AMATO ZVANI
Da Ida Pascoli al fratello Giovanni, 2 gennaio 1895.
Mio caro, amato Zvani,
i nostri meravigliosi incontri notturni, tra te, Mariù e me stanno per finire. Devono finire.
Ho pensato che nel tuo cuore debba esserci posto solo per una di noi.
Non sarò morta, sarò sempre la tua Ida che ha rinunciato a te lasciando che il suo posto venga occupato da un’unica donna-moglie-sorella. Una sola.
Forse il triangolo non è quella forma geometrica così perfetta come dicono.
Forse sono i miei scrupoli oscuramente religiosi che mi inducono a lasciarvi soli in coppia, forse il tormento di un’assurda gelosia – sentimento orribile che non intendevo provare mai – o forse la consapevolezza che un mistero come il nostro, una triplice situazione affettiva come la nostra sia davvero troppo strana. Difficile da sostenere a lungo. In fondo, sono 10 anni che noi tre giochiamo questo gioco dolcissimo e struggente che le tue mani amorose tengono insieme col filo stretto stretto del tuo amore. Sento che devo sciogliermi da questo nodo stregante.
Ho sempre amato la normalità. E forse anche il desiderio di non dividere il mio amore con un’altra donna, anche se quest’altra è la mia amata sorella Mariù. Il desiderio di sposarmi e avere dei figli alla luce del sole, una casa tutta mia, un uomo tutto per me. Non è egoismo questo, ma aspirazione a una sorta di “normalità” che finora, a causa dell’immenso dolore che ci ha saldato fortemente insieme, mi è stata negata. Sento di avere ragione, anche se tu potresti scambiare questa “ragione”per egoismo, per crudeltà.
Forse che non stavamo bene insieme noi tre? Mi chiederai. Stavamo superbamente bene. Forse anche troppo. E allora…?
Permettimi questo scatto d’indipendenza che fa soffrire non solo te ma anche me. Che farà soffrire, immagino, tutti e tre.
Una ferita dentro un corpo perfetto sarà per noi questo mio distacco, lo so. La perfezione, forse, è un ideale fasullo che tende ineluttabilmente a incrinarsi pere poi spezzarsi per sempre.
Non posso, non devo più amarti come desideri tu.
E tu, cerca di amarmi in un altro modo e perdonami, se puoi; comprendimi, se vuoi.
Tua sorella Ida
*
BUON SOGGIORNO IN TERRA
Lettera scritta da Veza Canetti al marito Elias e mai consegnata (1963).
Elias,
ho appena letto i tuoi appunti. Eccoli:
“E se Veza si alzasse di colpo, guarita? Se la vedessi venire verso di me come un fantasma e mi schiaffeggiasse?
Un volto che conoscevi e che sparisce è la fine intera del mondo, in tutte le sue parti.
La morte è presente solo nell’occhio dei vivi. Nell’occhio di Veza è distante.
Pensare ai morti come ai soli esseri che non hanno il problema della morte e ci compiangono per questo.
E se Veza mi odiasse? Guardo i suoi occhi chiusi e so che è vero”.
Elias, il tuo principale interesse – come dubitarne? – è annotare la fisiologia del tuo dolore per la mia salute, la certezza che presto morirò. Al posto di una carezza o di uno sguardo tenero, preferisci registrare le tue commosse riflessioni, e poi consegnarle a me, perché le legga proprio io, che sto per morire. Non sei mai cambiato e non cambierai mai, vecchio ragazzo fottuto, mio carnefice tremebondo. Vuoi sfruttarmi ancora come tua lettrice e critica? Però, se mi accarezzassi ora, giuro che ti sputerei addosso. Non l’hai mai fatto prima, perché solo adesso nel momento del congedo? Un sentimentalismo in extremis. Va’, Elias, torna alla tua scrittura ma… non distruggere tutte le mie carte. Magari un giorno, un buon racconto di Veza,gli ammiratori di Elias lo pubblicheranno, credendo di farti un piacere o forse solo approfittando della tua distrazione…
Comunque sappi che per tutelarmi dalla tua gelosia ho avuto l’idea di consegnare una copia di tutti i miei scritti a certi amici che non nomino. Se li avessi lasciati soltanto a te, nessuno mai avrebbe saputo che anch’io, la moglie del grande Canetti, scriveva. E neppure tanto male.
Lascio questa lettera in evidenza sul comodino. Magari la leggerai tra qualche giorno, chissà anche tra poche ore. Perché adesso prendo la dose della notte… Ma non sei pastiglie. Stavolta preferisco inghiottirne quattordici. O ventotto. Vedrò. Voglio fare un lungo lungo sonno!
Ti ricordo alcuni titoli dei miei libri che ignori: Le tartarughe, La strada gialla, La pazienza porta rose. Li pubblicai con lo pseudonimo di Veronika Krecht o di Martha Murner o di Veza Magd. Tu non ne sapevi nulla, e così volevo io, perché avresti ritirato tutte le copie in circolazione per farle sparire. Usando il mio vero cognome, so che mi avresti derisa e umiliata. In ogni caso, inventavi qualcosa per denigrarmi, anche solo qualche minima malignità.
Purtroppo ho imparato a conoscerti. Ma, ti confesso, avrei dato la vita pur di non conoscerti così bene. Che dolore immenso, non puoi capire!. Il dolore atroce, indescrivibile, della delusione: sapere che il compagno della tua vita è un uomo meschino. Che scrive in modo splendido, come pochi al mondo, e che, invece, la sua parte ombra,il suo rovescio – in termini di umanità- è terribile,sconvolgente. Un’altra persona. Molto squallida. E anche mortale, si, mortale come me, come tutti.
Chissà se – te lo bisbiglio in un orecchio, ora che ho molto sonno e presto dormirò forse per sempre, te lo bisbiglio teneramente, quasi con amore: mio povero, bilioso Elias – chissà se, dopo la mia morte, riuscirai ancora ad essere lo scrittore irraggiungibile che sei stato, così celebre e ammirato da tutti?
Vorrei spiarti dal buco della serratura. E, se i fantasmi esistono, verrò senz’altro a farti visita.
Buon soggiorno in terra.
Vera