Ricevo l’ultimo numero della rivista «Sinn und Form» 1 e, come sempre d’abitudine, getto uno sguardo sulla fascia (rossa in questo caso) che attraversa la sobria, elegante copertina riportando in sintesi i contenuti dello Heft (alla lettera quaderno, ma il termine può essere tradotto qui con fascicolo, numero); mi colpisce sùbito, e per questo vado a leggere senza indugi l’intero intervento, il titolo: «BASIL KERSKI, SEBASTIAN KLEINSCHMIDT, ADAM ZAGAJEWSKI Gespräch über den Essay» (Conversazione intorno al saggio).
Il contenuto non tradisce infatti le mie attese, anzi mi sembra meritevole di un qualche commento e scatta insieme il desiderio di rendere altre persone partecipi di questa lettura, innanzitutto gli amici di Zibaldoni.
Il titolo dato nelle pagine interne è «Der Essay als Raum des freien Denkens / Gespräch mit Adam Zagajewski und Sebastian Kleinschmidt (Il saggio quale spazio del libero pensare / Conversazione con A. Z. e S. K.)»e si tratta in effetti di un dialogo a tre, voluto e stimolatoda Basil Kerski(politologo polacco studioso e sostenitore delle relazioni tra Polonia e Germania) nel luglio 2009 a Berlino; Adam Zagajewski è poeta e saggista di fama internazionale, molto conosciuto anche in Italia, mentre Sebastian Kleinschmidt è saggista e caporedattore di “Sinn und Form” (tra l’altro egli lascia il suo pluriennale incarico per raggiunti limiti d’età proprio con questo numero della rivista).
Nella prima parte della conversazione si parla dell’incontro e del sodalizio intellettuale tra Zagajewski e Kleinschmidt, del ruolo di «Sinn und Form» come ponte culturale (e non solo) tra le due Germanie, tra la Germania e l’Est slavo e successivamente tra due vere e proprie ere (quella di prima e quella di dopo la caduta del Muro di Berlino).
Nella seconda parte si viene a discutere del saggio e delle sue caratteristiche; è Kerski a chiedere al caporedattore della rivista del suo primo incontro con Hans Georg Gadamer, avvenuto nel 1990 a Heidelberg. Kleinschmidt racconta, felice di poterlo fare, di quell’incontro illuminante e tanto a lungo desiderato (non dimentichiamo che per molti intellettuali dell’ex DDR occorse aspettare proprio la seconda metà del 1989 per poter varcare l’appena dissoltasi cortina di ferro).
Dice Kleinschmidt, dopo aver tessuto l’elogio del pensiero gadameriano che, secondo lui, cerca il punto d’equilibrio tra le posizioni estreme (la traduzione è mia): «(…..) Occorre autocontrollo, tolleranza, libertà interiore, liberalità e (…..) filosofica calma. Se vi si aggiunge anche l’umorismo, non può accadere nulla di male. Ogni volta che leggo Gadamer esperisco il paradosso del convergere verso il centro: il mio pensiero si mette in movimento ed io stesso raggiungo la tranquillità. Vengo spinto verso il mio proprio centro o, per dir meglio, vi vengo attratto»;delineando così alcune linee guida del saggio, quale il mettersi in moto del pensiero che, proprio in tale movimento, cerca appagamento e calma, lasciandosi sedurre dalla sua stessa attività (direi che siamo nella direzione del più classico Montaigne).
Kerski chiosa: «Lei ha descritto la sua fascinazione nei confronti di Gadamer nel saggio Gegenüberglück- in italiano si potrebbe rendere con la felicità di fronte, dirimpetto, n. d. t. –. (…..) Il suo contributo su Gadamer può essere letto non solo come un avvicinamento alla filosofia ermeneutica, ma anche al genere stesso del saggio. Lei sottolinea come la dottrina del comprendere di Gadamer sia una filosofia dell’attenzione (Aufmerksamkeit), dell’ascolto (des Zuhörens), della curiosità nei confronti di ciò ch’è altro (der Neugier auf anderes), del reciproco imparare traverso il dialogo (des wechselseitigen Lernens im Gespräch). L’inimitabile modo che aveva Gadamer nel condurre le sue conversazioni, il suo annodare tra di loro il raccontare (Erzählen), il riflettere (Reflektieren), l’accennare e l’approfondire (Anspielen und Vertiefen), la serietà e l’ironia: lei descrive tutto questo con totale ammirazione. Questi elementi potrebbero essere tutti considerati anche quali validi e irrinunciabili componenti dell’arte del saggio».
Adam Zagajewski da parte sua dichiara: «Quel che mi affascina del saggio è la sua elasticità, la sua apertura. I saggi non sono mai definitivi. Essi rappresentano una forma del cercare (eine Form des Suchens) piuttosto che del trovare (des Findens). Il classico saggio di Montaigne rappresenta proprio questa forma. C’è un genere che non è molto lontano da quella del saggio: il diario intellettuale. Il diario annota il pensiero, ma anche il giorno in cui il pensiero fu concepito. Mi piace molto questa forma. Considero la filosofia il più delle volte troppo arida, in essa trovo solo pensieri, ma non ciò che sta loro alle spalle. Naturalmente i grandi filosofi hanno grandi pensieri e forse anche grandi giorni, ma non ce ne danno conto; veniamo a conoscere solo le risultanze. (…..) Il saggio rassomiglia al diario, solo che dà un ordine diverso ai pensieri, non cronologicamente, ma su base tematica e motivazionale. Però il principio è simile. Il saggio è lo spazio del libero pensare, del personalissimo riflettere entro il paesaggio di una vita. Una forma particolarmente capricciosa sono i saggi dei poeti. Ma in essi si riscontra un rapporto assai complicato. Ricordo i bei versi di Benn su Chopin:
Conversatore avaro,
le opinioni non erano il suo forte,
le opinioni non vanno mai al sodo,
s’agitava quando Delacroix
illustrava teorie, quanto a lui non avrebbe
saputo spiegare i suoi Notturni…..2
Qui viene ben colto il dilemma dell’artista. Purtroppo io non sono Chopin, ma anche per me è difficile spiegare le mie poesie. Voglio dire: molti dei poeti che scrivono saggi conoscono tale dilemma. Sono intenzionati a scrivere saggi perché hanno qualcosa da dire. Ma non vogliono dire tutto, poiché, se dicessero tutto, non scriverebbero più poesie. Una poesia deve conservare un suo mistero – forse non ogni poesia, ma un poeta che svela ciò che si cela nelle sue poesie non è più un poeta. Quello che è celato in una poesia deve essere intuito e avvertito dal lettore».
KLEINSCHMIDT: È così, la poesia ha bisogno del mistero. E il saggio non dovrebbe contribuire al suo svelamento, ma al suo approfondimento. (…..)
ZAGAJEWSKI: Penso che il saggio sia il genere letterario meno popolare in assoluto. Molti lettori credono che il saggio sia qualcosa di riservato agli iniziati. Credo sia questo il motivo per cui manca la curiosità nei confronti del saggio. Per quel che riguarda la mia scrittura dirò qualcosa che potrà sembrare strambo: talvolta mi vergogno di scrivere dei saggi. Mi vergogno nel senso che in essi dico troppo. Una voce interiore mi seduce: di’ questo e ancora quest’altro. E io la seguo! Ed allora può accadere che un saggio suoni un po’ programmatico. Se mi sono spinto troppo in una direzione,ne preferiscoun’altra. Tuttavia i lettori vogliono definirmi tramite il saggio apparentemente programmatico. Ma io non voglio essere definibile. Allora mi devo mettere al lavoro su di un altro saggio. Sarebbe naturalmente meglio scrivere poesie. Ma non riesco a farlo sempre. Potrei dichiarare cinicamente: quando non scrivo poesie scrivo saggi.
KLEINSCHMIDT: (…..) Lo scrivere saggi è una forma molto ragionevole di esistenza artistica, tiene aperta la porta all’ispirazione.
ZAGAJEWSKI: (…..) Ma anche per il saggio c’è bisogno dell’ispirazione, non si fa nulla senza l’ispirazione.
KLEINSCHMIDT: Ma l’ispirazione per un saggio la si potrebbe, se necessario, andare a scovare, per una poesia no.
ZAGAJEWSKI: Sì, certo, dopo due pagine arriva la terza che riesce meglio. Questa è la differenza.
Nella terza parte della conversazione, stimolati dalle domande di Kerski, Zagajewski e Kleinschmidt parlano della scuola saggistica polacca, che ha in Czesław Miłosz e in Jan Kott i suoi alfieri e che si caratterizza anche per essersi sviluppata in esilio, soprattutto negli Stati Uniti; Zagajewski sostiene poi che il saggio, nella Polonia del secondo dopoguerra e fino alla caduta del Muro di Berlino, abbia ricoperto lo stesso ruolo del grande romanzo e della grande poesia epica dell’Ottocento (la Polonia non avrebbe infatti, secondo l’opinione del poeta, ancora un romanzo capace di rappresentarla anche a livello internazionale); afferma Zagajewski che «Il saggio oscilla sempre tra i generi»e, qualora nasca dallo scambio intellettuale ed amicale, continua il genere nobile, ma ormai al tramonto, dell’epistola, idea stimolante se pensiamo anche soltanto alle epistole petrarchesche e al vastissimo repertorio umanistico-rinascimentale ed ancora oltre che potrebbero essere quindi pensati come luoghi d’incubazione del saggio stesso quale noi lo conosciamo.
Da parte sua, Kleinschmidt sottolinea il ruolo etico del saggio nella Polonia dell’era stalinista e brezneviana, in quanto è stato capace di costituirsi come luogo di riflessione e di resistenza al totalitarismo, anche lì dove si discettava di temi apparentemente solo letterari; interrogato successivamente circa il ruolo di questo medesimo genere nell’area linguistica tedesca, cita i nomi di Thomas Mann, Robert Musil e Hermann Broch, definendo i loro saggi bohrend, cioè penetranti.
KLEINSCHMIDT: (…..) Chi è dell’opinione che il saggio sia un genere discorsivo, un affastellarsi di argomentazioni, il realizzarsi di un moto del pensiero, una parte del pensiero che aspira ad esprimere punti di vista arguti, deve ricredersi nel leggere i saggi di autori come Martin Walser, Hans Magnus Enzensberger, Peter von Matt, Friedrich Dieckmann, Peter Sloterdijk, Botho Strauß, Thomas Hürlimann, Martin Mosebach e Durs Grünbein3: un buon saggista possiede anche altre qualità. Per primo voglio citare il dono della chiarezza (Anschaulichkeit). È quest’ultimo che preserva il saggista dall’astratta erudizione (Gelehrsamkeit che significa anche dottrinarietà, n. d. t.), dalla gabbia dei concetti, dalla tela di ragno della teoria. L’oggettività del mondo, l’enigmaticità dei dettagli, il chiaro e l’oscuro senso delle cose lo inducono a raccontare, a descrivere (Beschreiben), a meravigliarsi e a indugiare (Staunen und Verweilen). Del resto il saggio deriva non solo dalla letteratura, ma anche, guarda un po’ che sorpresa, dalla filosofia. L’intera opera di Nietzsche è in fondo saggistica. (…..)
La conversazione si avvia quindi a conclusione con una nuova riflessione sulla saggistica polacca dopo la caduta del Muro e sul tentativo da parte degli intellettuali polacchi più accorti e coscienti di non cedere automaticamente alle mode culturali provenienti dall’Occidente e di non gettare via lunghi anni di riflessioni e dibattiti.
Proviamo ora a delineare un breve commento a questa stimolante conversazione: mi sembra decisiva la convinzione comune a tutti e tre gli interlocutori che il saggio sia un genere letterario ed anche filosofico, un’arte difficilissima e sublime, mai gregaria o di ripiego, distinta e al contempo connaturata alla creazione letteraria. E in queste pagine di «Sinn und Form» si giunge a dibattere dell’arte del saggio movendo dalla personalità e dal metodo di Gadamer, maestro oserei dire socratico del conversare: si conversa nel mentre che si seguono e si intrecciano direzioni (versus) del ragionare che tendono a cum-vertere, nient’affatto nel senso di trovare accordo e neutralizzazione, ma nel senso di andare incontro all’interlocutore, incontrarlo appunto, ascoltarlo e a lui aprirsi per continuare a camminare con il pensiero e con la parola.
In questo processo e in quest’atteggiamento o attitudine vedo il recupero dell’origine orale della filosofia e probabilmente del saggio, che nascono appunto, lo sappiamo bene, come dialogo.
Il saggio sarebbe dunque frutto del conversare, oppure troverebbe origine anche nel conversare: mi sembra un salutare punto di partenza antinarcisistico e antisolipsistico.
Il saggio si pone allora come momento privilegiato dell’ermeneutica che proprio Gadamer, sulle orme di Schleiermacher, ha traghettato dal più ristretto ambito filologico a quello filosofico ed esistenziale.
I protagonisti della conversazione da me riportata usano due vocaboli che significano saggio: l’uno è Essay, di chiara etimologia francese; l’altro è Beitrag che significa saggio nel senso di contributo (in questo caso contributo di pensiero, ovviamente); ad un certo punto Kleinschmidt fa il nome di Kurt Tucholsky e riporta il gioco di parole del polemista tedesco che verte, appunto, sul termine Essay sostituito scherzosamente con l’apparente sinonimo Versuch che, nel suo significato di tentativo, sembrerebbe rendere alla lettera il termine franco-tedesco (ma il sinonimo corretto di Essay è, ripeto, Beitrag); Kleinschmidt osserva che Tucholsky ha usato questo gioco di parole per sbeffeggiare il genere saggistico ch’egli non amava, ma sottolinea quanto egli invece avesse colto nel segno: il saggio resta forma aperta di ricerca e di riflessione, tentativo appunto (il verbo tedesco versuchen significa infatti tentare di, provare a), opus in fieri.
Proprio tenendo presente quest’idea ho, all’interno della mia traduzione, volutamente citato tra parentesi alcuni vocaboli tedeschi originali perché mi premeva evidenziarne la pregnanza e la stretta correlazione con l’idea di saggio come arte; inoltre, volevo creare una serie di binomi tra tedesco ed italiano che mi illuminassero nella riflessione anche etimologico-linguistica sul saggio:
- Aufmerksamkeit (attenzione) in tedesco dice il notare, l’accorgersi (merken) che si apre o è già predispositivamente aperto (auf), lì dove l’italiano sottolinea l’ad-tendere, il disporsi verso, l’orientarsi a, il porsi in tensione verso;
- Zuhören (ascoltare)(nel testo originale si tratta di un genitivo del verbo all’infinito sostantivato cui segue una serie di infiniti anch’essi sostantivati dei quali dirò a breve); vorrei far notare che la lingua tedesca dice anche hören per ascoltare, udire, là dove il prefisso zu suggerisce, in maniera forse più intensa che in italiano, il porsi in ascolto verso, l’ascoltare anche come atteggiamento corporeo del pro-tendersi verso chi parla;
- Neugier auf anderes (curiosità del nuovo) esprime la brama (Gier) del neu (nuovo), che in italiano riconduciamo al latino cura, la premura, il prendersi cura di, ma non basta: il tedesco ha quell’impareggiabile neutro anderes che riesce a comprendere in sé l’animato e l’inanimato, il concreto e l’astratto, tutto ciò che è alter rispetto al soggetto percepiente e pensante;
- des wechselseitigen Lernens im Gespräch (del reciproco imparare attraverso il diaogo) rimanda chiaramente allo scambio reciproco (wechseln, cambiare, scambiare con) dell’apprendere (lernen) nel, all’interno del dialogo, della conversazione, comesi esprime il tedesco con un complemento di stato in luogo figurato ed usando un sostantivo che si connette a sprechen, parlare;
- Erzählen significa raccontare ed in entrambe le lingue il verbo si fonda sull’atto di contare, cioè mettere in ordine aritmetico-logico-matematico i fatti e i pensieri;
- Reflektieren, Anspielen und Vertiefen (riflettere, accennare ed approfondire) sono gli ultimi tre termini che ho evidenziato nell’intervento di Kerski e che dicono il riflettere (qui viene usato un verbo d’etimologia latina che rimanda all’atto di piegare all’indietro, restituire o ricevere in cambio, ma il tedesco ha anche nachdenken, letteralmente ri-pensare e überlegen, letteralmente porre un pensiero sopra l’altro), l’accennare (ma anspielen può indicare anche la mossa d’apertura nel gioco delle carte, per cui in tedesco abbiamo un avviare la partita del conversare e del discutere ed in italiano riconosciamo un alludere o fare segni con le ciglia, con lo sguardo) e il rendere più profondo(tief);
- e giungiamo all’espressione eher eine Form des Suchens als des Findens, (il saggio è) una forma del cercare piuttosto che del trovare, per cui il vero perno è il verbo suchen, cercare, andare in cerca di e tutta la serie di infiniti sostantivati cui accennavo poco prima dà grande forza all’idea che l’arte del saggio sia un fare, un essere attivo del pensiero, un agire.
- Vale la pena, credo, considerare anche il sostantivo Anschaulichkeit (chiarezza) che in tedesco riporta ad an-schauen, guardare, connettendo quindi la chiarezza (in italiano ciò che è conosciuto, visibile, illuminato) con l’atto del vedere e del rendere visibile;
- Beschreiben è, letteralmente, il de-scrivere, mentre Staunen è da riconnettersi esattamente col nostro stupore, il rimanere con gli occhi spalancati davanti ad un fenomeno o ad un fatto degno d’interesse e Verweilen è esattamente il medesimo verbo che Faust usa nel concludere il patto con Mefistofele (Se dirò all’attimo: fermati dunque! sei così bello! – verweile doch, du bist so schön – allora mi potrai gettare in catene, allora andrò volentieri in rovina) e che significa trattenersi, indugiare, contenendo in sé la Weile, il breve lasso di tempo durante il quale si fa una considerazione, ci si sofferma su di un’idea o un’intuizione, si ponderano gli sviluppi di un pensiero.
Concluso questo excursus etimologico-lessicale, torno a riflettere sulle affermazioni dei tre interlocutori; non sfugga la dichiarazione di Zagajewski a proposito dei saggi dei poeti, per cui dalle sue parole risulta quanto delicato sia l’equilibrio necessario per scrivere un buon saggio, quanto sottile il discrimine tra ciò che va detto e ciò che va taciuto; introducendo poi anche il genere del diario intellettuale, il poeta polacco manifesta il proprio interesse per quella che chiamerei l’officina dell’artista o del filosofo, per la possibilità di cogliere il farsi, entro la vita quotidiana a tutti noi comune, dell’opera d’arte o filosofica. Mi vien fatto di pensare che l’Italia ha in Leopardi e, nel caso specifico, nei suoi Zibaldoni un punto di riferimento altissimo ed inesauribile, una commistione felicissima tra creazione artistica e riflessione, tra intuizione e ponderazione filosofica, tra ispirazione e presa di coscienza storica, tra introspezione psicologica e giudizio etico.
Infatti sempre Zagajewski parla della creazione saggistica come di un momento necessario e fondamentale del pensiero, la cui continua attività cerca e trova espressione di volta in volta nel testo poetico, in quello narrativo o in quello saggistico e a questo punto nel lettore si fa strada la convinzione molto interessante ed illuminante che si possa attuare il superamento della rigida distinzione tra i generi, per cui il saggio contiene in sé anche elementi di poesia e di narrazione; se infatti l’attenzione e l’ascolto derivano dalla curiosità per l’altro e per ciò che è altro, intensificando e perpetuando tale curiosità, s’imbastisce allora tra le persone un dialogo, un reciproco apprendere capace di dispiegarsi in racconto, riflessione, accenno ed approfondimento con un procedere esplorativo e di continua interrogazione, antidogmatico per necessità e per convinzione, determinato a cercare la chiarezza, affascinato dal piacere della descrizione, disposto a meravigliarsi e ad indugiare. Il saggio è in tal senso anche un luogo gratuito, di recupero del sé e dell’altro all’interno e contro un tempo ed uno spazio invece continuamente monetizzati, organizzati in modi il più possibile “utili” alla produzione, al cosiddetto “sviluppo” (inteso, anche quest’ultimo, in termini ovviamente economici e finanziari).
Il saggio possiede una sua dimensione concettuale ed una estetica ed è, come felicemente suona il titolo della conversazione da me riportata, uno spazio, un luogo vasto ed aperto in cui il pensiero dispiega la sua libertà, il proprio bisogno di testimonianza etica e la sua inesauribile inventiva.
Tutti e tre i protagonisti della conversazione posseggono una coscienza profonda ed una considerazione alta del genere saggistico; infatti la loro riflessione a tre si costruisce su solide basi teoretiche e culturali ed anche le scelte lessicali, come ho voluto mostrare, sono ponderate e pregnanti, proprio perché nessun termine può né deve essere usato in maniera avventizia; lo sottolineo anche per rimarcare la differenza determinante tra una certa saggistica latamente divulgativa e la saggistica che per qualità di scrittura, densità concettuale e coscienza intellettuale è, appunto, arte, difficile, sorvegliata, fortemente interrogativa come ogni vera forma d’arte.
Mentre rileggevo le riflessioni di Zagajewski il pensiero è andato a Winfried Georg Sebald, stranamente non citato da Kleinschmidt nel suo elenco di bravi saggisti in lingua tedesca; eppure è molto probabile sia lui l’autore d’area linguistica tedesca che negli ultimi anni maggiormente ha saputo rendere onore in modo peculiare e straordinario proprio all’arte del saggio con lavori assai personali capaci di imporsi a livello internazionale. Prendiamo ad esempio il suo Soggiorno in una casa di campagna che raccoglie saggi su Gottfried Keller, Johann Peter Hebel, Robert Walser ed altri o Gli anelli di Saturno (entrambi i libri sono pubblicati in Italia da Adelphi) che, avendo come filo conduttore i lunghi itinerari a piedi di Sebald attraverso la campagna inglese, racconta e riflette su figure come Michael Hamburger, René Chateaubriand, Joseph Conrad, Edward FitzGerald, Thomas Browne: in queste opere sebaldiane viene inverata l’osservazione di Zagajewski, per cui il saggio è un itinerario alla ricerca di, un saggiare, appunto, paesaggi, fatti, testi, documenti, memorie, un muoversi in questo caso anche col corpo, non solo con la mente, in un interscambio continuo tra sensi e pensiero, tra il camminare e il trattenere nella memoria le riflessioni che scaturiscono durante il cammino.
C’è sempre un riferimento soggettivo di partenza (à la Montaigne) che permette a Sebald d’intessere interrelazioni tra cose, persone ed idee in un’ammaliante flânerie della mente e della parola; non è un caso che i suoi saggi siano spesso corredati da immagini o contengano riferimenti musicali, che essi siano così curiosi della natura umana ed attratti da oggetti anche minuti o che normalmente passerebbero inosservati, che percorrano sovente luoghi geografici i quali sono anche luoghi della mente, che posseggano la tensione del racconto e la lucidità della riflessione critica.
Robert Walser, le promeneur solitaire,come s’intitola il saggio a lui dedicato nel Soggiorno, sembra essere non a caso fratello d’elezione di Sebald, perché entrambi coltivano nei loro libri quell’attenzione umana e filosofica, estetica e critica a tutto ciò che li circonda e li permea, perseguendo un ideale irrinunciabile di libertà del pensiero e del giudizio, di analisi puntigliosa della modernità e di smascheramento delle idées reçues e dei travisamenti ideologici, perfettamente in linea con un maestro, spesso citato con ammirazione da Sebald stesso, quale fu (quale ancora è) Walter Benjamin.
- Trattasi del numero 4 del bimestre luglio/agosto 2013. Fondata nel 1949 all’interno della zona d’occupazione sovietica da Johannes Becher e Paul Wiegler, “Sinn und Form” (senso e forma) si affermò presto come una delle più autorevoli e in qualche modo libere riviste letterarie di entrambe le Germanie, soprattutto grazie all’impegno e all’eccezionale apertura culturale del suo primo caporedattore, tra l’altro poeta di assoluto valore, Peter Huchel che, sottoposto a stretta sorveglianza e a ripetute critiche dall’apparato politico della DDR, fu costretto nel 1962 a lasciare il suo incarico; il ruolo di “Sinn und Form” prima nella DDR ed ora nella Germania riunificata è sempre stato di rigore nella scelta dei contributi e di agorà per i più interessanti e validi artisti ed intellettuali dell’area linguistica tedesca, dell’Europa dell’Est e del mondo intero. ▲
- La traduzione dei versi benniani è di Giuliano Baioni. ▲
- Si tratta di nomi di assoluto rilievo nel panorama culturale di lingua tedesca; molti di essi sono noti ed affermati anche a livello internazionale. ▲
La ringrazio per il Suo intervento circostanziato e stimolante, gentile Signor Laccetti; lo vedo solo ora e mi scuso per il fatto che la mia risposta giunga così in ritardo; sono fondamentalmente d’accordo con Lei, anche se penso ( e la mia non è una posizione originale, lo so bene) che dobbiamo tenere proprio Leopardi come punto di riferimento, sforzarci di derivare da lui una visione sovranazionale e moderna, laica ed aperta; guardare poi oltre i nostri limitanti confini nazionali non può essere che salutare. Ho molto apprezzato il Suo riferimento a Dossi. Grazie ancora.
Davvero un intervento ottimo. Che tocca un punto nevralgico delle nostre lettere; la ‘dittatura’ gerarchica delle forme codificate (romanzo, racconto, versi) e del genere, le mancanze o i difetti di sconfinamento se non in casi, diciamo, ‘rapsodici’, anti-sistema (penso alla triade ‘antimanzoniana’ di Dossi-Imbriani-Faldella e le gemmazioni dei ‘prosatori d’arte’ novecenteschi). Di certo siamo patria di letteratura assai più dogmatica rispetto a quella francese e anche a quella tedesca; proprio in virtù della nostra scuola classicista e dei fondamenti che porta con sè. Se vogliamo di una certa pretesa ‘monumentalità’ pubblica della parola, che non può essere resa pubblica in forma considerate ‘minori’, di approssimazione, dove al contrario c’è un germe assai fertile di contaminazione e di ricerca vera. Non a caso il saggismo letterario, nelle forme del diario intimo, da noi anche qui ha prodotto ben poco; oltre il già citato “Zibaldone” abbiamo le “Note azzurre” dossiane e non credo molto altro.