Ero tutto preso da una scoperta sulla nostra preistoria. Il cacciatore-raccoglitore Fritz, che da anni trascorreva le notti in un appartamento in affitto a un centinaio di metri da casa nostra, aveva portato la sua moto in mezzo al cortile e ora la omaggiava di eccezionali cerimonie mentre ne detergeva con cura il carburatore. Dai suoi gesti lo si poteva subito giudicare un uomo religioso. In ginocchio davanti alla moto, dopo averla cosparsa d’olio profumato era passato a pulire le due pedivelle togliendo accuratamente la polvere che si era depositata nelle scanalature di gomma che le ricoprivano. Il sabato pomeriggio era dedicato a questi rituali. Tutti mi dicevano che da questi episodi si poteva scorgere il carattere laborioso della nostra gente, ma io invece, guardando Fritz, continuavo a non capire cosa ci fosse da lodare in tanta laboriosità. Certo, trattandosi di un cacciatore-raccoglitore, il mezzo doveva risultare decisivo per la sua attività (per quanto si recasse regolarmente al lavoro in corriera, sulla corsa riservata agli operai), ma la parte più rilevante non era quella che incideva sulla manutenzione della moto, quanto un insieme di piccoli gesti che dall’esterno potevano apparire inutili e che invece costituivano il nucleo centrale del suo particolare credo.
Dopo aver tirato a lucido il motore, infatti – un centoventicinque cc – passava una mano sulla sella, una volta col palmo e una col dorso, ripetendo i gesti come se dovesse lisciare la schiena a un cavallo. Poi dava un colpetto alla moto, per incoraggiarne l’indole benevola ma incline alla pigrizia (come capita a chi è stato un po’ viziato durante l’addestramento). Si fermava quindi in fondo alla sella, sul pezzo di metallo curvo che doveva fungere da maniglia per l’eventuale passeggero, il fortunato, o forse la fortunata che si sarebbe accomodata dietro di lui. Era un momento importante: indugiava sulla maniglia come se attraverso il metallo dovesse esprimere un desiderio, o spedire un messaggio cifrato al quale il cielo avrebbe risposto.
Conclusa la prima parte della cerimonia, Fritz saliva finalmente in groppa alla moto. Le meravigliose evoluzioni cui dava luogo pochi minuti dopo nel cortile – nell’indifferenza dei vicini, un tempo interessati a questi riti e ora occupati in altre faccende – sembravano una sorta di dressage in cui impegnava il cavallo prima della caccia. Era un cacciatore-raccoglitore d’avanguardia. Ad esempio, la sgommata e la derapata, due tratti specifici del suo esercizio, avevano valore in sé e per sé, tanto è vero che non le eseguiva pubblicamente, ma in una parte segreta del giardino, nascosta alla vista dei passanti. Erano altri due momenti di un esercizio spirituale. Più volte avevo chiesto ai miei alcune informazioni su di lui: proveniva da un paese vicino, i suoi genitori si erano trasferiti dall’Emilia Romagna, da un borgo nei pressi di Ravenna; ma erano dettagli inutili e io restavo con i miei interrogativi. Da quale tribù era potuto arrivare fino a noi? Magro e spigoloso, capello fra il biondo sporco e il castano, non si abbronzava mai, neanche in estate: eppure il suo profilo conservava la nobiltà enigmatica dei nostri antenati.
Altre usanze ne denunciavano chiaramente la condizione di progenitore. Ad esempio, quella di tenere la moto in una tenda in fondo al garage, che di tanto in tanto spostava di qualche metro, retaggio insopprimibile del nomadismo cui aveva dovuto finire per rassegnarsi. Così la chiave inglese che portava sempre con sé – e che sbucava dalla borsa-porta attrezzi della moto – era con ogni probabilità la versione più aggiornata dell’accetta che un tempo gli era stata compagna di imprese venatorie. Versione non del tutto riuscita, dovrei aggiungere. Anzi, a questo proposito devo proprio fare un cenno in più.
Tempo fa, stanco di vederlo girare con un’impropria chiave inglese, avevo pensato di aiutarlo. Così, un tardo pomeriggio, prima che rientrasse dal lavoro, ero entrato con estrema circospezione oltre il cancello dello stabile per mettere vicino al suo portone due pezzi di selce e dello spago, che avevo avuto l’accortezza di lasciare in parte in modo che potessero sembrare oggetti dimenticati da un bambino durante i suoi giochi. Erano invece gli elementi di un passato che in lui riprendeva forma. E il processo era già in atto: più tardi, mentre dal poggiolo di casa mia sorvegliavo il suo ingresso, gli occhi puntati col binocolo verso il cancello, lo vidi arrivare a piedi con un sacco sulla spalla, che presumibilmente raccoglieva la caccia di giornata. Non che ci fossero dubbi, ma non mi poteva bastare quella conferma. Così, uscito di casa con una scusa qualunque, mi recai di corsa in bici fino al cortile interno dello stabile: quando mi accorsi che la selce e lo spago erano spariti, mi dissi che le prove materiali del nostro passato potevano dirsi finalmente evidenti.
Ad ogni modo, dopo i brevi esercizi usciva in moto per la campagna, con la sua giacca di pelle (vera pelle, pelle di animale) per il primo giro del sabato, una rifinitura in attesa dell’uscita serale.
Su di lui era fiorita anche qualche leggenda. Due testimoni mi hanno raccontato un’avventura di cui Fritz si era reso protagonista. Si tratta di un episodio molto rilevante per i miei fini. Uno dei primi venerdì di marzo, verso le nove di sera, nel cortile di una tavola calda piuttosto frequentata, Fritz stava aiutando a salire in sella alla moto una donna che aveva incontrato al bar, una giovane bruna che era arrivata in macchina con tre tizi di un paese vicino, evidentemente interessati a lei in modo esclusivo. Ne era nata una discussione in cui la voce della donna non era stata tenuta in conto per ciò che la situazione sembrava suggerire, discussione che quindi si era svolta per lo più fra tre dei cinque presenti, con uno dei forestieri a tener d’occhio la donna e a consigliarle il silenzio. Nella colluttazione che ne era seguita, Fritz aveva avuto modo di mostrare la sua familiarità con l’ambiente della lotta. Infatti, pur ricevendo qualche colpo al volto – colpi che a detta dei testimoni invece di scoraggiarlo lo avevano caricato – era riuscito a ferire due contendenti e a intimare al terzo di lasciare libera la donna, sotto minaccia della chiave inglese. Per giorni non si era parlato d’altro, come accade ai grandi successi venatori, o per meglio dire alla difesa del territorio di caccia, sempre che di caccia si potesse parlare (e con tutto il rispetto per la donna, il cui diritto di parola, fra l’altro, solo Fritz aveva difeso).
L’attività di Fritz poteva dirsi equamente divisa fra la caccia e la raccolta. Nei fine settimana andava a pesca (d’estate) e a caccia (in autunno), raccoglieva varie cose: mele e castagne cadute dagli alberi (quando era stagione); riviste illustrate che comprava all’edicola di fiducia, o che si faceva spedire alla posta in pacchi anonimi; la spesa, che faceva in vari supermercati della zona e infine annunci pubblicitari e incarti di dolciumi lasciati cadere dai ragazzi, che raccoglieva su mandato dell’amministratore di condominio per conservare il cortile nel migliore dei modi. Raccoglieva anche, più o meno a turno, le donne che si trovavano la sera a passeggiare lungo il fiume, sotto i pioppi, nel punto in cui parte il breve canale che un tempo serviva i due mulini che davano farina al paese. Erano donne con cui si diceva che andasse poi a dormire all’aperto, ricompensandole generosamente con vari doni, per lo più in denaro.
Io non so come si fosse potuto mostrare a noi per quello che era. Fritz progrediva nell’espressione di sé, in una direzione che ai più appariva del tutto ignota.
Per cercare di comprendere meglio la sua origine, in mancanza di altre testimonianze dirette, orali o scritte (i certificati anagrafici avrebbero potuto ben poco), dovetti rivolgermi alle testimonianze materiali. In un primo pomeriggio domenicale, mentre tutti erano a prender aria sotto il sole di maggio, entrai nel cortile di Fritz per raccogliere dei campioni da analizzare, precisamente due vasi di terracotta di diametro diverso, vuoti, conservati uno nell’altro, che si trovavano sopra a un vecchio sottovaso verde scolorito. I due vasi erano conservati in un angolo, vicino a una vaschetta contenente tre piante di gerani rossi in fiore. Li misi in una borsa di pezza e me ne andai di corsa a casa.
L’esame dei vasi non si rivelò molto sorprendente, ma mise in luce alcuni aspetti del sito cui Fritz era legato. Compilai dunque la scheda di analisi.
Modalità di rinvenimento: i due vasi di terracotta sono stati rinvenuti in un cortile, a circa due metri dal muro dello stabile adibito a casa di abitazione, del tutto in luce rispetto al terreno. In assenza di un riferimento stratigrafico, non è stato possibile ipotizzare ulteriori congetture sul corpus cui sembrano appartenere. Versavano comunque in ottimo stato di conservazione.
Elementi sulla produzione dei vasi: la forma comune con profilo a “V”, la pulizia della superficie del manufatto – del tutto regolare – e soprattutto la mancanza di decori li qualificano come vasi da fiori (impiegati in numerosi rituali) la cui probabile origine sembra risalire ad alcune officine attive nell’Italia settentrionale.
Analisi di laboratorio: impossibile causa assenza dotazione tecnologica.
Fritz conservava dunque dei vasi utilizzati probabilmente in qualche cerimoniale legato ai riti di fecondità che si celebravano in primavera. In effetti tutta quella sua operosità, che lo portava a compiere molte azioni diverse nella giornata, quell’inquietudine che non lo lasciava mai quando si fermava in un posto – né durante, né dopo il lavoro – dovevano trovare sfogo in una speranza che non poteva concentrarsi solo sulla devozione per la moto, la quale anzi rappresentava solo un segno: doveva esserci un orizzonte più vasto, complesso, nella sua concezione delle cose.
La generosità con cui assolveva ai suoi compiti condominiali o ad alcuni lavori nei quali era coinvolto dai vicini mostravano le radici del senso di appartenenza che da tribale stava per farsi o si era già fatto comunitario (anche mio padre, che certo non poteva dirsi suo amico, una volta gli aveva chiesto di tagliare l’erba del prato e ne era rimasto del tutto soddisfatto). Eppure, quando la sera, rimessa a posto la moto, tornava sul giardino per fermarsi a guardare i campi che si intravedevano verso l’orizzonte, i suoi silenzi manifestavano un’indole che avvertiva il richiamo della terra.
Mentre cercavo di fare il quadro di quello che avevo capito, mi dissi che avrei dovuto indagare più a fondo in quella direzione, cercare qualche segno, ad esempio qualche pittura rupestre che il retro della sua casa doveva per forza custodire. Ritenevo infatti impossibile che la moto potesse esaurire la sua spinta verso i grandi spazi, spinta che puntava ben oltre le mete che tutti sognavano. Tornai a intervenire. Mi impegnai in una nuova incursione – un po’ più temeraria delle altre – spingendomi oltre il cortile del caseggiato, sul retro del suo appartamento, dove feci in effetti una nuova scoperta. In uno spazio del tutto ordinato, con l’erba tagliata al punto giusto, due elementi brillavano insistentemente davanti al mio sguardo, forzandomi a riflettere sul loro legame. Sopra la porta che dava sul giardino campeggiava un’insegna raffigurante un bisonte, dipinta di marrone scuro quasi sicuramente con l’ausilio di una sagoma di cartone. Tre metri più in là, ritto in mezzo al prato e alto circa due metri e trenta, un totem indiano dipinto in rosso si ergeva in tutto il suo potere. Difficile capire da quanto si trovasse in quella posizione.
Andai verso il totem per osservare da vicino i tagli, le espressioni dei volti che vi erano incisi, volti che ricordavano varie risposte emotive, l’orrore degli antenati per le proprie origini. Sembrava scolpito con arte, con rifiniture fatte a mano, lontane dalle riproduzioni che avevo visto nei magazzini di arredo da giardino. Toccai la scanalatura fra un livello e l’altro, pensando al raccoglimento con cui l’artista vi si era dedicato e ritornai di nuovo alla società primigenia, alla violenza rituale. Tuttavia, non so perché, uscii presto da questa suggestione ripensando alle mie giornate, alla libertà che avevo, all’avventura. Sfiorai di nuovo con la mano il legno, come dovessi valutarne la consistenza, ma fui interrotto da una voce che proveniva da una certa distanza alle mie spalle.
“Lo ha scolpito un vero indiano”.
Era Fritz, rientrato troppo presto.
Con la mano ancora ferma sulla scanalatura incisa, mi dissi che l’unica soluzione era quella di restare il ragazzo che potevo ancora apparire.
“Viene da lontano?” chiesi, cercando di far finta di niente.
“È stato fatto nella campagna di Brescia.”
Capii che qualsiasi possibilità di fingere indifferenza non sarebbe dipesa dalla mia capacità di trarmi d’impaccio, ma esclusivamente da una sua concessione. Cercai allora di restare calmo e di non muovermi. Mi girai lentamente e dissi: “Dal vivo queste cose fanno sempre un’impressione diversa da quella che ci si aspetta.”
Fritz guardava a terra, come se cercasse qualcosa, o seguisse il filo di una riflessione, poi rialzò la testa e senza guardarmi disse:
“Non è più vero qui di quanto non lo sia nell’Idaho.”
Sapevo che aveva fatto un viaggio in nord America. Continuava a riflettere, poi, dopo un breve intervallo fermò lo sguardo su di me:
“Se vuoi fare un disegno come hanno fatto gli altri per la scuola, fai pure. Io devo andare.”
Detto questo, aprì la porta ed entrò in casa.
Io cercai di riprendermi.
In tutto il giardino non c’era un oggetto fuori posto, tutto era curato in dettaglio: quella del cacciatore-raccoglitore era dunque un’opzione possibile, non solo un argomento di studio. Mi guardai attorno. Pensavo alla sua adolescenza, agli anni in cui aveva cominciato a vivere in quel modo. Alla fatica, ai pericoli che la sua attività comportava. Speravo che non uscisse troppo in fretta. Potevo arrivare ad ammirarlo, certo più di quanto non ammirassi molti dei miei parenti, ma nel contempo sentivo confusamente che la mia storia doveva essere diversa, e che sarebbe stata diversa dalla sua. Volevo altre avventure, altri spazi; soprattutto altre conquiste. Ritornavo alle mie letture: non all’Idaho, ma alle rive del Mississippi.
Fritz uscì con la moto, sigaretta in bocca. Lo salutai mentre si dirigeva verso il primo incrocio.