I cadaveri bisogna gettarli via più dello sterco
ERACLITO
Una volta, sì, solo una volta però, vagheggiavo, eccome, la psiuché, l’anima, no, anzi che dico, sempre e solo l’animus, sì, l’animo, tutto mente e cervello, fra me e me rammemoravo l’inarrivabile splendore dell’ingegno umano, le sinapsi infasciate dentro il cerèbro, le meningi, i gangli neuronali, l’io, l’ego, il soggetto conoscente, il cogitergosúm, lo strato inconscio e quello più subdolamente conscio, foggia sfalsata di spiritello fastidioso, Ariel colmo di aporie e non senso, davvero credevo albergasse nella brezza che il vento delle fibrillazioni del pensiero e l’inesorabile marea del raziocinio solleva quasi a mia insaputa, immaginando il tondo cranio residenza di vette sensazionali, irraggiungibili cime che gareggiano con il turpe Calibano degli istinti, dei bisogni, e invece scopro che cosa?
Che tu, bastardello, limiti, condizioni, proprio così, metti in gabbia con le tue pretese volgari anche il più infame slancio, la più meschina delle azioni meschine.
Io ti vedo, io ti osservo in mio possesso, mio oggetto, mio guscio, mio otre gonfio di parole e pensieri e tu insisti, non demordi, vuoi contenermi, anzi rappresenti me sfacciatamente agli occhi del mondo con sembianze che non sono quelle della mia vera natura o di come, alla fine, vorrei essere visto dagli altri, percepito, riconosciuto, apprezzato. Per di più tu mi condizioni, sì, mi condizioni, perché il mio essere soggetto libero, pensante, viene da te trasformato in un oggetto soffocato dalle catene della tua apparenza, sottomesso alle misteriose leggi dei tuoi brevi trionfi e del più insospettato declino: puoi forse negarlo?
Con gli occhi del desiderio, con le antenne impazzite della volontà più sfrenata potrei essere oggi in questa città di mare, domani nel deserto d’Asia o piuttosto tra le nuvole di una di quelle altissime montagne delle Americhe, mentre tu, flaccido, impotente vaso dei miei sogni, abito consumato e fiacco, stampella nutrita d’orgoglio e consumata dal rimpianto, anche per una ridicola corsa t’affatichi e mi spegni.
Passeggere zavorre oppure l’incubo osceno di tutta una vita, oltraggiato da vere e proprie turpitudini, famigerate deformità che non hanno cittadinanza nella mia smania vorace di fare, dire, vedere, sentire, leggere, creare, tu, tanto per gradire, mi fai malato. Malato, sì, malato come non vorrei sapere, un domani magari così vicino, dietro l’angolo, eccola qui l’inesorabile fatalità che giorno per giorno comprometto, malato di qualcosa che al solo pensarci mi opprime, malato di vecchiaia, stanchezza, disperazione, certi occhi imporporati, febbrili, cani sciancati che abbaiano nella notte, malato per qualche ora, giorno, mesi, l’interezza di quello che resta da vivere; condannato a contemplare l’inesausta brutalità della disfatta, costretto a fissare il mio iride per leggerci dentro la sentenza di qualche camice bianco, lui che mi consegna la scadenza di consumazione, giusto un attimo prima dell’ultima sosta, magari molto prima dell’anticamera buia che la precede, la lugubre penombra della vecchiaia più turpe, che non immagino di traversare mentre dico di temerla, perché forse è lei che desidero come non mai, come il porto lontano, diroccato dove comunque dà piacere approdare.
E, poi, diciamola, diciamola tutta: tu vuoi mangiare e cibarti e guai a ritardare il tempo di questa orrenda cerimonia delle viscere, asservita alle trappole del lurido duodeno. Magari in quel momento vorrei poter finire di leggere qualcosa che il mio spirito reclama o vedere le altezze occhi negli occhi di un pensiero meraviglioso e tu cosa chiedi? Mangiare! Tu, cupo dominio di particelle sconce e maliziose, selvagge e brutali torme di ammiccanti sali minerali con il minuetto purulento delle feci, delle urine, pisciomerdosa incontinenza che dilaga fra potassio, azotemia, cloro e calcio, altalene orbe di pace, tutti quei luridi batteri sovversivi, appena un poco castigati dalla furia di anticorpi giustizieri, il virus primattore che imperversa sui palcoscenici non appena m’abbatto e le cellule, loro, tutte le cellule, le più minuscole e infami con la decadenza già innescata alla nascita, solo per mangiare tu marcisci: giorno dopo giorno inesorabile cresce la putrefazione dell’indigesto, lo sai, mio fottutissimo segugio?
Certamente, mi dirai, dal momento che un tempo sono stato giovane e bambino e ho sperimentato tutte le grazie e le meraviglie di quelle splendide e, ahimè, così perdute età, solo per questo dovrei benedirti? O forse per quelle gioie che dona la via spermatica, il paradiso dei sensi? Per qualche lombare piacevolezza, incostante e spesso non esente da danni, per questo onorarti e riverirti? O per come hai riempito i miei occhi di ogni delizia troppo presto scomparsa: un angolo di mondo che mi piacque, il sottile sfumare di un tramonto, l’odore della resina sposato al bacio della pioggia, la carezza di una giovane amica, per questo forse? Ma davanti a me ci sei tu, le tue assurde pretese nascoste dietro una smorfia che sa di ricatto, poi di minaccia, infine del più cupo terrore, barattando questa mia lamentosa schiavitù con la crudele speranza di tirare un po’ più in là il termine necessario, la porta ultima che chiude per sempre questo circo moribondo all’infinito.
Le più innominate minutaglie, i gironi dei nervi, dei muscoli, le vertebre, le irritabili giunture ossee, tutte le infami costole e le falangi, una ad una, le arterie sanguinolente, le boriose venuzze fin sotto i talloni abbandonate alla loro meccanica rovina, le deformità dei malleoli, l’ispido pelame e l’incerta transazione del polso, l’epitelio sollecito a ogni richiesta, squamoso, viscido o ruvidissimo, i semi usurati dei denti e la sporcizia melliflua e promiscua della lingua, io disprezzo, schifo, rinnego e insulto tutto il vomitevole tuo corteggio di pietosi e servili sguatteri.
Corpo, io ti odio.
Ti odio. Ti odio con quel tanto di forze che ancora c’è in me, con tutta la rabbia delle ferite che hai inferto a certi tuoi prediletti, mentre taluni altri indenni, nemmeno uno stupido graffietto, ti odio per l’accanimento che dedichi a quegli sventurati che hanno goduto della tua malaugurata ospitalità senza alcun riposo nei loro sconfinati travagli, ti odio perché di te non posso liberarmi e entrare in altro più confacente ostello, ti odio e ti odierò per sempre con la ripugnanza di un figlio tradito e abbandonato.
Per questo non ti ucciderò, no, consòlati. Non subito almeno. Sarebbe per te troppo comodo. Un sollievo moralmente consolatorio.
Ogni tortura avrai da me. Il tormento di un carnefice operoso. Con ogni risorsa m’industrierò a logorare la tua resistenza, a sfidare il sonno, la sete, da oggi non conoscerai più il piacere del riposo e dell’appagamento, quando chiederai tregua otterrai solo una vertigine di vendette e al posto del piacere il disprezzo più tiranno. Mercificherò un pezzo alla volta le mie più intime parti; le venderò, anzi, al più screanzato compratore, e a un prezzo irrisorio per giunta, e, quando sarà in questione se dare in pasto i miei occhi a qualche vizzo rigattiere, a qualche collezionista tenebroso, lo farò senza esitare. E di quello che rimarrà sarò indeciso: gettarlo a piccoli brani in pasto a famelici macellai o sprofondare viscere e ossa negli abissi di qualche fetida fogna.
Non ascolterò le tue lagne. Già fin troppo inganni i tuoi padroni come il più lezioso dei servitori. Non crederò, mai più, alle promesse di riscatto che lasci intravedere dietro tutti i suggerimenti speranzosi, la nuova seconda giovinezza, le alchimie dei chirurghi o gli ultimi ritrovati della più sfrontata illusione.
Per quello che sei, ceramica fasulla, per quel poco che dai e il troppo che ricevi, io non avrò di te alcuna pena, ti lascerò marcire ai bordi di un dimenticato ospizio, senza alcuna pietà nel sentirti piangere, lamentarti e strillare; proprio come fai tu davanti a ogni argilla d’uomo, corrosa dal peso dei tuoi magnanimi doni, da certe tue attenzioni, così piene d’amore.
* Questo testo è un estratto da Allemanda fantasiosa con qualche tremore, quarto movimento della raccolta inedita Requiem ultimo. Sinfonia di prose, divagazioni, racconti per voce sola, di cui sono apparse anticipazioni su varie riviste.