Accolti entrambi nel confortevole letto matrimoniale si dovettero riabituare pian piano a dar consistenza alle cose. Il lampadario lambiccato che pendeva dal soffitto alto, sedie e pavimento che sostenevano mucchietti sfioriti di biancheria, la scrivania ingombra dei pacchi ben sistemati del farsettaio. Una macula cerulea a pena suggerita dalle sconnessure delle imposte. Insieme agli occhi, che ricostituivano la realtà d’attorno, le mani ricreavano i corpi. A partir dal giglio roggio lei disegnava con la punta del dito il profilo slanciato dell’amante; questi indugiava vellicando i crini segreti, facendoli ricci, e da loro risaliva al resto come fa il pescatore che per la coda trae la preda dagli abissi.
Si trattava delle carezze leggere di uno scultore che modella alfine senza forza, perduta l’ispirazion dietro altri e diversi pensieri. Avevan le vene svuotate e fiaccate le reni, tanto che duravan fatica a partire in orario gli sguardi e le parole a rotolare fuor del sorriso. John Reece Junior chiedeva approvazione simile al cane che abbia compiuto una prodezza – riportare l’osso, scavare una buca capace –; lei rispose socchiudendo gli occhi di giada come la gatta satolli. “Divino”, fu il messaggio telepatico scambiato, “Divina”.
E pure una curiosità, o forse un latente confronto, tarlava l’estasi del giovane. – Tu sei stata alla Villa, è vero? – Aveva sussurrato sentendo sotto le sue dita l’epidermide compattarsi attorno alla contrazion muscolare. Poi si sciolse in un “Sìì” a pena udibile e in una novella aura di privilegio che si spargeva a un palmo dal corpo colcato. Profumo di reseda in banco per l’aria. – Racconta – la sollecitò John Junior rinfrancato.
Giuseppina tralasciò elegantemente la sua selezione tra le belle, i preamboli e le spiegazioni, ponendosi già al centro della scena. Lì nella piazzetta, ai piedi lignei della Vergine con lo scettro levato, la giovane si guardava attorno cercando di raccapezzarsi nel sogno. Abbracci di loggiati e cascate di luce precipitanti anche sull’ala che pareva ancora un cantiere le rapivan i sentimenti. Il servitore la lasciò a quel punto, dove la rude teutonica che l’aveva eletta la prese di nuovo con sé. I suoi modi erano sommarii e bruschi; aprì il minuto portoncino incoronato da marmi candidissimi introducendo l’allieva nel vestibolo bujo del tempio. – Guarda il soffitto – le disse colei alzando la mano per prova del pericolo mentre dischiudeva un’altra stazion di tenebra.
L’odore vertiginoso di nardo, incensi, sacrestia e sacello, essenze e gloria infrolliva i ginocchi. La ragazza procedeva a tentoni calpestando le precise pedate della guida che le intimava di non sbandar giammai. Il panico l’invase che il sentiero, incuneato tra gli oggetti di ogni foggia e tipo ammonticchiati ovunque, la tradisse portandole il piede in fallo e provocando il danneggiamento irreparabile d’un dettaglio. Libri, tappeti e lampadari, statue di mostri, santi e liofanti sembravano stringere da presso e con piglio aggredente farsi innanzi verso l’intrusa. Provocazione a spostare o a rompere che tuttavia, infrangendo il rito, avrebbe forse fatto sprofondare la Villa, il colle, l’universo stesso.
In un certo istante parve pure farsi udire una musica proveniente da qualche parte longiqua della casa o da sotto i piedi. O forse meglio sprigionata dall’armonia paradossale delle cose stesse. Poi, com’era comparsa all’orecchio così s’allontanò, e la Tedesca, abbaiando qualcosa, si fece sorpassare all’entrata di un bagno. Non era facile capir d’un subito natura e funzioni dell’ambiente e pertanto ingenuamente ella ne chiese; le rispose una smorfia che metteva in questione le sue abitudini igieniche. Comunque venne fatta spogliata dalle mani mascoline e, non senza vergogna, immersa in compatta acqua bleu come dovesse murarsi in un cubo di lapislazzuli.
Gli intensi profumi la stordirono, sul fior dell’acqua giacevan omai le scorie di colei ch’era entrata. Quando sortì in un tripudio gocciante di polputi candori era altra e più degna. Le spugne la coprirono mettendosi a raschiar vigorose la pelle e alcuna volta una mano s’insinuava di sotto sfiorando o pizzicando assai conta un ultrasensibile punto. Sulle spalle allora le caddero veli e velli, panneggi sapienti che snellivan l’opulenza tizianesca.
Ormai veleggiando sicura di sé nella zona di vita superiore la bella polena carnale s’affacciò da regina sul nuovo golfo in penombra. Anche qui si travedeva uno strabocco di cose che i cortinaggi sfumavan ne i contorni. Trasalì la giovane quando una voce un poco chioccia le si rivolse; non aveva distinto tra le memorie morte e le mummie l’esile figura umana che era l’incarnazion stessa del portento.
Nonostante egli fosse il Versificatore sommo e il Conduttore invitto delle pugna, per cui il capo gli risplendeva dell’alloro e il petto del valore stellato, sentì il bisogno di sedurla. Fece volare per l’aria bruna parole leggiadre, poeticissime e fragranti di cui Giuseppina, tuttavia, non ricordava nulla. Sparirono sull’istante, o forse l’inebriaron come etere al punto da disciogliersi dalla memoria, o anco l’educazione impartita al Carmelo non arrivava ad afferrarle, come un retino smagliato le splendide vanesse. Fatto sta che, sebbene John Junior insistesse smanioso, ella non riusciva a ripetere. E non c’è di peggio poi che cercar di riportare con gracili parole le parole illimitate.
Chi sa se il Poeta se ne accorse e ne fu irritato. Una tale increspatura nervosa colse comunque la ragazza nel contegno galante e riferiva ora all’amante. Forse più che la preparazione scolastica insufficiente a comprendere era la situazione stessa che doveva svolgarizzare a irritarlo. John Junior ipotizzò pure che la maschera tante volte indossata si sdrucisse procurando quel tedio. L’esserino nell’ombra si mostrava quasi infantile per la mistura del voler sembrare all’altezza nella recita di fronte alla mamma e dell’impazienza scattosa che non ammette ostacoli. Gesti e voce, ora carezzevoli ora tiranniche, s’alternavano di continuo.
In verità l’interregno delle belle maniere e della poesia incompresa dovette tramontare in fretta. Meglio bruciare il poco ossigeno che, nella camera carica, frapponeva le distanze e lasciar dialogare le pelli istintuali. Ma anche qui qualcosa fece cecca. Trovarsi sollevata ad elevazioni cotali rese probabilmente smarrito il corpo alla scolpita regina. Le piccole mani che la frugavano le parevan l’incursione indebita ed appuntita di topi tra i veli del paradiso. Quello strano gelidore sotto le sue dita sensitive indispose forse vieppiù l’Animatore.
Afferrò allora Egli, con gesto d’imperio, la disanimata per le chiome calandola giù, ad inchinarsi al principino. Giuseppina raccontò che l’azione fu travagliata e vana. E mentre raccontava, con le pupille umide e ridenti che si bagnavano nel lago oltre il balcone, sfiorò a pena il giovane amante che subito rinvermigliò.
La ragazza raccontava degli atti che nel frattempo compiva. Ogni ricordo narrato una pausa nel presente ed ogni trafficar con il giovane amante un abbandono del vecchio, ché fare e contare in contemporanea purtroppo non si dà. L’Animatore, a sua volta disanimato, si sottrasse al fine con stizza e con uno schiocco di scarico ingorgato. Per contro John Junior, pomellato di baci al cavallo, spicciò forte e con un ruggito le rinate essenze vitali.
Ma il Prestidigitatore non aveva ancora esaurito le sue risorse. – Ho io quel che ci vuole per il monachino inappetente – pare che abbia sclamato. Scivolò tra le ammassature e le curve d’ombra della camera come un pipistrello avvertito. Da una delle nicchie degli armarii, accanto ad una curiosa divinità dell’India tutta braccia e strumenti tra le dita, cavò fuori una scatolina damaschinata. Giuseppina, sempre piantata nel pavimento, osservava strizzando le palpebre le movenze fluide della fantasima. Una minuscola bica s’ammonticchiò allora su di un piattino d’argento. – Vieni, ragazza – chiamò la voce di velluto. Ella venne collegata con un tubicino alla follia paradisiaca. – Ave, o Tullia, mistero che rinasce – la salutò, ribattezzandola al mondo, l’Animatore finalmente soddisfatto.
La giovane raccontava ora al suo amante di essersi quindi come stenebrata. La camera divenne anzi pulsante di luce fosforica. La penombra le scomparve dalle pupille simile a uno straccio imbevuto di pece nera che arda in una sola fiammata. La straordinaria chiarezza sfumava i contorni, l’uomo di fronte a lei, quasi disincarnato, completamente liscio e irradiante non teneva ormai niente di umano. A sua volta, a pena attinta la polvere sospirando, scattò in piedi come un pupazzo. Sempre più irreale la toccò da un’altra dimensione, appunto come una fantasima dalla coda ritta. John Junior accusò una reazion di difficile decifrazione; sollevato pure lui e fiero nello spirito s’ammosciò tuttavia nel fisico. La esortò comunque a continuare la novella.
Ella però non sapeva dire con la richiesta precisione poiché i moti corporali e della mente s’acceleraron talmente da divenir inconscii e dunque quasi del tutto perduti alla memoria come un paesaggio scartavetrato nell’attrito contro la folle automobile. Certo ella fu premuta più e più volte, da ogni lato e pertugio, scaraventata e portata ai sette cieli da una presenza supersomatica, di cui però, ancora una volta, non ricordava che un vago bagliore. E del resto, come John doveva certissimamente sapere, gli anglosassoni lo chiamavano Mr. Radium.
Per la cronaca delle acrobazie e delle prodezze doveva affidarsi quindi al Multianime stesso. Rammentava bene infatti di essersi destata come da un sonno fondissimo e altrettanto prolungato d’asfodeli, nuda su di un letto stretto. Spalancando gli occhi faticò a tutta prima a ricomporre sé e a dar sensi all’ambiente estranio. Vide poi, simile ad un’icona batuffolata di penombre, il Poeta rivestito di tutto punto e chino ad uno scrittoio. Subito l’inquadrò e contenne nell’orbita scialba del suo occhio veggente oltre le larve del semplice mondo. Tenendola ivi quale cameo di poco rilevato la salutò.
Egli stava appunto stendendo, con una mano sopraumana per la forza usata a sottomettere in forma la ribollente materia, le trame della violazione consumata nell’indefinito tempo precedente. Lei doveva completamente a lui tutta la lor storia comune; lei, vergata con penna dritta, era omai quello scritto. Sapeva, per esempio, di come all’inizio il Decervellatore stillasse goccia a goccia il tepido segreto dal suo inguine di donna e di come ella fosse per estinguersi nel godimento. Poi, disse Giuseppina, c’era scritto che avevano praticato lunghissimamente e non mai sazii il Banana.
– Il banana? – chiese alzando un sopraciglio John Junior.
– È una posizion d’un libro figurato -, spiegò compunta l’allieva ammaestrata, – che sarebbe, mi pare, quello che noi si dice farlo alla pecorina. –
– Pecorina? – interrogò sempre più perplesso l’americano distorcendo la parola come se maciullasse del formaggio di monte.
La giovane fu costretta a spiegare, come al discepolo tardo nell’astrazion de’ concetti, con l’esempio concreto. Qualcosa riondeggiò allora in John Junior ripercotendosi nelle baie lunate dell’amante, ma il racconto, che lui non voleva smettesse, fungeva ancor da calmieratore. La pupazza Sherazade seguitò la sua recita ventriloqua. Insomma il Poeta lesse che Tullia minacciava di soffocarlo nella sua stretta micidiale ed inesausta ma che lui rintuzzava e debellava colpo su colpo col miracolo del proprio desiderio sempre rinascente.
Al fine, mentr’ella sragionava di “ancora, ancora, che da questo giorno non farò più l’amore, senza te”, il Combattente dei materassi si risolse ad aver pietà di quella carne martoriata. Egli temeva infatti, per già provata esperienza, che tale scotimento dionisiaco della persona danzante al palo della dolce tortura, allontanasse talmente le facoltà dalla giovane da non poterle più ritrovare. Non sarebbe stata la prima donna a perder per sempre la ragione a seguito di que’ demoniaci amplessi. E poi la vita, come le giovani suicide a cui aveva staccato la spina, che prima lo perseguitavano con la presenza modesta alla porta, poi – una volta messo in atto il gesto micidiale – con quella disincarnata dei plenilunii. Ora giunto a più matura età non voleva aggiungere un nuovo rimorso e dunque il Rinascente smorì di sua propria volontà.
Insomma fu l’Antico Sacerdote a metter fine all’agonia della giovine agnella, se no durabile all’infinito quanto il vigore del divino carnefice! Anche se il tremendo sussulto finale s’avvicinò davvero a spacciarla. La notte ingombrò gli occhi di Tullia in un deliquio da far temere che l’esagerata palpitazion cordiale terminasse in tragedia.
Giuseppina, i capelli diffusi sul candido origliere, ascoltava stupita e rincresciuta per il proprio oblio. Si reggeva su di un gomito ascoltando, con la stessa rilassatezza che metteva adesso nel racconto. E nel frattempo il narratore di jeri parve eccitarsi del suo stesso romanzo. Tullia fu così invitata nella sacra postazion dello scrivente a rimestar la bragia carnale mentre il racconto terminava. Nudate le mani eseguì il compito. Allo stesso modo che ora si preparava a servire John Junior, a sua volta impaniato fringuello nella rete di narrazioni ed ascolti. L’ora omai incalzava rendendo inquieta la ragazza. Redimita dal suo vario status di musa, bambola, personaggio narrato e narratrice fiabesca si andava rivestendo dei panni con cui ritornare a casa in punta del lago. Aggiunse però l’epilogo; il Poeta d’un tratto, dopo che lei s’era ributtata esausta sul giaciglio e aveva chiusi li occhi per un istante, s’era dileguato come una sostanza volubile dall’aria negra ed estuosa della camera. Venne dopo poco la Walchiria a dare il cambio e la sveglia, rovesciando sulla sponda del letto i modesti abiti con cui la ragazza s’era il più elegantemente agghindata a casa sua per la selezion della radura. Oh adesso quanto miserucci nella pretenzione e vergognosi!
Il pomeriggio si dissanguava senza fretta sul lago come un romano stoico che s’apra le vene e la per sempre Tullia s’aggiustava le capellature prolisse davanti allo specchio. Così anche quella tarda mattinata in albergo, mentre dalle finestre ora più aperte una polvere color zafferano la circondava da capo a piedi.
– Comunque la Tedesca -, disse la ragazza spazzolandosi vigorosamente, – mi condusse in un’altra stanzina buja e ingombra. Lì stavano tanti pacchettini deliziosi coi fiocchetti, tutti variamente profumati, fermi ma che quasi scodinzolavano e facevan festa come cucciolini. – Enumerò sempre tenendo d’occhio l’ora fugace cui si legava per il lago, lungo un filo invisibile, il battello.
Bon bon au chocolat, ginevrini di zucchero, pettini di tartaruga e saponette vegetalizzate, culottes ardite, codesto orologino e certe bamboline di legno che paion birilli, due orecchini dalla forma mai veduta, specchietti, ancora monete antiche e coniate alla Villa e pure quelle buone d’uso. A dentro vi era un bigliettino dalle frasi oroscopanti e oscure, sotto il motto: “Io ho quel che ho donato”.
– In cambio una cosa sola – le disse l’amazzone nordica guardandola fissa ne gli occhi come la Gorgone.
La ragazza di nuovo percorreva con le mani i regali scartati ed era prontissima in quel momento anche a prendersi il cuore dal petto e lasciarlo sul primo comodino. Quella però le alzò le sottane, abbassò l’intime difese, ed arrivata alla filigrana vivente, strappò con gusto il cimelio. La rapinata cacciò un grido più da Giuseppina che da Tullia, infilando anche un par di bestemmie a modulazion dialettale.
John Junior, il quale ancora una volta si sentiva irrimediabilmente mescolato al personaggio che stava cacciando come l’odorosa fiera di cui s’afferrano appunto soltanto innumerevoli tracce, s’avvicinò elastico all’amante. Le cacciò nella bocca, che ancora graniva per il ricordo adesso divenuto geniale e divertente, il commiato voluttuoso e tra i seni un rotolo di banconote dall’esagerato diametro. – Ti rivedrò? – le chiese con aria illanguidita.
– Chi sa, mi portano le onde. –
– E Lui non l’hai più veduto? –
– Mi parve di scorgere, mentre m’allontanavo con il suo servo carico di ninnoli, su una balaustrata una figurina avvolta in un robone. Ma poteva ben essere uno scherzo del sole morente. –
– Allora non vuoi proprio che ti compagni con il volo della mia Alfa? Sarebbe per te una nuova vertigine. –
– No, ti ho già parlato di mio padre. Fuggo, è l’ora! A dio a dio, amore! – Ed uscì così da quella porta onusta per la gloria e per i pacchi.
John Junior si lasciò cadere di schiena, tuttora mezzo spogliato, sul campo di battaglia che recava omai poche delle spoglie di poc’anzi. Rifletté per un attimo malinconico sugli amori remunerativi, poi passò ben presto a considerar quella strana sovrapposizione tra sé e il Poeta. Per sortilegio o smemoratezza era stato cambiato nell’oggetto della sua caccia, come si dice avvenga talvolta tra i primitivi delle praterie e gli animali che uccidono e venerano, il sonno e l’amore.
Il sogno e la donna mormorò di nuovo tra sé, poi i crampi della fame per l’energie spese ebbero la meglio sul pensiero. Balzò a terra, si vestì, scese. Si fece preparar due tosti americani e farciti da divorar nel viaggio, ordinò di scendere i pacchi del farsettaio. Rapidamente fu nello abitacolo e ancor più rapidamente, conducendo con una mano sola d’acciaro e portando ai denti il pane, fu di ritorno.
D’hotel in hotel in… Stava calcolando i tempi inesistenti sul suo cronometro da polso quando, affamato, un galoppino sbucò da dentro raccomandandogli il messaggio. Gli scriveva il Comandante. Finalmente i tempi dell’anticamera ai piedi della Villa fatale erano terminati? Mai s’era avvicinato con altrettanta trepidazione, nemmanco a pizzino d’amante.