È raro imbattersi in una raccolta corposa come questa Da Pascoli a Busi (Quodlibet, 2014), messa insieme da un recensore così giovane; tuttavia Matteo Marchesini appare perfettamente formato, solido, un critico della tradizione. La spinta alla giustizia e all’ordine si esplica nella revisione della gerarchia tra gli autori, delle opere dei singoli autori soprattutto attraverso la definizione e il confronto. Marchesini comincia a fare le pulizie in casa propria, puntando a incrostazioni e superficialità della cosiddetta produzione seconda. L’impalcatura generale del Novecento italiano – Gadda, Montale, Calvino: “A pensarci bene, si tratta di una sorta di Canone della Paura. Ciò che le tre corone hanno in comune è infatti la coazione ad arroccarsi in una forma in grado di proteggere a priori dall’esperienza quotidiana” (p. 76). In particolare poi Marchesini sanamente diffida dell’unanimismo, per esempio sulla figura umana e letteraria di Sereni di cui sottolinea certa debolezza espressiva, anche perché si fa eccesso (“un’inarrestabile produzione di kitsch critico-poetico” relativo alla Rosselli, p. 321), pigrizia o sviamento (l’officina di Caproni che “non sopporta mitizzazioni, ed esige una critica altrettanto artigianale”, p. 219).
Non assistiamo di frequente ad attacchi frontali, se non per manifesta esasperazione come nel caso gustoso e condivisibile dei “poeti Bovary”; di solito la botta arriva rapida di passaggio: a Citati in cui “tutti gli autori evaporano in un gas neoplatonico dal quale si leva solitaria l’impudente ricreazione del critico” (p. 390), ai critici scrittori (“un Perrella o un Trevi”), “i testi di Ammaniti, di Saviano o Nove restano simili a telefilm spiaccicati su carta perché sono composti da stereotipi corteggiati con pathos estetizzante-populista o con ironia liceale” (p. 466). A volte il giudizio sugli autori si amplia ad una più circostanziata critica alla cultura, ben riuscita, per esempio, pur nella sintesi nei riguardi dell’enfasi sulla corporeità: “per artisti e intellettuali, il Corpo è diventato quel che un tempo era il Popolo: un mito che è anche il sintomo di un’impotenza, un idolo sotto cui risorge l’eterna velleità di trasformare il verbo in carne, la scrittura in gesto”. Altre volte sono spunti interessanti che avrebbero meritato maggiore approfondimento: la modernità come “confusione o scambio delle parti tra parola e azione” (p. 71), il realismo “una parola di cui la critica non può liberarsi, ma a cui di rado sa dare un significato attendibile” (p. 466).
Il nucleo più cospicuo di scrittori, soprattutto poeti, stanno nel cuore del novecento, appunto in un serrato confronto con il moderno. Alcuni presunti minori, Bianciardi o Morselli, balzano in primo piano, di molti si ripercorre la produzione cercando di sceverarne il meglio; Kaputt! per Malaparte, la produzione di Calvino “in cui l’ispirazione geometrica fa attrito con la realtà più rugosa, organizzandola senza farla sparire” (p. 318), Caproni quando “riesce a uscire dalla sua misura myricaea senza gonfiare e drogare l’ispirazione” (p. 214). Per quest’ultimo in uno dei saggi più meditati insieme a quello dedicato a Saba, si danno così significativi aggiustamenti: “Ciò che colpisce in Caproni, insomma, è la variabilità. E sotto questa variabilità, ciò che rimane è l’apriorismo del dato tecnico, formale. […] in questo senso non è affatto un poeta magro ed essenziale come di solito lo si dipinge, ma è anzi un poeta guidato da un’inesausta euforia tecnica, che lo porta ad inseguire tutte le variazioni possibili di un procedimento, talvolta fino ad usurarlo” (pp. 205, 207)”. La definizione, punto di forza di un qualsiasi critico, è qui spesso incisiva e circostanziata, aliena da svolazzi letterari, ciò tanto più apprezzabile in un critico che è anche poeta e romanziere; citiamo ancora una volta a piacere: “Savinio propone un’arte simile a un rapido periplo senza centro, a un balletto di larve e schemi che traccia a inchiostro simpatico una sottile linea di continuità tra mondo fisico e metafisico” (p. 118), i versi di Rebora “che sembrano pezzi costretti a forza su un’incudine” (p. 74), la tradizione romantica e surrealistica che in Landolfi si presenta “già al quadrato” e partecipa “a un gioco di bussolotti al tempo stesso futile e angoscioso” (p. 192), e con acribia sull’odiosamato Garboli che “non crede alla critica creatrice, ma più in generale rifiuta l’estetica moderna che fa dell’arte un valore in sé, che la stacca dall’esistenza ma insieme pretende di assorbirla integralmente, di diventarne il fondamento” (p. 382). Porta luce sugli autori anche il confronto, di cui Marchesini fa uso parco quanto efficace, allorché definisce Saba “una specie di Ungaretti speculare e avanguardista” (p. 92), intravede continuità tra Volponi e Rebora, ci offre Malaparte e Carlo Levi quali incunaboli dell’attuale autofiction italiana.
Insomma il lettore, che va cercando nell’ampia scelta antologica i suoi autori preferiti, avrà come secondo risultato un più netto e completo riverbero sul critico Marchesini, una voce ormai autorevolmente inserita dentro la tradizione di recensori militanti illustre e ancora viva con le personalità diverse dei Raffaeli, Onofri, La Porta. Per non citare Alfonso Berardinelli, il maestro di Marchesini, che da tempo rivendica la primazia del saggismo nella letteratura italiana; da discutere forse anche nelle sue forme ridotte e di servizio della critica giornalistica.