In quest’esercizio di paesologia mi proverò a raccontare del mio paese natale scrivendo di luoghi altri da lui. La scienza della paesologia credo ammetta tali apparenti contraddizioni, perché i paesi respirano talvolta anche all’ombra o per affinità o per contrasto con luoghi altri.
Racconterò delle sue Capitali, dal momento che il mio paese natale si trova in una provincia di confine (qualcuno dice di confino, con quell’atteggiamento colmo di risentimento e di affezione tipico di chi è costretto a rimanerci pur desiderando andarsene, ma anche di chi poté o dové andarsene per un’imprevedibile, illimitata permanenza altrove); ch’esso appartenga ad una provincia di confine significa che leggi, disposizioni giudiziarie, esazione delle tasse ed altro ancora vi giungono da un capoluogo e da una Capitale. Siccome la paesologia non tiene evidentemente conto soltanto dello stato politico-amministrativo in vigore, ma sa saggiamente spingere il proprio sguardo indietro, ancora oggi il mio paese fa riferimento a Lecce, il capoluogo di provincia, a Napoli, l’antica, indimenticata Capitale borbonica, a Madrid e a Toledo, le Capitali remote e fantastiche, spagnole e barocche e a Bisanzio, la quale ultima, contrariamente a quanto sarebbe dato supporre, non è poi così inabissata nel ventre del tempo da apparire ormai irreale e irraggiungibile, tutt’altro.
Naturalmente tutto questo ha senso se gli occhi di chi guarda il paese sanno vedere le pietre degli edifici che emanano particelle di tempo, la gente abitare stanze dai soffitti altissimi stuccati da mani di altri secoli, i Santi nelle nicchie delle facciate recare in volto i tratti di Alfonso d’Aragona o di Maria d’Enghien.
A Lecce si va per il tribunale o per l’ospedale o per l’università: Lecce è la città, benché il mio paese stesso ambisca da tempo immemorabile a tale ruolo; quand’ero bambino andare fino a Lecce (la distanza sembrava grande) era atto solenne che avveniva di rado; forse c’entrava il fatto che, a differenza di quanto succedeva in paese, lì non conoscevamo nessuno e le abitudini, i negozi, i viali della città apparivano meravigliosi. Soltanto più tardi scopersi la Lecce secentesca e settecentesca, riuscendo a rendermela familiare, riconoscendone i ricami di pietra dorata (cestini di frutta, ghirlande di foglie e fiori, putti e cherubini, cornicioni intagliati e balconi in ferro battuto) anche negli edifici del mio paese. E credo che la paesologia ami discendere i gradini che dal piano stradale menano a stanze in penombra a livello degli scantinati dei palazzi nobiliari dove il cartapestaio o il corniciaio o il fabbricatore di giocattoli hanno bottega (putéca o putìa si dice in salentino, esattamente come in greco si dice ἀποθήκη); forte è l’odore d’umidità che filtra dai muri ed una lampadina appesa al filo elettrico penzola dal soffitto, illuminando fiocamente il tavolaccio su cui s’ammucchiano ritagli o arti di bambole e, alla parete in fondo, una fotografia di Silvana Mangano in Riso amaro testimonia bene del tempo che, in certi anfratti dei paesi, s’ingolfa e rallenta, indugia nostalgico, anche se alla morte dell’anziano, ultimo artigiano a decretare la chiusura della bottega, il locale sarà ristrutturato, riattato a ristorante tipico o wine bar alla moda.
Napoli era splendida ed elegante Capitale, i futuri medici ed avvocati del mio paese vi andavano a studiare prima che a Bari fosse istituita l’Università, geograficamente più vicina, dunque. Ma qualcosa della fama della bellissima Via di Chiaia echeggia ancora anche nella memoria del mio paese essendo quest’ultimo al centro di una piana i cui lembi estremi si bagnano da un lato nell’Adriatico e dall’altro nello Jonio, per cui le “passeggiate a mare” si vanno a fare dopo alcuni minuti di automobile ad Otranto o a Castro, a Gallipoli o a Santa Maria di Leuca ….. Non concordo con Franco Arminio quando afferma che “la paesologia è poco adatta ai luoghi pianeggianti”: il mio è un paese pianeggiante, ma la morfologia del suo tempo è collinare, verticale, addirittura, dato che bisogna arrampicarsi lungo la strettissima, buia scala di pietra costruita nel campanile altissimo della Chiesa Matrice per vederne in un solo colpo d’occhio come a volo d’uccello le terrazze dove precise linee incatramate impermeabilizzano le intermessure tra le chianche (le lastre di pietra di tufo che ne formano la pavimentazione) e gli orti interni alle case a corte, piantati a limoni, aranci, allori. Chi, come me, pensa che la paesologia sia anche esercizio di visionarietà, da lassù vede i binari della ferrovia allontanarsi verso Nord (e sono i binari dell’emigrazione, più raramente dei viaggi di piacere), ma anche, ancora dopo due secoli, gli alberi della libertà innalzati nelle piazze dei paesi in ininterrotta teoria fino a Napoli. E se a Napoli, stando al racconto di Anna Maria Ortese, abitavano geniali guantai capaci di attirare la jeune noblesse del Nord Europa, nel mio paese dotti parroci e sapienti maestri elementari raccoglievano biblioteche di classici latini e greci o catalogavano reperti del Paleolitico; sapete, la paesologia incontra anche queste persone tenere e romantiche nella loro monomania, ammiratrici del Croce erudito (qualcuno di loro deve aver mandato, tremando di emozione e di soggezione, un fascicolo con i propri studi fino all’indirizzo mitico di Palazzo Filomarino e deve aver passato molte notti insonni attendendo una risposta da don Benedetto). Ed ho già parlato degli scantinati, veri universi sotterranei che si dilatano sotto i palazzi antichi del paese; qui aggiungo le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e, nel cimitero, le catacombe escavate sotto gl’imponenti monumenti funebri delle famiglie notabili. Lì sotto i nomi castigliani sulle lapidi più antiche rimandano alla dominazione spagnola, ad un’altra Capitale, Madrid, forse cupa sovrana dai corridoi in eterna penombra dell’Escorial e remotissima, ma presente nel carattere degli abitanti del mio paese, innamorati “delle questioni di principio”, come acutamente ha scritto Vittorio Bodini, capaci di arrovellarsi in argomentazioni e controargomentazioni senza fine. Ma anche l’ombra folta che s’addensa nelle cappelle della Matrice e di Santa Maria delle Grazie e che accresce l’ombra caravaggesca delle grandi tele, consuona con i dipinti di El Greco e di Velázquez che stanno laggiù, al Prado e a Toledo. Già, l’ombra delle cappelle: pure in questo caso si ha percezione di uno spazio che, in onde e controonde, si fa tempo conducendo la mente a quando Latini e Greci coabitavano, sapienti abati trascrivevano con l’alfabeto greco cronache in dialetto salentino e Roma e Bisanzio s’incontravano qui, nelle cappelle ipogee affrescate nelle campagne e, in paese, dentro case di pietra con le icone a difendere dal maltempo. Bisanzio si rende ancora visibile nelle campagne salentine come in quelle greche, in certe prospettive delle antiche case a corte e nel ricordo di un’appartenenza che sapeva scavalcare il Canale d’Otranto, mare che univa. In apparente paradosso Istanbul è molto “meno bizantina”.
Ma non posso tacere che, camminando per le strade del mio paese all’ora di cena, le finestre spalancate sull’Estate, l’eco dei televisori riafferma il dominio di nuove Capitali: New York e Hollywood, in particolare. Anche il paese nuovo, orrido di condomini senza volto e di villette recintate di cemento, ha rinunciato a una propria identità: garages, piadinerie e discounts sembrano innervare il tessuto economico di un paese altrimenti famoso per i suoi cordari e le sue merlettaie, per la sua fiera del bestiame e delle terrecotte il venerdì prima della Domenica delle Palme. So che la paesologia non ammette ingenui amarcord, so che l’economia cambia: proprio per questo sono sicuro che la paesologia sia un esercizio di consapevolezza e di memoria, di profondità storica e d’inventiva; un paese ha già una sua identità (foss’anche quella di non averne una) e la paesologia s’assume il compito di rivelarla.