VITA DI VECCHIATTO – 1987/1993
Il rinfrescante soggiorno napoletano resterà uno dei momenti più sereni nella vita dei coniugi Vecchiatto. Una piccolissima eredità lasciata a Carlotta da una zia argentina permetterà loro di vivere per sei mesi senza dover indebitarsi ulteriormente. Poi nel maggio del 1987, un telegramma li invita a recitare in un teatrino dalle parti di Reggio Emilia. Ma l’invito diventerà operante solo sei anni dopo, a causa di continue difficoltà amministrative – e sarà la famosa recita di Attilio e Carlotta nel teatro di Rio Saliceto.
Tornati a Milano, i Vecchiatto sono di nuovo sul lastrico. Attilio fa un viaggio a Parigi per capire la situazione, e gli sembra che tutti abbiano dimenticato i suoi spettacoli, tranne Jeanne Moreau e Michel Piccoli – che gli faranno dei lauti prestiti per simpatia. Avendo esaurita la sua piccola eredità, Carlotta trova lavoro in una clinica vicino a Ginevra, dove dirigerà le pulizie per almeno tre anni. Ma Attilio si sente a disagio e fa spesso delle fughe a Milano o altrove, dormendo svariate volte negli ospizi per poveri. Nel 1990 è ricoverato in un ospedale di Venezia per una avitaminosi che gli ha riempito le gambe di piaghe. Intanto continua le riflessioni sul teatro, e molti suoi sonetti degli anni 85/90 parlano di questo.
L’unica recita di Attilio e Carlotta in Italia resta quella nel teatro di Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia, dove sono finalmente accolti dal direttore Normanno Gobbi. È un monologo a due voci, in cui i due parlano sempre assieme come i vecchi coniugi, interpretando il dramma della vecchiaia in un’epoca che crede solo alla pubblicità per giovani. Si svolge in un teatro vuoto di pubblico, dove l’unico spettatore è una signora che era andata a fare la spesa ed entrata nel teatro casualmente. Nasce così una recita all’improvviso, registrata e trascritta, in cui ricorrono temi trattati nei sonetti. Ma è un canto del cigno: l’annuncio di un’epoca dove non c’è posto per tipi come Vecchiatto.
Secondo la notizia diffusa da René de Ceccaty su “Le Monde” (10 dicembre 1993), Attilio Vecchiatto è morto d’un colpo apoplettico in una locanda di Sandon di Fosso, sulla provinciale sud a una ventina di chilometri da Venezia, nella notte del 26 o del 28 novembre 1993. Solo il 30 la notizia raggiunge la moglie Carlotta, andata ad abitare a Parigi presso la figlia Ofelia. René de Ceccaty dice di aver telefonato a molti suoi amici in Italia per sapere se la notizia fosse apparsa sui nostri giornali; ma a quanto pare la morte di Attilio non ha prodotto il minimo interesse e nessun necrologio sulla stampa italiana.
Ancora oggi il nome di Vecchiatto risulta escluso dalle enciclopedie e dalle storie del teatro moderno. Qualche cenno si trova nei siti internet. Stranissima la pretesa di alcuni giornalisti, secondo i quali Attilio Vecchiatto non sarebbe mai esistito, se non in un libro d’avventure di Fulgencio Turner, Cuentos disparatados de Attilio Vecchiatto (Madrid 1994).
SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA
42. La vocazione teatrale. In memoria di Vittorina Brusatin, attrice eccellente, donna bellissima, che mi insegnò l’arte teatrale come un viaggio tra le ombre
La vocazione viene dal destino,
come un sogno che guida per la vita;
e il teatro da giovane t’invita
a scrutare le tenebre vicino.
C’è un’ombra che da ogni parola ardita
sale a turbare il tranquillo confino
dentro il corpo di cui sei l’inquilino,
e in un risucchio fa da calamita.
Non più idee, programmi o cervello fino
contano allora per l’attor che trita
il rovello dell’ombra, e cerca uscita
verso un doppio che è come un lumicino.
Così l’attore va tra le ombre vane,
inetto, idiota, inerme, a dir panzane.
43. Un dialogo con Bertolt Brecht, incontrato a Berlino nell’aprile 1952
A Berlino un bel giorno sulla Sprea
incontrai Bertolt Brecht in carne ed ossa,
tozzo e rapato, con la giubba grossa
come uniforme da milite in trincea.
Fece un politico esame a ogni mia idea,
e ad ogni mia risposta eterodossa
mi soffiò in faccia con decisa mossa
il fumo che il suo sigaro spandea.
Affumicato e con forte cefalea,
tossendo io trabalzavo ad ogni scossa,
e parvi un reazionario della grossa,
dovendogli rispondere in apnea.
Genio teatral, poeta a vena eclettica,
era fissato un po’ sulla dialettica.
44 . Consigli all’attore Laurence Olivier, incontrato a New York, gennaio 1960
Ricordi, Laurence? A New York ti ho detto
che non la parola sempre bugiarda,
né il gesto pomposo o la voce di petto
è il succo dell’arte che ci riguarda;
bensì i silenzi! Te l’ho detto e ridetto!
Come una pausa cade e poi ritarda
la parola che segue con l’effetto
d’aereo vuoto, sospension maliarda,
pensiero divagante, un po’ a merletto.
Hai capito Laurence? L’arte bastarda
bada soltanto a ciò che viene detto;
ma è nel silenzio che il pensier s’azzarda
a correre nel buio della mente.
Butta via i trucchi dell’attor suadente!
45. Saluto all’attrice Jeanne Moreau, in ricordo d’un incontro a Parigi, 1980
O dolce e brava attrice che invecchiando
acquisti sempre più bellezza in volto,
e la cui arte è sempre più al comando
di passioni che mi toccano molto,
ricordi che a Parigi, chiacchierando,
proposi di recitare un disinvolto
testo comico assieme e di rimando
dicesti: “Attilio, io sempre t’ascolto!”.
La tua modestia è d’una fede il bando,
mentre ogni linea o ruga del tuo volto
è una preghiera di chi recitando
sa rendere ogni peccato umano assolto.
O amica cara e attrice mai veduta,
qui anche la Carlotta ti saluta.
46. Sonetto sui viaggi di Vecchiatto, dove si rievoca l’incontro con un capo winnebago
Per vent’anni Vecchiatto ha viaggiato,
in Argentina, Brasile e Costarica,
in Venezuela e Colombia ha recitato,
sempre mangiando men d’una formica.
Indi a New York un bel giorno è sbarcato
con Carlotta, sua sposa e grande amica,
e in quel del Bronx insieme hanno fondato
il “Teatro dell’Arte” con fatica.
Poi in Vancouver e Quebec invitato,
egli riaprì dei viaggi la rubrica,
finché un giorno restò quasi assiderato
per la neve ghiacciata e l’auto antica.
Eppur, chi offrì uno shakespeariano svago
nella tenda del gran capo winnebago?
NOTA. Colgo l’occasione per mandare un saluto all’amico Lupo Scostante (Off-puttimg Wolf) incontrato nel 1954 in un paesino dell’Ontario, il quale nel duro inverno di quelle zone curò me e mia moglie da un inizio d’assideramento. Lupo Scostante era il capo d’un gruppo di indiani winnebago che avevano lasciato il loro terreno d’origine (Wisconsin). La nostra amicizia è continuata per 40 anni, tramite cartoline e lettere, e in questi giorni Lupo Scostante mi annuncia che compirà 100 anni, augurandosi di rivedermi almeno in sogno prima di morire.
TESTIMONIANZA AUTETICA SULL’ATTORE VECCHIATTO
resa da Enrico De Vivo (ex professore nella scuola media)
Storia di una salita
L’ultima volta che ho incontrato Attilio Vecchiatto è stato nel 1992, l’anno prima che morisse. Avevo fatto leggere i suoi sonetti a Gianni Celati, che si era appassionato alla storia dell’attore veneziano e avrebbe voluto incontrarlo. Riuscii a rintracciare Attilio, che si trovava allora a Firenze, e a fissare un appuntamento a Torre del Greco. Quando era stato dalle mie parti, Attilio diceva sempre che tutte le strade portano a Torre del Greco, e che tutto ciò che vive finisce prima o poi qui – nella terra bluastra delle pendici del Vesuvio che digradano verso il mare, e che mantengono tutto in sospeso tra la terra e il cielo, come la polvere nell’aria. Quando ci incontrammo, Gianni familiarizzò subito con lui. Era una giornata di luglio molto calda, ma anche con un bizzoso vento che pareva volesse spazzare via tutto. Proposi di visitare la Villa delle Ginestre, ultima residenza di Giacomo Leopardi, una villa stile impero, isolata tra i prati di fronte all’erta del Vesuvio, dove il nostro poeta, affetto da varie malattie, miserando d’aspetto e di umore, fu ospitato da Antonio e Paolina Ranieri fino al giorno della morte.
Non vedevo Attilio da cinque anni e lo trovavo molto dimagrito, invecchiato, più trasandato. Avanzava poggiandosi al suo bastone, con la solita disinvoltura, ma anche con lievi sbandamenti che denunciavano debolezza o perdita dell’equilibrio. Gianni con passo svelto procedeva in testa come se stesse per perdere il treno, e ogni tanto si distaccava in avanti continuando a parlare da solo. Attilio lo seguiva cercando di capire cosa diceva e vacillando dalla stanchezza, mentre io in coda mi tenevo pronto a sorreggerlo, col pensiero che potesse cadere in terra da un momento all’altro. Eravamo sulla strada statale che porta a Napoli, in mezzo a un traffico dove ci si muoveva a fatica, tra una massa di motorini, corriere, auto, donne che fanno la spesa, vecchi seduti sulla porta di casa. Chiesi la strada a una signora bionda, con occhiali da sole vistosissimi, mi disse: “Villa delle Ginestre… Chella sagliuta là”, indicando una strada vicina in forte salita. Diedi una voce a Gianni, che era andato molto avanti, e girammo a destra.
Allontanandoci dal caotico stradone, ci inerpicammo per una salita che arrivava fino in cima al Vesuvio, passando davanti alla Villa delle Ginestre. Mentre salivamo, ho informato Attilio che Gianni aveva scritto un’operina per musica ambientata in quella villa, dedicata alla morte di Leopardi. Gli spiegavo che nell’operina Leopardi e la Morte si incontrano e simpatizzano – perché la Morte trovava noiosi i modi moderni di morire, troppo clinici, troppo camuffati, mentre aveva simpatia per chi la accoglieva apertamente come aveva fatto Leopardi, dicendo: “Vieni cara Morte, è da tanto che ti aspetto, che sollievo è la tua ombra!”. Attilio ascoltava assorto e a un certo punto ha chiesto a Gianni di recitare qualche pezzo della sua operina. E Gianni non si è tirato indietro, si è messo a cantare con voce di petto l’introduzione su una musica di stile mozartiano – mentre io dovevo dargli la risposta antifonale dopo ogni strofa. Le prime strofe dicono così:
“Questo Leopardi , questo contino
che tutti dicono un gran poeta,
nel suo soprabito vecchio e tarlato
se ne va in giro senza un quattrino.
Senza un quattrino?
Su per Toledo, giù per il porto,
gira per Napoli con dietro spesso
la ragazzaglia del vicolame
che fa schiamazzi per farlo fesso.
La ragazzaglia?
Gli dan la baia, tirano fango,
perché è tapino, perché è gobbetto,
e lui s’incazza, sbava e s’indigna
poi torna a casa ch’è meschinetto.
È anche malato?
Mali a bizzeffe, ch’è un ospedale
con l’asma cronica, l’idropisia,
è intisichito, non va di corpo,
pure negli occhi ci vede fioco
Che fa da mane a sera?
Dorme di giorno, veglia di notte,
chiama la morte “amica cara”,
ridotto a letto burla i dottori,
ha i libri a noia e ama il sorbetto”.
Mentre Gianni cantava si era formato un crocchio di ragazzi su motorini, che alla fine dell’esibizione presero ad applaudire, sgasare e a fare fischi e rumori con la bocca. Nel frattempo dai prati intorno erano spuntati anche uomini panciuti in canottiera, donne con i prendisole e venditori di cocomeri, che, richiamati dall’esibizione canora di Gianni, ci offrivano fette di anguria rinfrescanti. Poi quando noi tre abbiamo ripreso l’ascesa, ci siamo accorti che s’era formato una specie di corteo che ci seguiva come a Napoli si segue il Pazzariello – anche perché Attilio ogni due-trecento metri si fermava, e declamava tutto quello che gli passava per la testa.
Durante tutto il cammino, e quasi a ogni tappa, Attilio recitava qualcosa di diverso, comprese poesie in lingue straniere. Una volta recitò un monologo di Totò – un discorso agli italiani da candidato alle elezioni politiche, inserendoci una delle sue tirate sul famigerato Badalucco. E in questo caso ricevette addirittura una ghirlanda di fiori di campo, raccolti da una signorinella che lo abbracciò e baciò con veemenza, mentre un paio di grasse vaiasse in prendisole battevano le mani con eccitazione. In quel clima Attilio sembrava raggiante, gli piaceva avere quel pubblico che lo seguiva, e mi diceva all’orecchio: “Vedi, anche il pubblico può essere vagante!”.
Intanto continuavamo a salire. Gianni era sempre in testa con quel suo passo da gara podistica, e parlava della sua operina su Leopardi a Napoli con un anziano che l’ha seguito per un tratto, poi è crollato a sedere per terra ansimante dalla fatica. Attilio era molto eccitato, e in piedi su una panchina, tra i prati del poggio, recitava questi versi: “E potess’io,/ Nel secol tetro e in questo aer nefando,/ L’alta specie serbar; che dell’imago,/ Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago”. Di nuovo la folla di ragazzini applaudì e sgasò e rumoreggiò variamente. Uno di quei ragazzi, più alto degli altri, a un certo punto si è avvicinato ad Attilio e quando gli è stato di fronte l’ha apostrofato così: “O zi’, pecché tu vaje appriesse a’ morte?”. Attilio incuriosito da quelle parole strane stava per rispondere, ma il ragazzo era svanito in un baleno.
Quando arrivammo nei pressi di Villa delle Ginestre, il corteo si disperse, perché era ora di pranzo, e i napoletani, si sa, per nulla al mondo farebbero a meno dei maccheroni. Attilio recitò solennemente: “S’arma Napoli a gara alla difesa/ De’ maccheroni suoi; che a’ maccheroni/ Anteposto il morir, troppo le pesa” (ancora Leopardi). Rimanemmo, così, noi tre soli, con un po’ di rammarico per la fine di quel teatro ambulante, che si era creato attorno a noi. Non ci restava che visitare la Villa. Ma, ahimé, anche qui era ora di pranzo. “Non potete chiudere proprio adesso”, dissi io, “siamo venuti apposta…”. Ma i custodi furono perentori: “Ci dispiace, è orario di chiusura”. Eravamo arrivati fin lassù a vuoto. Ci sedemmo, stanchi. Cielo sereno, aria secca, tutto calmo e fermo. Non si sentiva più nemmeno il vento bizzoso che ci aveva accompagnato nel corso della salita.
Volgendo lo sguardo verso il mare, si intravedeva un enorme palazzo nero piantato quasi all’inizio della pendice, che deformava il paesaggio. Rimanemmo lì per una buona mezz’ora, forse ammaliati da quel casermone nero, che come un pugno nell’occhio si ergeva tra terra, mare e cielo, con un certo modo calcolato di disturbo alla visione. Eravamo seduti sul terreno argilloso mezzo blu e mezzo verde del vulcano. Attilio non diceva niente, Gianni non diceva niente, io non dicevo niente. E d’improvviso vedo Attilio alzarsi e scendere giù verso il mare, prima camminando e poi di corsa. Io e Gianni siamo rimasti a guardarci in faccia, sorpresi. Poi l’abbiamo aspettato, l’abbiamo cercato, non abbiamo mai capito dove sia andato – e qui l’unica cosa che posso dire è che non l’ho mai più visto in vita mia. Se Gianni capiterà da queste parti, gli proporrò senz’altro una passeggiata sul Vesuvio per discutere questa faccenda: perché con le chiacchierate che abbiamo fatto sull’andare “appriesse ‘a morte”, e con quel teatrino sorto attorno a noi strada facendo, che secondo Attilio poteva essere un dionisiaco corteo funebre, non vorrei che mi venissero delle fissazioni sulle strane mescolanze del vivere e del morire.
SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA
47. Ritratto d’attore vecchio. In occasione dell’ottantesimo compleanno dell’autore
Ormai ho il volto solcato da sentieri,
le rughe fonde intorno agli occhi stanchi,
la neve in cima al monte dei pensieri,
le spalle curve come due calanchi.
Vedo una foto in cui mostro occhi fieri,
la pelle liscia, i giovanili fianchi,
spalle robuste ed i capelli neri,
l’aria sicura di chi in nulla manchi.
L’uomo arrivato impone i suoi voleri,
ma l’attor povero è un po’ come i granchi:
cioè all’indietro va e perde i suoi averi,
giunto all’età dei suoi capelli bianchi.
Finita è la commedia e non va male,
se niente hai da rimpianger nel finale.
48. Dialogo con uno spettatore molto informato che però capisce solo frasi o assunti di prammatica
O spettatore frigido e annoiato
che siedi in poltrona per godere,
satollo del denaro guadagnato,
per te misura delle cose vere:
tu vorresti che l’artista fortunato,
l’artista di successo nelle fiere,
l’artista che dai critici è esaltato
ti desse in pasto un po’ del suo mestiere.
Questo affinché tu ti senta acculturato,
affinché tu poi possa far vedere,
che conosci, leggi, sei informato,
senza disturbi al tuo cuor-frigidaire.
Ma ora ascolta questo: la mia arte drammatica
muore secca nei tuoi assunti di prammatica.
49. Su questi sonetti. Scopi e riflessioni del poetare, destinato a smaltire l’umor nero dell’autore
Questi sonetti vado componendo
quando il vuoto non riesco più a soffrire,
dunque per sfogo mi metto a farcire
con rime fatue il nervosismo orrendo.
Senza pensare a cosa devo dire,
alla cieca mi lancio combattendo,
contro mulini a vento, e anche prendendo
spesso pose da grand’uomo nelle mie ire.
Ma questi sfoghi vani cui attendo
spero possano dentro di me guarire
le piaghe d’un patetico languire;
cosicché ben sfogato, ancor vivendo,
ogni umor nero riesca in me a dissolvere,
riconciliato col mondo di polvere.
50. Gran teatro del mondo artificiale. Sonetto per musica, dove si sostiene che l’unica vera gloria è quella dei perdenti
Gran teatro del mondo artificiale,
nella miseria della tua opulenza,
pieno di luci e nel buio totale,
bollente in congelata convivenza;
tu l’attor fuori moda tratti male,
tu vuoi prodotti di nuova parvenza,
tu che sei fatto come un ospedale,
col nuovo mascheri la tua marcescenza.
Toccherà allora all’attore inattuale
mettere in scena la propria indigenza,
per schiarir la tua tenebra mortale
e ricordare ai tuoi eroi dell’insolenza
che mentre i vincitor mostrano i denti,
l’unica gloria è quella dei perdenti.
51. Vecchiatto è tornato a casa. Sonetto da spargere al vento insieme alle ceneri del suo autore
Da non so dove è venuto Vecchiatto,
nato a Venezia per error del padre;
l’attrazione del seno di sua madre
fu il primo amore che lo rese matto.
Mai allettato da ricchezze ladre,
fu però dalla carne molto attratto;
ciò lo rese geloso e anche distratto,
finché Carlotta non lo rese padre.
Viaggiatore, vagò e visse d’accatto
senza imbarcarsi mai in losche squadre;
adorò l’aria e odiò le teste quadre,
uscì di scena in patria all’ultim’atto.
Polvere che s’impasta quando piove,
e Vecchiatto è tornato non so dove.
Questo è vero ossigeno per la mente. Grazie!