CANTO I (terza e ultima parte)
Antefatto: Dopo la vittoria dei Topi nella guerra contro le Rane, sono intervenuti i Granchi che hanno disperso a loro volta i Topi. Guidati dal generale Rubatocchi, i Topi hanno salvato il salvabile e si sono accampati lungo la via della fuga, verso la loro capitale Topaia. Scelgono il loro rappresentante e lo inviano a parlamentare con i Granchi: è il conte Leccafondi. Anche qui, in questo finale del primo canto dei Paralipomeni della Batracomiomachia, Giacomo Leopardi racconta la sua contemporaneità, ci ride sopra ed è un po’ malinconico.
Ma torniamo a Rubatocchi. Scese in campo di persona per prendersi cura dei suoi compagni e fece fortificare l’accampamento, per rendere la notte sicura dagli assalti inaspettati e liberarla dal terrore; poi fece nutrire i corpi tremanti e languenti. Questo secondo fu un affare facile, i topi si accontentano di tutto.
Poi pensò bene di inviare un delegato per farsi spiegare dagli odiati granchi perché fossero intervenuti nella battaglia: se l’avessero concordato con le rane o no, se fosse un caso oppure una volontà espressa, se volessero avanzare o tornarsene in patria e infine se volessero dai topi la pace o la guerra.
Lettore, qui entra in scena uno dei personaggi chiave del nostro poema eroicomico.
C’era nel campo il conte Leccafondi, signore di Pesafumo e Stacciavento, un topo raro, un portento di pensieri profondi e di sapienza: un gran giurista e un politologo esperto, uno che leggeva più di duecento giornali e che per studiarli aveva fondato nella sua città una sala di lettura apposita.
Gli interpreti, lettore, qui dicono che Leccafondi è il modello del liberale italiano – pensiero profondo, azioni utili e nobili, guarda solo i nomi e i titoli patrizi – e che Leopardi qui prende in giro il gruppo del Gabinetto Viesseux e della rivista “Antologia” di Firenze. Un po’ lo deride un po’ lo ammira, questo topo-liberale. Può anche darsi, credo io, che nel Leccafondi ci sia anche un po’ del conte Leopardi, o almeno di quello che sarebbe potuto diventare, se avesse ceduto alle lusinghe di quei suoi amici fiorentini che l’avrebbero voluto dei loro. Questi fiorentini erano degli idealisti, degli illusi – secondo Leopardi – che credevano nella bontà delle loro idee più che alla realtà, e durante le rivoluzioni del 1831 nel Granducato le presero di santa ragione – anzi di santa alleanza.
Nella sala di pubblica lettura fondata da Leccafondi la regola imponeva che oltre ai giornali non ci fossero libri di più di due pagine, perché Leccafondi credeva che più di così uno scrittore non potesse dilungarsi, anche per trattare degli universali bisogni politici, economici e morali. Però, indotto dagli amici e convincendosi lui stesso da sé, concesse asilo anche ai romanzi storici, e anche di otto o dieci volumi; e poi perfino alla poesia tedesca. Quest’ultima, come si è già dimostrato (ironizza Leopardi), è più antica di tutte le letterature semitiche e sanscrite e Leccafondi sapeva che la via della modernità è questa, altro che Orazio, altro che le solite cose, si deve uscire dalla via trita e ritrita, le menti rare sanno come mettere tonni in campagna, maiali in mare. Innamorato delle arti tedesche, il conte Leccafondi, di questi antichi più antichi degli obelischi e delle piramidi, con un senso del bello più fino di quello dei greci e dei romani. Bellissimi i libri della sua biblioteca, facevano un figurone, con certe copertinone ornate d’oro e di nastri: giusto così, perché nella copertina stava l’utilità, mica nelle pagine. E il museo, l’archivio, lo zoo, il giardino botanico, il portico dove si ergeva la statua colossale di Lucerniere, l’antico topo filosofo, baffi enormi e coda gigante, sullo sfondo di un grande affresco: scalpelli e pennelli tedeschi, ovviamente.
Pensoso, filosofo morale, filotopo. Leccafondi lodava la natura per avere dimostrato la sua grandezza creando il topo. Il topo: progresso, genio, condizione gloriosa nel centro dell’universo. Il conte Leccafondi amava il topo e ne esaltava intelligenza e progresso, e soprattutto trovava conferma della sua grandezza nelle penne rapide dei giornalisti. Che cosa fa grande il topo? Ipotesi, sistemi e sentimento. Che cosa ne spegne e ne turba la coscienza? Analisi, ragione ed esperienza.
Vedi, lettore, il conte Leopardi stava dalla parte dell’analisi, della ragione e dell’esperienza, quegli altri sono i fondamenti dell’idealismo e del Romanticismo e lui ci ride sopra. Pensa, lettore, che a Napoli c’era una rivista che si chiamava “Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti” e tanti Leccafondi che detestavano il materialismo radicale del nostro poeta. Lui ci rideva sopra, ed era anche un po’ malinconico. Intanto Manzoni e altri scrivevano i loro lunghi romanzi storici, lui aveva scritto solo le Operette morali: pensa, il romanzo di Manzoni e le Operette sono uscite a Milano nel giugno del 1827, insieme, una gran coincidenza ha avvicinato i due capolavori all’origine della prosa italiana nell’Ottocento. Renzo alla fine del romanzo diventa un piccolo imprenditore con la sua fabbrichetta lombarda e le sue chiacchiere a vuoto, Tristano/Leopardi alla fine delle Operette capisce che non lo ascolta nessuno, ma non smette di sostenere quanto superbo e sciocco è questo suo secolo illuso.
Buon topo dunque, il Leccafondi, senza ipocrisia, schietto e amante della verità, forse un po’ troppo incline ai maneggi della politica e habitué dei palazzi che contano; democratico, affabile e umano; uno che si cura poco dell’avere e molto dell’onore, generoso e amante della patria.
Era un diplomatico che aveva già servito da ambasciatore presso le rane; durante la guerra era tornato fra i suoi dimorando tra i soldati con loro sotto le tende, alla fine fu uno dei salvatori dell’esercito impegnandosi nella gran fuga.
Chi meglio di lui per l’ambasceria dai granchi?
Leccafondi accettò, ovviamente, per quanto considerasse dentro di sé i rischi di andare in mezzo a quei barbari dei granchi.
Era stanco, prostrato e bisognoso di riposo, ma pretese di partire subito: dormì solo un poco sull’erba molle e a notte fonda con pochi servi lasciò il tacito colle e i topi sonnolenti, e per l’erma campagna il cammin prese.
FINE del canto I