1. Che cosa sono i Mikrogramme
L’impressione che si ha nell’avvicinarsi ai manoscritti dei “microgrammi” walseriani è quella di una pazienza che sembra voler essere la stessa della natura quando quest’ultima, non vista e per così dire silenziosa, lascia accumulare strati su strati di roccia sedimentaria o cambiare, in modo impercettibile, il profilo di un rilievo, la forma di una costa. E i “microgrammi” sono l’universo e la manifestazione forse più fedeli dell’uomo e dello scrittore che si chiamò Robert Walser: universo perché la quantità dei testi noti con il nome di “microgrammi” e i loro relativi spazi fantasticanti sono di proporzioni davvero considerevoli, manifestazione forse più fedele perché nel loro stratificarsi segreto e diuturno i “microgrammi” rispecchiano l’appartatezza, la laboriosità, la cura nei confronti della scrittura e la discrezione di un uomo e di un artista che, ritiratosi in se stesso ed allontanatosi in maniera radicale dalla vita culturale del suo tempo, in apparente paradosso torna oggi sempre più al centro della riflessione e della ricerca, rivelandosi necessario punto di riferimento. E qui non insisterei affatto sul cosiddetto “enigma” dei microgrammi, ma sul loro essere contemporaneamente affascinanti oggetti artistici e testi di modernissima impostazione.
Detto in breve i Mikrogramme sono una larga parte degli inediti walseriani venuti alla luce dopo la morte dello scrittore a Herisau il 25 dicembre 1956, ma in realtà la storia del complesso di inediti non è affatto lineare né sempre chiara: una serie di manoscritti e bozze pronte per la stampa era giunta tra le mani di Carl Seelig, prima tutore e poi esecutore testamentario, già nel marzo del 1937 per opera della sorella dello scrittore, Lisa, che aveva ritrovato tale materiale nella stanza bernese di Robert dopo che quest’ultimo si era lasciato ricoverare nella clinica psichiatrica di Waldau nel 1929; l’11 agosto 1957 sempre Seelig ricevette da Lisa una scatola per scarpe (la poi famosa “alte Schuhschachtel”) che Robert aveva evidentemente conservato nella sua stanza della clinica di Herisau dove aveva vissuto dal 1933 alla morte, ma dove, a quanto ne sappiamo, non aveva scritto più nulla: lì dentro c’era una quantità considerevole di materiale vergato da Robert a matita. Ma facciamo brevemente un passo indietro: negli anni Venti e Trenta del secolo scorso Robert Walser visse un difficile, complesso periodo sia a livello esistenziale che creativo; dal 1921 al 1929 era a Berna, mutando spesso domicilio e conducendo una vita povera, quando non indigente dal punto di vista materiale, ma ricchissima sotto il profilo della produzione letteraria: riuscì a pubblicare qualche testo ogni tanto per giornali berlinesi e praghesi, continuò a ricevere rifiuti dagli editori, per cui non si attendeva più il riconoscimento degli ambienti culturali dell’area linguistica tedesca, ma cominciò a scrivere sui supporti più vari (buste da lettera, cartoline, scontrini, pezzi di carta già stampata) con la sua ben appuntita matita decine di testi di ogni sorta e lo fece con una grafia sempre più illegibile ad occhio nudo, in caratteri che sembreranno a chi per primo li avrebbe visti appartenenti ad una scrittura “segreta” inventata da Walser stesso; in realtà Walser, esperto copista e calligrafo, creava ed accresceva quotidianamente quello che lui stesso avrebbe chiamato Bleistiftgebiet, il “territorio a” oppure “della matita”, usando vari stili calligrafici (ma sempre vergati in caratteri di proporzioni piccolissime), identificando la scrittura con la bella grafia, esercizio quest’ultima di una vera e propria ascesi, di una pazienza e concentrazione che aprono territori nuovi ed inesplorati alla scrittura stessa e che, secondo le dichiarazioni dell’autore, avrebbero dovuto aiutarlo a superare il blocco creativo da cui si sentiva affetto. Walser compose i suoi Mikrogramme anche durante il periodo di ricovero nella clinica per malattie mentali di Waldau (dal 1923 al 1929). Nella lettera a Max Rychner del 20 giugno 1927 Robert Walser illustra quello che lui stesso definisce il “processo dello scribacchiare”: racconta di aver sofferto già negli ultimi anni berlinesi di una sorta di “crampo alla mano” con cui scriveva, era stato come se la sua mano “avesse avuto un cedimento”, per cui egli si sarebbe deciso ad usare la matita, o meglio, ad attivare un processo in due fasi: prima la stesura a matita e poi la versione in bella copia con l’inchiostro; suo scopo era superare l’impasse creativa in cui si trovava, liberarsi dalla paralisi. Con “l’aiuto della matita” (sono le parole di Walser) sarebbe rifiorita la sua “voglia di scrivere”; in tale periodo di crisi egli avrebbe avuto anche materialmente bisogno di “dissolvere, superare” il manoscritto tradizionale e, grazie alla matita, avrebbe letteralmente imparato, come un bambino, a scrivere, dal momento che si costringeva a ricopiare a penna proprio dai testi stesi a matita, operazione complessa e faticosa, ma pur capace di dargli piacere. E, ad un’analisi più circostanziata dei Mikrogramme, diviene evidente il fatto che molti di essi non sono “brutte copie”, ma testi in sé completi e che spesso Walser, passando dalla copia a matita a quella a penna, rielaborava i testi, talvolta li rinnovava in maniera radicale, ma che, soprattutto, l’universo segreto dei “microgrammi” lo condusse ad una libertà di stile e d’immaginazione inconcepibile se avesse continuato a scrivere tradizionali scartafacci; nella sua personalissima e segreta regione a matita egli trovò lo slancio liberatorio che lo condusse lontano da ogni tradizione letteraria, da ogni sudditanza (più o meno consapevole) a stilemi acclarati.
526 sono i “pezzi” o “supporti scrittori” che la sorella di Walser, Lisa, consegna nel 1956 all’esecutore testamentario di Robert, Carl Seelig: essi sono contenuti, come ho già detto, in una scatola per scarpe e Seelig, che per nostra fortuna non dà seguito al desiderio dell’amico di distruggere i manoscritti, pubblica più tardi, in rivista, un paio di microgrammi che attirano l’attenzione di un giovane dottorando che ha l’intenzione di lavorare sull’opera walseriana; si tratta di Jochen Greven (l’inventore del termine e del concetto di Mikrogramme) il quale, con Martin Jürgens, curerà poi l’opera omnia walseriana e avvierà una prima consistente azione di decifrazione e pubblicazione dei Mikrogramme; ma solo tra il 1980 e il 2000 Bernhard Echte e Werner Morlang riescono a decifrare tutti i testi utilizzando potenti lenti ed affidandosi ad una sorta d’intuito da veri e propri detectives, benché non sempre tale decifrazione risulti, ancora oggi, univoca, ma a volte ipotetica e comunque suscettibile di nuove interpretazioni. Lo zurighese Robert Walser-Archiv pubblica tra il 1985 e il 2000 con il titolo Aus dem Bleistiftgebiet (dalla regione della matita) l’edizione completa dei Mikrogramme in sei volumi; si tratta di migliaia e migliaia di pagine a stampa comprendenti anche il testo integrale del romanzo Il brigante, oltre che poesie e scene teatrali. Ho detto poco fa che i microgrammi sono anche oggetti d’arte: Walser non si limita infatti a scrivere a matita su supporti apparentemente occasionali, ma compie una vera e propria sperimentazione anche sulla resa grafica e sulla disposizione del testo, per cui ogni “pezzo” non va guardato come semplice supporto per uno o più testi, ma anche come un “paesaggio” scrittorio, come un Gebiet, appunto, un territorio all’interno del quale lo scrittore compie uno sforzo immane di concentrazione sia mentale che visiva, spesso riempiendo il supporto di carta fino in ogni suo angolo, oppure disegnandovi delle onde o altri segni grafici, compiendo, vien fatto di pensare, con la matita, con il necessariamente lento ed accorto, ma anche faticoso procedere della matita la sua quotidiana, ripetuta Wanderung, la passeggiata lenta durante la quale essere tutto sguardo e tutto ascolto; alcuni supporti recano già testi a stampa o immagini o altri segni tipografici: Walser deve tenerne conto, aggirarli, passarci attraverso, adeguarvi la disposizione del suo testo a matita – talvolta poi ricopierà alcuni di questi testi a penna e in bella grafia, come a volerli offrire ad un eventuale lettore. Non è un caso che a Berna si sia svolta dal 14 giugno 2013 al 15 ottobre 2014 presso il Robert Walser Zentrum una mostra di 13 microgrammi, esposti in posizione verticale in modo che il visitatore potesse vederne il verso e il recto: sembrano vere e proprie opere d’arte che potrebbero richiamare certe realizzazioni di Tàpies o di Burri o far pensare a testi di Emilio Villa (anche quest’ultimo aveva l’abitudine di scrivere sui supporti più diversi) o ai manoscritti di Michaux. Il contenuto è anch’esso, come il relativo supporto, vario: si va dai testi in versi (davvero numerosi) a scene teatrali, dai racconti ai frammenti impressionistici, a trame dei cosiddetti “Bahnhofsromane” (quei libri economici che si comperano alle edicole delle stazioni e accompagnano un viaggio in treno) e della “Trivialliteratur”, spesso rese irriconoscibili dalla rielaborazione walseriana; ma è soprattutto il montaggio a costituire l’interesse e la modernità dei Microgrammi: spesso sullo stesso supporto sono vergati più testi che quindi si saldano insieme oppure conoscono rimandi reciproci o succede anche che un testo in fase di elaborazione assuma una forma nuova proprio a causa del testo ad esso prossimo che ne influenza struttura e contenuto; e si pensi soltanto ad un romanzo geniale come Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin del 1929 nel quale proprio la tecnica del montaggio dà al libro il suo carattere peculiare ed innovatore, facendone uno degli esempi più convincenti d’interpretazione narrativa della realtà metropolitana (la Berlino degli anni Venti). Nella sua solitaria ricerca e sperimentazione Walser costruisce una realtà al cui interno la scrittura, al contempo minuziosa (e fisicamente sempre più minuta) e labile come quella a matita, monta tra di loro i numerosissimi stimoli provenienti dal mondo esterno e dalla mente; si tratta del modernissimo universo del frammento, da intendersi quest’ultimo non soltanto come testo breve e/o incompiuto, ma, ben più spesso, quale testo capace, come già le forme frattali, di ripetere o rispecchiare dentro il proprio microcosmo il macrocosmo. È per questo che i Mikrogramme, accanto alle annotazioni di Hölderlin, agli aforismi di Novalis, ai Fragmente di Schlegel, ai diari di Kafka, ma anche a quel monstruum ed unicum che è lo Zettel’s Traum di Arno Schmidt, vengono a costituire un patrimonio di scrittura che, nella cultura di lingua tedesca, ci restituisce un modo di rappresentare e di interpretare il mondo contemporaneo nella sua sfuggente complessità, nei suoi lati in ombra, nelle sue enigmaticità fatte affiorare proprio dalla scrittura e non dimentico qui i Mikrolithen celaniani, altro universo di frammenti e di appunti sul farsi della poesia che l’autore di Czernowitz iniziò mentre era ancora a Bucarest e che interruppe nei primi anni Sessanta quando dovette difendersi dall’accusa di plagio mossagli dalla vedova di Yvan Goll. È la scrittura della mano sinistra di cui parlano Lucetta Frisa e Marco Ercolani, è, di nuovo, il valore anche conoscitivo (oltre che estetico) del frammento così come lo analizza e lo mette in pratica Giuseppe Zuccarino nel suo Grafemi, è la Wanderung / flânerie di cui argomenta Walter Benjamin e che trova una straordinaria realizzazione concettuale ed artistica in Sebald, non a caso ammiratore e studioso di Robert Walser. Di Sebald ricordo qui sia l’ispirazione profondamente walseriana presente negl’inquieti vagabondaggi di Austerlitz così come negli attraversamenti fisici e mentali che lo stesso autore compie della Corsica e del Suffolk, ma anche l’immagine bellissima che conclude il saggio dedicato a Walser in Soggiorno in una casa di campagna: lo scrittore svizzero compie un viaggio in pallone aerostatico da Berlino al Mar Baltico e in ciò Sebald legge la metafora di un volersi sollevare, con svagata leggerezza, oltre la pesantezza della vita pratica e delle sue incombenze. Non so liberarmi di questa immagine sebaldiana, i Mikrogramme mi appaiono non la prosaica “officina dello scrittore”, ma, appunto, un volo della mente che, nell’esercizio pazientissimo della calligrafia, nell’obbligarsi a concentrare la vista e la mente, nel rischio della cancellazione cui è sottoposta la scrittura a matita (quanto labile essa è, a ben rifletterci!) cerca una strada personale e originale per la scrittura, sottoponendola ad una sperimentazione continua, producendo pagine e pagine di scrittura, alcune abbozzi, schemi, testi da rifinire, altre già in sé conchiuse, perfette nel loro stile e contenuto. Gli studiosi individuano almeno tre fasi e tre stili nella grafia dei “microgrammi”, articolano i temi in tappe successive, sono in grado di situare cronologicamente i singoli “pezzi”, ma tutto questo fa parte di una tendenza autoptica (e legittima) della filologia; credo che a noi, qui ed oggi, importi ritrovarci ammirati lettori che, oltre al “finito” dei Fratelli Tanner, L’aiutante, La passeggiata e via enumerando, con un brivido di emozione sanno che esiste tutto un universo scrittorio pulsante, proprio come i fisici descrivono il nostro stesso universo: la scrittura dei Mikrogramme è capace di costringere noi per primi alla concentrazione, obbligandoci ad assumere uno sguardo rivolto al particolare e al minimo, ma per consentirci di aprirlo subito dopo su una vastità vertiginosa e profonda in quanto le sperimentazioni walseriane tentano le possibilità davvero infinite della scrittura e, nel loro modernissimo intento combinatorio, si aprono al futuro (è necessario accennare all’OULIPO, a Perec e a Calvino, ad esempio? O alla poesia concreta d’area austro-tedesca?)
2. La poesia walseriana
Nel 1909 l’editore berlinese Bruno Cassirer pubblica una silloge di poesie walseriane con 16 incisioni di Karl Walser; ne ho scelte quattro che mi sembrano esprimere in maniera compiuta la personalità walseriana e che lasciano presagire le sue scelte di vita e di scrittura dopo il suo ritorno in Svizzera che avverrà quattro anni dopo; ho scelto di accennare all’opera in versi di Walser in quanto essa rischia di restare in ombra rispetto alla sua opera in prosa, ma è stata per lo scrittore svizzero parte essenziale e significativa della sua scrittura e viene intensamente ripresa, dopo l’episodio del 1909, proprio nei Mikrogramme, come dimostrano le ben 335 poesie ivi contenute; dall’edizione a stampa del 1909, dunque:
In ufficio
La luna insinuandosi guarda verso di noi,
vede me, povero commesso,
languire sotto lo sguardo severo
del principale.
Mi gratto imbarazzato il collo.
Mai conobbi
durevole la luce del sole;
assenza è il mio destino;
essere costretto a grattarmi il collo
sotto lo sguardo del principale.
La luna è la ferita della notte,
gocce di sangue le stelle.
Se anche lontano dalla colma felicità,
sono per questo di carattere modesto.
La luna è la ferita della notte.
Come sempre
La lampada è ancora qui,
anche il tavolo è ancora qui
ed io sono ancora in camera
e il mio struggimento, ah,
esso sospira come sempre.
Viltà, sei ancora qui?
e, menzogna, anche tu?
Odo un oscuro Sì:
l’infelicità è ancora qui
ed io sono in camera
come sempre.
In disparte
Vado per il mio cammino;
esso conduce per un pezzo lontano
e pure verso casa; poi senza suono
né parola io sto in disparte.
Distensione
Da quando mi sono arreso al tempo
sento vivere qualcosa in me,
una calma calda, meravigliosa.
Da quando scherzo apertamente
coi giorni, con le ore,
sono finiti i miei lamenti.
E sono sgravato dal peso
delle mie colpe, che mi fanno male,
grazie ad una semplice parola:
il tempo è il tempo, può assopirsi,
sempre mi troverà, brav’uomo,
nello stesso posto.
Mi permetto qualche chiosa: chiunque riconoscerà subito tematiche ed atteggiamenti walseriani per eccellenza, a partire dal conflitto tra le esigenze della vita pratica e le aspirazioni letterarie (la rappresentazione di sé e del proprio principale nell’indimenticabile primo testo), oppure il bisogno di solitudine, la lampada che bene rende l’idea della concentrazione e del silenzio, il camminare come inesauribile fonte d’ispirazione. L’opera in versi non sembra dunque essere secondaria rispetto a quella in prosa, ma ne affronta, in maniera lirica e concentrata, molti temi. C’è da dire che lo stile è relativamente tradizionale, il tono intimo e melanconico e che tutto questo subirà, nei testi poetici appartenenti ai Mikrogramme, una radicale trasformazione, come dirò a breve. Sempre importante risulta lo scavo nella propria interiorità, il tema della stanza che sembrerebbe essere metafora di tale interiorità, se non che la finestra mette in rapporto il microcosmo dei pensieri e dei sentimenti con la realtà esterna.
3. Tre proposte di traduzione dai Mikrogramme
In maniera coerente con quanto appena detto, spero, propongo ora due testi in versi ed uno in prosa.
Il Mikrogramm che segue è una riflessione sul mondo interiore dello scrittore, ma l’apparente solipsismo è superato proprio dalla saldissima perizia stilistica e dalla perfetta padronanza dei mezzi retorici ed espressivi, oltre che da una radicale lucidità e consapevolezza, dimostrando come i “microgrammi” siano stati anche un diuturno esercizio di stile, uno studio oltremodo paziente e pervicace sulle possibilità espressive della scrittura e un confronto impietoso con i propri abissi interiori.
Nel cestino da viaggio o per la biancheria
che sta nella mia stanza da letto
ci si schiarisce la voce di notte
come ci fosse disteso qualcuno
e come se stesse seduto sul cesto
uno schiavo sussurrante, mio orribile
servitore, la mia ferma decisione
di appartenere a me stesso. Il mio pensiero,
lui mi conosce. Ciò che penso mi sembra spesso
pauroso ed io scendo
dalla notte come da una tomba di marmo
e da un sonno spettrale come da
un passato che scaglia
attorno alle proprie tempie
pallide immagini di numerose
povere torturate anime
e posso essere di nuovo lieto nel mattino della mia vita.
A nessuno auguro di essere io.
Soltanto io sono in grado di sopportarmi:
sapere così tanto ed aver visto così tanto e
così niente, così niente dire. (inverno 1924/25, n. 236)
Accanto alla libertà tematica e alla radicale rottura della tradizione lirica si colloca qui il rapporto con se stesso: da Kafka a Pessoa, da Max Frisch ad Antonio Delfini il Novecento ha visto molte discese negli inferi dell’io e proprio in seguito alla rottura della tradizionale unità e continuità psicologica del soggetto, al venir meno di punti di riferimento certi e definitivi. Talune soluzioni che sembrano proprie del Surrealismo, altre francamente illogiche, altre ancora irrisolte dicono molto dell’estrema complessità di questi testi walseriani, del loro essere spesso in fieri, ma anche del loro continuo mutare in quanto ricerca incessante. L’universo dei Mikrogramme assomiglia moltissimo all’universo quale è descritto dal principio d’indeterminazione di Heisenberg e dalla teoria della relatività di Einstein: ci si approssima alla conoscenza, ma non la si raggiunge in pieno, la realtà è un insieme infinito di interrelazioni, un intersecarsi incessante di campi di energia in continuo mutamento.
Il secondo testo che mi azzardo a tradurre e a leggere presenta subito una delle caratteristiche più ricorrenti dei Mikrogramme, vale a dire l’ironia, la frequente mescolanza di concreto ed astratto, gli accostamenti inattesi di immagini e di situazioni, il continuo variare da esterno ad interno e da esteriore ad interiore (e viceversa); non mi sorprenderei se si pensasse che proprio l’ironia, i giuochi di parole, i calembours, l’effetto straniante che deriva da alcune immagini possano essere messi in correlazione con il vitalissimo mondo del cabaret berlinese degli anni Venti e Trenta e con alcune tendenze dell’Espressionismo tedesco d’inizio secolo; ovviamente la versione italiana è largamente deficitaria per quanto riguarda gli innumerevoli giochi di parole, gli effetti di suono, i rimandi lessicali di cui i testi originali sovrabbondano, per cui chi si accostasse ai “microgrammi” walseriani deve essere consapevole dell’inesauribile lavorio dello scrittore anche circa l’aspetto fonetico e lessicale della lingua, la cui modernità conferma il genio assoluto di Robert Walser il quale, non dimentichiamolo, opera non solo con la lingua tedesca, ma anche con quella variante particolare che ne è lo svizzero-tedesco. Confrontarsi anche con un solo Mikrogramm è per il traduttore motivo di disperazione, necessaria accettazione di un compito davvero arduo: raramente uno scrittore riesce a penetrare nel corpo vivo della propria lingua materna come ha fatto Robert Walser, benché in Germania non manchino esempi-limite di sperimentazione radicale sulle strutture della lingua e sul lessico, come il Simplicissimus di Grimmelshausen e Zettel’s Traum di Arno Schmidt, ma bisogna non dimenticare che il caso dei Mikrogramme è unico perché essi non erano destinati alla pubblicazione e c’è da chiedersi a quale sorte li avrebbe destinati il suo autore se, a Herisau, non avesse cessato di scrivere; è pur vero che egli avrebbe chiesto a Carl Seelig di bruciare tutti i suoi manoscritti (cosa che, per una serie di circostanze non avvenne), ma i Mikrogramme rimangono ad affascinarci anche come oggetti, ché ci rendiamo conto che non si tratta soltanto delle “carte” dello scrittore, ma di una vera e propria opera parallela e nascosta rispetto a quella diciamo così ufficiale e che dopo la sua scoperta e decifrazione continua a gettare nuova luce proprio sull’opera edita; ma attenzione: non si tratta di “due Walser”, bensì del medesimo autore che vive la scrittura con religiosa, totale dedizione, che si fa vero e proprio monaco-asceta e, in questo senso, mi affascina l’idea che i microgrammi possano essere una lunghissima preghiera e meditazione ed esercizio ascetico (di marca totalmente laica, ovviamente, ma questo non toglie nulla alla profondità, alla solennità, alla commozione, all’ammirazione che i Mikrogramme suscitano).
Là, dove un tempo mi videro brave persone,
lì verdeggiano ora gli alberi, e oltre il cespuglio,
nel quale si sente cantare e cinguettare, passa
silenziosa la ferrovia. È possibile che io qui stia facendo un pessimo lavoro.
Innanzi al graziosamente nascosto villaggetto canta il gallo.
Da pezzo in prosa a pezzo in prosa io passo rapido,
con la qual cosa celo ciò che un tempo ero
se mi si appressano indesiderati sentimenti.
Carrozze, che i miei occhi un tempo videro,
passano oltre il verde cespuglio
del mio bell’essere, finché io mi accuccio
davanti al mio stranamente mio corso della vita.
Da pezzo in prosa a pezzo in prosa io passo rapido
così, come navigassi in una barca,
e mi sono concesso il viaggio.
Davanti al villaggetto canta con tono allegro il gallo.
ben so che qui vado facendo un pessimo lavoro
se i ricordi piano s’avvicinano,
cosa che io gioiosamente qui tengo celata.
Oltre il verde cespuglio della mia vita
navigo nella mia barca di scrittore in prosa. (Probabilmente primavera del 1927, n. 062b).
La scrittura che riflette sulla scrittura (abusato topos a partire forse dagli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo) trova nei Mikrogramme matura e geniale anticipazione, oltre che ricorrentissima attenzione. È così che il walseriano von Prosastück zu Prosastück diventa, nel suo andamento tra divertito e cantabile, arguta immagine di un andare (wandern) non solo da luogo a luogo (la passeggiata così tipicamente walseriana), ma anche da testo a testo e da tema a tema. Apertissima rimane la questione dell’interpretazione da dare a molti testi, per esempio ad alcuni in versi che sembrano presentare rime e ritmi a dir poco obsoleti e imbarazzanti nella loro ingenuità, ma che, secondo alcuni studiosi, metterebbero in scena l’insuccesso letterario walseriano, dimostrerebbero una padronanza tecnica altissima e una consapevolezza artistica totale (è come se Walser volesse dire agli editori: “Ecco, voi respingete i miei manoscritti, ma vi mostro io che cosa è davvero brutto e privo di perizia”) e costituirebbero una sorta di sfida che costringe il lettore ad andare ben oltre l’apparenza del testo: nel caso da me scelto la rima in -usche (dort grünen nun die Bäume, und am Busche, / worin es singt und zwitschert, fährt die Bahn / leise vorbei. Möglich ist, dass ich hier pfusche. / Vorm hübsch versteckten Dörfchen kräht ein Hahn. / Von Prosastück zu Prosastück ich husche, / womit ich, was ich einmal war, vertusche, / wenn unerwünschte Sentiments mir nah’n) potrebbe non essere altro che la punta emersa di un iceberg che, invece, è la vita stessa dello scrittore e poeta, apparentemente appartata nella campagna svizzera, ma in realtà in tesa polemica con chi non dà credito alla sua opera.
Ed ecco il terzo testo, affascinante riflessione che scaturisce dal confronto tra la scrittura a macchina e quella a mano, dunque centrale nell’opera walseriana: la preferenza di Walser va alla scrittura a mano, la quale, come una passeggiata estremamente incline alla divagazione e disposta a lasciarsi sorprendere da qualunque circostanza o incontro, è genialmente inventiva, ama gli accostamenti inattesi, in questo testo anche le etimologie più improbabili, ma forse proprio per questo (mi vien fatto di dire alla maniera di Isidoro di Siviglia) generatrici di altro e nuovo senso. Anticipo che ho tradotto l’invenzione walseriana “Ichheit” con “egoità” e che circa a metà del testo lo scrittore usa il termine svizzero-tedesco “Cheib” o “Keib” che significa ragazzo, ma che gli richiama, dato il suono, termini arabi ed ebraici come kaaba e kabala, da qui la falsa etimologia inventata da Walser.
Con vigorosa dolcezza si muoveva la mia egoità (il cui pensiero andava alle macchine per scrivere e prendeva in considerazione di far visita ad una caffetteria) e che non avvertiva più il proprio io, sotto l’arcata di un vecchio ponte. Giaceva il fiume sotto la singolare costruzione, tranquillo come una comparazione che preferisse non essere menzionata, della quale sono disposto a credere che potrebbe essere più di nocumento che di vantaggio al mio pezzo in prosa. O, sussurrante bosco, come ti sollevasti gradevole nella notte che non riuscii a disturbare nella sua tranquillità con i miei passi. Chiesi ai sentieri, che calpestavo con un’andatura da lanzichenecco e con grande preoccupazione, se mi percepissero come sconveniente. Intorno c’erano esseri che riconobbi quali figure umane, una casa, cui il mio saluto doveva essere benvenuto. Caffè giallo-oro cominciarono ad agire nel mio pensiero, la mia andatura era sazia di pensieri, cosa che meglio di tutti comprenderanno coloro ai quali ciò è incomprensibile. In stanze illuminate a giorno alcuni leggevano questo e quell’altro scritto. Non sarebbe la verità se volessi dare ad intendere di essere stato pensieroso. Anni prima un noto collega in occasione di una sua visita mi aveva detto che per comporre si serviva della macchina per scrivere e per qualche tempo presi in considerazione una tale circostanza, cioè mi domandai di quando in quando se non sarebbe stato utile anche a me lo scrivere a macchina, considerazione che sempre più si dissolse. Confesso al lettore di questi righi che qui scrivo in modo del tutto inadeguato, se non se n’è ancora accorto, e che sono intenerito dall’indocilità, similmente a come mi ha rallegrato il buio che mi circondava per un tratto nel bosco delle nove di sera. Nella mia vita mi sono appoggiato in molti modi alle mie mani delle quali posso pensare di essermene servito molto bene e che sono diventate col tempo qualcosa di ben curato. In seconda battuta superai il pensiero della macchina per scrivere riman endo fedele all’idea del manoscritto, alla legge delle dita. Non è tutto questo di nuovo espresso in maniera oltremodo inappropriata? Già alle due e mezza del pomeriggio pensai nel bel mezzo di un salto oltre un piccolo fosso ad una città lontana e inoltre alle castagne arrostite che mi sarei comperato nel corso della gita, intenzione che poi fu realizzata. Se mi è consentito rendere edotto il caro lettore di un’idea che mi ballava in mente, allora l’espressione svizzero-tedesca Cheib potrebbe avere origine da nessun altro luogo se non dall’Oriente. Il fatto è questo, che lessi in un articolo di giornale della Kaaba musulmana che è un oggetto sacro relativamente antico. Non mi avesse colpito la parentela, non avrei pensato che i primi abitanti della Svizzera, almeno nel primo medioevo, designarono gli Orientali, con i quali, come insegna la storia, in quanto Europei ebbero a che fare in modo anche violento, quali Cheibe, cioè come coloro cui la Kaaba indica il cammino fino alle regioni più lontane e alla quale da ogni luogo ritornano. Cabala, Kaaba e Keib, tutto ciò rinvia chiaramente ad un tempo nel quale la voce popolare diffamava tranquillamente ciò che aveva a che fare con l’Islam.
Da parte loro e in modo simile i Cheibe potrebbero aver avuto a che fare, con loro piacere, con membri della cristianità. Ciò che rende arduo un bosco di notte è l’invisibilità dei tronchi, con la cui plausibile presenza occorre fare i conti e che si incontrano avanzando a tentoni da ogni lato. Ma come mi sono piaciute e non dimentico due o tre tortine di ricotta durante un concerto di musiche di Donizetti, che mi misi ad ascoltare e durante l’ascolto mi fece intimamente giubilare. Non mi feci dunque scoraggiare e tenacemente e in maniera duratura dissi di sì al manoscritto. Che appartenga al mio carattere una certa fedeltà mi sembra legittimarmi a credere che si possa credere qui e là in me, cosa che io, a dirlo apertamente, non ritengo per forza necessaria. E durante la passeggiata domenicale non mi sono fermato in nessuna locanda. L’ho ritenuto un successo. (Ottobre 1927, n. 409).
Trovo molto interessante l’identificazione che Walser compie tra paesaggio e foglio scrittorio, tra l’attraversamento del paesaggio e il disporsi della scrittura sul foglio, e sorprendente che taluni passaggi del testo evochino circostanze che Carl Seelig avrebbe narrato anni dopo nelle sue Passeggiate con Robert Walser, cioè il vagabondare nel paesaggio dell’Appenzell, il fermarsi a comperare qualcosa da mangiare, il discorrere dei temi più disparati. A ben guardare il Mikrogramm ha l’andamento di un vagabondare (della mente, della scrittura) senza nessi apparenti, che si manifestano a livello profondo (altra caratteristica dell’arte walseriana): si tratta di quella felice ed eretica libertà della scrittura che, sola, è capace di connettere cose, luoghi, tempi tra di loro.
Bellissimo l’articolo di Antonio e ottime le sue traduzioni. Non so se Walser sarebbe d’accordo cn tutto quanto si dice di e intorno a lui: certo che, passando gli anni, la sua genialità silenziosa e antimondana è un serbatoio di energie per chi considera la scrittura un atto assoluto, che è riparo e pericolo insieme. Marco Ercolani
Chiedo scusa, ma uno dei miei due commenti non è andato a buon fine e lo ripeto qui: anch’io sono certo che Walser non ne sarebbe stato lieto, ma, una volta pubblicata (anche quando questo accade in maniera fortuita o malgrado l’autore stesso), l’opera appartiene al lettore che la legge e la commenta. Grazie ad entrambi per i commenti e grazie a Marco Ercolani, la vera anima del convegno genovese e carissimo amico.
Aggiungo a parte un grazie ad Enrico De Vivo che da anni dedica a Walser ampio spazio qui su “Zibaldoni”.
Molto interessante, lo condivido, grazie e un saluto Antonio. t.