non bisogna cercare soltanto questo. Spesso il miele è considerato un apporto maschile. In molti racconti e miti, non dogon questa volta, uomini e donne vivono separati. L’eroe del racconto va dalle donne e fa conoscere loro il miele: le donne sono felici… L’eroe allora dice: “Ho qualcosa di meglio per voi”, e fa conoscere loro il rapporto amoroso. Nei racconti europei, invece, il miele è più spesso simbolo della sessualità femminile: penso ai racconti della bambola di zucchero o della bambola cosparsa di miele. Per i Dogon, invece, è un apporto sia dell’uomo sia della donna. Allora, quel che soprattutto mi ha interessato è il legame del miele, da una parte con la sessualità e dunque davvero con la vita, e dall’altra parte con la morte. Perché in alcuni racconti trovare il miele è cadere nel mondo dei morti. I Dogon dicono che le api sono mediatori tra i vivi e i morti, che fabbricano il miele con vari tipi di elementi ma anche con qualcosa che prendono dai defunti, in una sorta di recupero della loro forza vitale che nei vivi diventa simbolo di piacere, di fecondità. Il ronzio delle api è infatti assimilato ai tamburi dei funerali.

B. F. – “Una strega aveva due ventagli, uno d’oro, uno d’argento. Disse: “Sole! Oh sole! Ecco qui il mio ventaglio d’oro, ecco qui il mio ventaglio d’argento, eccomi io. Chi di noi è il più bello?”. Il sole rispose: “Il tuo ventaglio d’oro è bello, il tuo ventaglio d’argento è bello, anche tu sei bella, ma la figlia che porti nel ventre è più bella”… Ecco l’inizio della Biancaneve che lei ha trovato tra i Tuareg.

G. C.-G. – Tra i Tuareg, e gli Isawaghen loro vicini, ho trovato una Biancaneve, molto bella, molto riconoscibile. In questa Biancaneve non c’è la matrigna, ma la madre. Ma questo è il senso profondo del racconto. La matrigna ha comunque il ruolo della vera madre, una madre che la rifiuta perché è troppo bella. Qui è al sole, non allo specchio, che la strega si rivolge per sapere chi sia la più bella, e il sole risponde: “Tu sei bella ma tua figlia è più bella di te”. Biancaneve fugge allora nella brousse, ossia nel mondo selvatico, ed è adottata dai geni che la allevano come loro sorella. La madre la ritrova, la fa morire, eccetera: il seguito è veramente lo stesso che da noi. E d’altra parte di recente ho trovato in Niger Cenerentola, ma un po’ diversa: una Cenerentola senza pantofole, e senza le scarpine della nostra fiaba.


[1] M. Griaule, Dieu d’eau. Entretiens avec Ogotemmeli, Fayard, Paris, 1975 (Tr. it., Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmeli, a cura di B. Fiore, Bollati Boringhieri, Torino, 2002).

[2] G. Calame-Griaule, Ethnologie et langage. La parole chez les Dogon, Gallimard, Paris, 1965 (Tr. it. Il mondo della parola. Etnologia e linguaggio dei Dogon, a cura di G. Antongini e T. Spini, Boringhieri, Torino, 1982).

[3] In Hommage à Geneviève Calame-Griaule (2013) www.clio.org

[4] Il mondo della parola, cit., p.213.

[5] G. C.-G., Avec Germaine en pays dogon, Journal des africanistes, 71 (2001), 71-1, pp.35-52.

[6] Graines de parole. Puissance du verbe et traditions orales, CNRS, Paris, 1989