Indaco

di in: Bazar

Ci sono costruzioni, chissà perché, a lungo sbiadite nel ricordo, un qualche lungomare, Marsiglia credo, vecchio ospedaletto di miserabili, cortile e chiostro, una banchina, enormi spire di corde, una nebbia di sogni nell’orgoglio e nell’impotenza presto consumati, quando allora, sì, un destino di infaticabili fulmini e straordinarie marce, sentiero limpido di glorie diciottenni, e poi anni, ritrovare tutto questo nel buio, nel mare, una torre lì che convoca un sabba chilometrico di secondi, epoche e giovinezze suicidate per pudore, e sepolto quello che era ti assale; a stento liberarsene, non trovare più la forza.

Ci sono luci, questa, intensa sul nero del vasto canale, uguale a mille altre, dirai, certo, luna e stelle pitturate dentro fondali che molte infinite città sanno indossare, con la stessa noncuranza di  belle donne sciatte e sicure di sé; il loro fiato addosso senza nome, respiro di latente agonia t’affascina, ti soffoca.

Ci sono voci, echi insensibili circondano, un attimo, prima silenzio, giuro, poi un devastante impastarsi di rimpianti, di illusioni che sfigurano quando le osservi. La tenacia, questa notte, sapore ridicolo, una nullità, poco più.

Quella torre lì, Leandro e il suo perduto amore, per un lume spento, l’un l’altro nelle onde.

Che più?

Prua di scura petroliera, silenziosa.

Che altro?

Punti bianchi tra il buio della notte. Gabbiani, solitari. Presto inghiottiti. I loro corpi, metalliche parvenze, stridulo lampeggiare, sulla destra sorvolano Sultanahmet.

E oltre i luminosi minareti, blu. Indaco, forse.

Tepore che sovrasta i resti della trascorsa pioggia.

Battelli, vortici e brusii nel Bosforo.

L’elica consuma, viene consumata. Furore e schiuma, una scia vuota. Avanzo d’argento, questo lunare contorno sopra la grande cupola e i suoi sei custodi vigili, carichi di splendore.

Arriva un momento. Ti fermi, dici, insomma domandi e tutto viene fuori da sé.

Non sei stato, non sei.

La tua voce che odora di muschio, certe foglie gialle e poi rosse che si intrecciano, stridono, solitari mugugni, così pieni di paura. La notte, tutta la notte in quella voce, e odore di muschio, foglie secche, gialle e poi rosse.

E dici partire, dimenticare, ne ho bisogno, un fottuto bisogno, il tempo perso, no, non fermarti a pesarlo, strade a centinaia e colline impossibili da valicare, città mai traversate, parole, migliaia e migliaia di parole inutili, queste tanto superbe quanto fiacche, facce e corpi non posseduti, ore come istanti, istanti come secoli e questo vuoto addosso che non muore. Cresce, si fa forte.

Vento nel palmo della mano, freddo, e ricordi miserabili da nascondere. Provarne vergogna.

Dirlo, urlarlo, fuggire, e in fretta, senza infamia, senza gioia, fuggire, basta.

Al Corno d’Oro barconi ormeggiati, danzanti fuochi di pesci arrosto, riso pilaf, carretti di ceci e uva; vecchi che al giorno baciano terra umida delle bestemmie della sera, ventre putrido di officine e rimesse brunite, mani tese, una moneta e un grazie celato di disprezzo.

Ma un odore, quell’odore di cose andate a male, che si consumano lente, inesorabili.

Da troppo tempo sfamarsi di silenzio. Ruvido, incostante, pallido. E nelle sere, di’, nelle sere tornare a brindare, annusando desiderio a piene mani fin quasi a strozzarti, a crederlo reale per il solo fatto di sentirti morire per lui.

Da troppo tempo lo ripeti; finiscila, niente scuse, la fuga è riuscita, è salvezza.

Da troppo tempo come questa notte stare qui, interrogando il mare, le sue macchie crespe di rame e bronzo, e guardare, guardare, non stancarti, pur esiliato nello sguardo, perso nello smarrimento di chi guardando vorrebbe addormentarsi e non rinascere, no, stringere anzi un armistizio d’oblio, sovrano, immutabile, cancellare ogni traccia, scrupoloso incanto d’assenza.

La tua nave. Paziente. Quelle corde stremate, il grasso a prua, vecchie porte, dure a aprirsi, legni che la pioggia ha maciullato con sapienza da scultore.

Qui mi distendo, ora. Chiudo gli occhi, li aprirò solo quando ne avrò voglia.

Quando farà giorno e sarò lontano.

Una tempesta, quelle mirabolanti apocalissi di onde, tuoni, uno sconcerto d’aria, di fiamme  vibrano senza origine, senza destinazione.

Coste gialle, incendiatemi gli occhi… rumori, strani lamenti di uccelli, non capirò, la testa gira… ecco, fulminano albe già logore, coloratissimi banchi di frutta sopra un decrepito molo eritreo, panni stesi, greggi di casupole bianche, sfondate e brulicanti, o piuttosto tutto uno sterminato distendersi di spiagge nude, pescatori lucidi, muscoli tesi a tirare in secca barche e reti strappate, e poi donne smagrite, lagnose che invitano dentro il muto groviglio di vicoli dalle parti del mercato coperto, odore di fritto e acqua sporca, una bandiera appesa a un portone sbrecciato, muso storpio di un consolato italiano dei tempi andati, e dietro le spalle della vecchia caserma Mussolini una ragazzina ti prende per mano e nel buio ti incanta… decine di nuvole aspre, gracchianti, certi bambini acclamano sciami di ciclisti scesi giù dall’Acrocoro come vespe impazzite, in coda davanti al caffè per entrare al cinema Impero un beccarsi selvaggio di vecchi rugginosi, quant’è trapuntata di bianco e di vaiolo una loro guancia… nell’erba fradicia di rugiada correre, mentre ululati di muezzin e scordati scampanii al risveglio del giorno si contendono un magro conforto di devozione, e un mango tra le mani da consumare fino alla scorza, fino a divorargli l’anima, i denti rigati di sangue, perché almeno lui conservi traccia del tuo passaggio, patisca la tua stessa ferita… quelle tende di vimini protette dall’ombra impolverata della moschea, vapori di cinnamomo, di zenzero alla svolta della strada proprio di faccia al marmo delle officine Fiat… lino sulla testa, sopra il naso, appeso come un ragno in agonia a una finestrella del treno che ferma a Ginda per un’ora o due… pietosi, così antichi e materni gli spruzzi d’acqua gelata fra le mani d’una vecchia Afar, vertiginosa febbre di zanzare e formiche attorno a quello sventro di carcassa, un cane che sulla via aggomitolata di Massaua asciuga le viscere al sole… come sono giovani, quanto sono coraggiose alcune tamerici aggrappate al terreno prima che sabbia e terriccio le inghiotta… tra le baracche del porticciolo delle ragazze dal capo rasato, sembrano in peccato di morte i loro sguardi, come reliquie depositano sopra foglie di palma grumi di polipi stanchi, certi gamberi ancora vivaci… non credo ad altro cielo, non chiedo altra terra, più di una carezza, un abbraccio pretendo da voi… coste gialle, la testa gira, fuochi incendiari della Dancalia al tramonto vi porto con me, putrido logorarsi di mare sulla chiglia corrosa, gola squarciata dagli ansimi di una folle notte a perlustrare le sponde del fiume Barka straziato nel petto come uno sciacallo storpio, mugugnante e torvo più di uno stregone toccato dalla santità della lebbra… vi stringo bagliori che coprite come un mantello strappato il monte Soira, aurore sfinite sopra la lama annebbiata del mare annunciatemi ancora, tenetemi lì, non consentite a nessun altro di possedervi prima del mio ritorno, coste gialle, accendentemi gli occhi, bruciateli, fate di me fuoco e cenere che arde, che si consuma per voi, fate di me sabbia e pioggia, che non s’asciuga, non muore…

Lontano.

Quando farà giorno e sarò lontano.

 

* Questo testo è un estratto da Allemanda fantasiosa con qualche tremore, quarto movimento della raccolta inedita Requiem ultimo. Sinfonia di prose, divagazioni, racconti per voce sola.