Trovo una bella (cioè inquietante) trasposizione della vita in provincia nell’ultimo romanzo del belga Bernard Quiriny, “Le village évanoui”, che ho letto nell’edizione francese pubblicata da Flammarion nel 2013 (immagino che qualche editore italiano prima o poi lo farà tradurre).
Una immaginaria ma credibilissima cittadina nel bel mezzo della provincia francese, Châtillon-en-Bierre, quieta fino alla sonnolenza, appagata di se stessa, abitata da gente che lavora le terre all’intorno o si reca ogni giorno a lavorare in città più grandi, di colpo, una mattina, si trova isolata dal resto del mondo. Per meglio dire: gli abitanti non riescono ad andare oltre un certo limite, le automobili si bloccano e non vanno più avanti, le comunicazioni si sono interrotte, nemmeno telefoni e web funzionano più. Privati del conforto dei generi di non prima necessità che ormai sembrano indispensabili, e poi messi alle strette anche dalla penuria di quelli essenziali per la sopravvivenza, gli abitanti provano a contare solo sulle proprie forze e su ciò che possono produrre, ognuno a modo suo: e danno vita a un’economia autarchica, che però lascia scontenti tutti, rinfocola gelosie e rivalità, e invece di creare solidarietà fomenta divisioni feroci all’interno della comunità ed erige nuovi confini interni. Quei pochi che provano a superare il limite invisibile spariscono nei boschi, non tornano più indietro.
Il romanzo è meno bizzarro e sorprendente di altre opere di Quiriny (cercate questo autore, è noto anche in Italia: L’Orma ha pubblicato da poco “La biblioteca di Gould – Una collezione molto particolare”), ma tradisce comunque la propensione dell’autore alla casistica, il vezzo della catalogazione sempre un po’ disturbante di tipi. Riesce inoltre a mescolare bene una buona dose di misantropia (di sfiducia nelle capacità dell’uomo di darsi un senso, ecco) con un singolare umanismo (non sembri incoerente: lo studio delle varietà umane può portare al dileggio e alla compassione allo stesso tempo).
“Le village évanoui” è addirittura provocatorio nel ripercorrere sentieri già ampiamente battuti da altri libri e da diversi film. A me, per dire, sono venuti subito in mente i capitoli iniziali del romanzo elegantemente verboso di John Wyndham “I figli dell’invasione”, del 1957, con gli abitanti di Midwich che non appena provano a superare il limite invisibile che circonda la loro cittadina svengono, o si addormentano (lo possiamo leggere come una metafora efficace, non ancora scontata negli anni Cinquanta, dell’eterna narcolessia della provincia, ben avvertibile nel romanzo venato di un umorismo che invece è assente nei film che vi si sono ispirati).
Lasciamo invece stare quell’altra barriera, la parete invisibile ma concreta che separa per sempre da tutto il resto del mondo l’ostinata e organizzatissima protagonista del romanzo “La parete” di Marlen Hausofer (in Italia pubblicato da e/o nel 1992) – in Quiriny non è una parete o un muro a isolare i personaggi, ma piuttosto una profonda coltre di silenzio e di inerzia, letale ma non insuperabile, forse più simile alle titubanze che impediscono al gruppo di borghesi de “L’angelo sterminatore” di Luis Buñuel di uscire dal celebre salotto. Ma fermiamoci qui con i rimandi.
Per tornare al romanzo di Quiriny, come ci comporteremmo in quelle situazioni improbabili noialtri, che in quei personaggi descritti dallo scrittore belga ci riconosciamo, e riconosciamo i nostri vicini e i nostri concittadini? Con la stessa miopia, la stessa cocciuta diffidenza, con la stessa difficoltà a capire, a unire le forze? “Le village”, in sostanza, ci suona come la parabola su un mondo chiuso, il nostro, sul nostro sguardo corto che non va oltre i confini più vicini, e da fuori pretende aiuti scontati senza dare niente in cambio – sospesi come siamo tra il rimpianto sussiegoso di un passato mitizzato e l’incapacità di cogliere il declino e la perifericità del presente. Che cosa impedisce ai paesani del romanzo di guardare oltre, di andare oltre? Le forze misteriose che li tengono bloccati potrebbero stare nella loro stessa incapacità di capire il proprio ruolo e di collocarsi in un sistema di relazioni? L’autore si guarda bene dallo snocciolare una morale o dallo sciogliere il mistero: non importa gran che – e noi gliene siamo grati – che il tutto sia un’allegoria antropologica o metafisica oppure una fantasticheria che si alimenta di suggestioni letterarie e cinematografiche. E per fortuna non sapremo mai se è davvero il villaggio a essere svanito, o se è svanito tutto il resto del mondo. Siamo insomma lontani da ogni scioglimento di comodo, soprattutto – ed è un sollievo, almeno per me – dallo scioglimento in chiave fantascientifica di “Under the Dome” di Stephen King, che invece deve qualcosina a Wyndham.
Comunque: nel leggere Quiriny ci siamo trovati coinvolti più del solito, et pour cause. Infatti ci è capitato davvero di vivere in anticipo quella condizione liminale e isolata che lo scrittore belga ha raccontato, in occasione dell’alluvione del 2000 (un avvenimento che proprio in quegli anni cominciava a non essere più tanto eccezionale). La città si è trovata privata per giorni, e poi per settimane, di ogni collegamento: strade bloccate, telefoni muti, valichi impraticabili, ferrovia a pezzi, canali televisivi lacunosi, scuole chiuse e poi, una volta riaperte, frequentate da pochi. I trafori verso altri Stati ancora chiusi a causa di tragici incidenti; solo per emergenza si poteva uscire dalla città, in file di auto che procedevano sotto scorta e a passo d’uomo verso la regione più vicina, lungo l’unica corsia dell’autostrada rimasta aperta. I villaggi stavano ancora peggio. In quei giorni, la calma in città era onirica: a parte qualche quartiere della periferia, il centro non era stato nemmeno sfiorato dalla violenza del fiume e dei suoi immissari. Staccati dal resto del mondo, ci aggiravamo stupiti e imbambolati– i negozi sempre più sguarniti, le edicole senza giornali – e ci sembrava che sarebbe stato sempre così, una condizione limbale, un aldilà mesto, una sensazione sgradevole che tutto potesse ricominciare e peggiorare di lì a poco. Sarebbe stato perfino suggestivo, se non ci fossero stati tutti quei danni, se non avessimo cominciato a sapere di tutti quei morti.
Certo, c’era anche qualcuno che prendeva la pala e cercava di rendersi utile là dove serviva, senza filosofare troppo.