Oratorio dell’estremo saluto
Che bei fiori appassiti, gli dicevo,
quante gualdrappe vecchie, sì, un salvatore
incantevole: vuoi sbattermi, caro,
vuoi fottermi? Dillo, non ci girare
intorno; perché io, sorridevo,
cosa credi, cosa voglio da te?
Sai, mio caro, di cazzi come il tuo
ne ho visti, presi, smaneggiati,
e quelli s’afflosciano e tu dici “tutto qua?”,
tu, tutta sudore e brividi, mentre lui
tra i denti scuce un sorriso di paura;
dagli una pacca, a mammà, quanto sei bravo.
Perché poi quei damerini vecchio stampo,
gli scimmioni, cazzo grosso e cervello piatto:
dove me lo metti stasera, mi piego, che dici,
tutta pronta, culo in aria, così ti piaccio, coglioncello?
Non saprai mai quanti, dentro un cesso
lercio, ne ho ingoiati; troppe domande,
bamboccio, molti, sì, un mondo sano
mi ha scopata, la statistica, a che punto
sei? Con due uomini, eccome, due
sudati torelli, e che stronzi,
la moglie gode a comando
e se gli do il culo sono io la troia?
Quell’altro, il più bel cazzo duro
che abbia avuto: non ti posso cavalcare?
No, solo da sopra, carino,
se no, leccamela, vai, fatti fottere
da qualcun’altra. Scopate folli,
quante ne vuoi, dieci in una notte,
nessuno regge quanto me, però.
La prima volta? Innamorata, l’idiota;
sei mesi, sì che ero perfida, e lui a letto
con mia sorella, io con suo fratello,
perdornarsi, no mai. Bambina innocente,
anche adesso, se voglio, sai, un attimo,
prendo tempo, un po’ di rossore,
sbuffa il cretino, s’eccita,
io più rossa ancora: ma che avevi
stanotte, puledrone? E non farmi
la storia “quello che hai avuto ridai”,
m’infastidisci, le tue sciocche domande,
disprezzo quelli come te, ti sbagli,
non sono da meno, non sono di più.
Serena? Non voglio esserlo. Tu vuoi
capirmi? Inutile, senti a me,
cercare nelle cose intensità,
niente sotto la superficie, niente.
Ogni giorno cambio. Ma adesso solo
avanzi di me stessa. Se qualcosa
resta non sarà per te, per nessun altro,
se qualcosa di ricco esiste, di vero,
lascio che marcisca, che non si sporchi.
A te ferita, le dicevo,
a te sorriso di velata tristezza,
brezza di silenziosa potenza
questa notte, senza darti sospetto,
immensamente ti innamori.
Non chiamarmi Penelope, Circe,
la tua Itaca non sarò mai, dicevi;
eppure questo è il molo,
qui ti accompagnai, qui ti proposi
impudiche promesse, antiche cose,
fare indietro la vita, come Senofonte
e i suoi greci. Solo salvezza, nessuna gloria.
Nient’altro che composti chimici,
dicevo, unendosi danno terze miscele;
che duri un anno, un mese, una vita,
nulla sappiamo, perché sparì,
perché così a lungo sopravvisse.
Alla larga da certi composti, ti dissi,
gli epicurei lo sapevano già; certe tempeste
da qui è bene guardarle, al sicuro.
Epicuro, divino Epicuro, di chimica
non ti intendevi quanto lei. Sarà
per questo: io sono qui, legato
a doppio filo a far di conto,
a vegliare provette, per trovare i numeri
di quella miscela, che fra le mani
sfuggì dispettosa.