Fermata del tempo

di in: Bazar

Opera di Francesco Lauretta

Caro lettore,

perdona il ritardo con cui mi faccio vivo. Ecco alcuni “approfondimenti” sul mio libro Fermata del tempo (Marcos y Marcos, 2015), che spero ti riescano utili.

 

  • Il titolo indica la volontà di fermare il tempo, di rallentarlo, di fissare nella memoria alcune figure umane e alcuni luoghi e situazioni perché restino fissi nella mente e favoriscano la nascita di una identità più profonda e una consapevolezza maggiore, contrapposte ai ritmi e ai contenuti fatui dell’oggi. Ma la Fermata, come quella dell’autobus, o del treno, indica anche la transitorietà di ogni esistenza: una fermata dove si sale o si scende, velocemente, una via più naturale rispetto alla volontà “innaturale” di fermare ciò che non si può fermare. La vita col suo caos lotta con la memoria che invece forma l’uomo integrale, la sua identità.

 

  • La prima poesia, il poemetto La stessa faccia, indica il momento del distacco dalla casa dove si è nati e cresciuti. Distacco doloroso, in cui tutto sembra perduto, in cui non ci sono più coordinate e resta solo il senso della perdita. Il personaggio (l’io lirico, cioè io stesso) del libro sa che gli tocca vivere, e non può più scansarsi questa responsabilità, e il suo è un lamento. Nel dolore lancinante che prova, si sdoppia, si rivede alla finestra. Ma lui è in partenza. Comincia il viaggio.

 

  • La prima sezione: Le radici sepolte. È una specie di storia familiare, il ricordo di figure di parenti vicini (i miei nonni, mio nonno in particolare, le sue sorelle, tutte rigorosamente del lato materno, con le quali sono cresciuto) ma anche degli avi, i bisnonni, che ho visto solo in foto. Da noi, a Napoli, c’è un grande culto per i defunti, e io mi riconosco erede di questa famiglia napoletana, molto antica, molto giusta. Le radici sono “sepolte”, perché più scendono in profondità e meno si vedono, ma ci sono, e non possono essere ignorate. La mia speranza è di essere all’altezza, con la mia esistenza, di questo passato così “positivo”, contrapposto al caos morale dell’oggi. L’unica cosa che spero è non perdere queste radici. Ma anche le radici hanno qualcosa di tagliente: nella poesia L’eredità traccio un solco netto che purtroppo si trova effettivamente nella mia famiglia nucleare: mio padre e mio fratello simili fino allo spasimo, io e mia madre simili fino allo spasimo. Una famiglia spaccata a metà, che non ha mai conosciuto unione. Io e mio fratello abbiamo gli stessi problemi nel comunicare che hanno mio padre e mia madre. Due modi di vedere il mondo completamente differenti. «Papà, mamma, voi lottate dentro di me» dice Sean Penn in The tree of life di Terence Malick.

 

  • La sezione Napoli rivisitata. Il soggetto rivede Napoli nel suo passato, la Napoli di quando era al liceo, la Napoli di quando viveva ancora con i suoi familiari; è una città rivista in sogno, o di passaggio, da straniero o da turista, ormai il personaggio che parla lavora altrove, può solo ricordare, come ne La campanella. Ma c’è anche una Napoli presente, quella della Stazione marittima, e una storia di quartiere, Senza vergogna. Dalla Napoli di Stazione marittima prende le distanze perché non gli appartiene e quando gli capita di passare e di tornare nel porto di Napoli, alla vista dei turisti, sente un moto di ribrezzo, perché lui è altra cosa. Lui è la sua storia, individuale e familiare. Niente da spartire con tanta gente che non sa chi è, da dove viene, cosa vuole dalla vita. Che non ha affetti, che non è umana.

 

  • I Testimoni: questa sezione è la più “profonda” del libro. Si rievocano, dopo Napoli, delle persone scomparse. La prima poesia, Preghiera del mezzogiorno è una specie di protasi cristiana per questo viaggio tra i defunti. Molto ha influito Dante (il viaggio nell’aldilà), Il seme del piangere di Caproni e l’intonazione “vocativa” di Leopardi nelle sue “Sepolcrali”. Ci sono Amelia e Velia (Trenodia per Amelia e Velia), prozie (sorelle di mio nonno) con le quali sono cresciuto, e che il personaggio che parla, l’io lirico nell’accezione più classica, non può che vedere in paradiso, perché la loro bontà vince anche la morte, e sono un segno di speranza: la speranza che la vita umana non finisca nel nulla. Speranza che vacilla nella poesia successiva, Il pranzo dalle zie: anche qui sono rievocate le prozie dalle quali andavo a pranzo il sabato, ma qui è il dolore della perdita a farla da padrone. La bandiera di Vittorio è dedicata a mio nonno, una roccia d’uomo che spero abbia passato un po’ della sua tempra di quercia anche a me. Cupa del principe è dedicata al vecchio parroco di quando ero adolescente, una presenza viva che mi ha lasciato con la frase ti ho voluto veramente bene, tra noi c’è stata vera amicizia, e questa amicizia vince anche la morte. Resterà per sempre. Una guida fraterna e un vecchio napoletano frugale e buono, come non ne ho conosciuti altri. La strage di Filippo parla dell’unico amico vero che ho avuto, Filippo Viola, morto suicida a 25 anni, dopo una diagnosi di disturbo borderline di personalità. Era un ragazzo splendido, il prototipo della persona pura che non trova posto in un mondo di compromessi e di marciume. E infatti questo mondo laido che è il nostro solo mondo contemporaneo lo ha assassinato, facendolo ammalare, perché troppo dissimile da tutti gli altri. In Trastevere ore quindici c’è il tentativo di esaltare ma anche di dare degno saluto ai “testimoni”, che condividono con me la speranza di una vita dopo la morte in lotta con il dolore per la perdita sentita come la più grande ingiustizia “ontologica” che è comminata a ogni essere umano. Che è consustanziale alla specie umana.

 

  • La sezione Generazione mortale parla dell’immersione nel mondo di oggi, nel quotidiano senza speranza, nella materia della vita, dura da accettare. Ci sono figure come la supplente (Il sabato della supplente) o il «comandante Costigliola» (Trentasette primavere), amico di mio padre, morto nel fiore degli anni nel naufragio della sua nave. Anche mio padre è ufficiale di marina, e loro erano amici. Ma il personaggio-io, ora nel pieno di quella vita che ha cercato sempre di evitare, si rende conto che non solo è dura, anzi durissima, ma che c’è una cosa che mai aveva messo in conto: la vita, anche a trent’anni, può fermarsi: si può morire, o non trovare o perdere il lavoro, la vita può non decollare. C’è un esame di coscienza individuale (lo si vede nella prima poesia, Contabilità infinita), sul tempo perduto in cose sbagliate, ma anche un dato generazionale, perché molti sono quelli che sono morti giovani, hanno tralignato, vendendosi al sistema, o si sono ammalati, o non hanno avuto possibilità per farsi una vita dignitosa. Il personaggio, l’io, sente questa dimensione collettiva, ma non riesce a farsene una ragione. Del resto, il male comune non è mai mezzo gaudio, anche se il proverbio dice il contrario. Il dato generazionale è un’altra “scoperta” dell’età adulta. Tutto quello che hanno avuto i miei genitori io non l’avrò, né l’avranno i miei coetanei, oggi alle soglie dei quaranta. C’è una spiegazione? No. Siamo una generazione di mezzo, dopo non si sa cosa ci sarà, tutto è precario, o lo accetti o ti chiami fuori. Ma chiamarsi fuori non è possibile. Neanche Gaeta, che è il luogo “numinoso” della mia infanzia felice, riesce più a dare conforto. Oggi l’io la guarda dal treno dei pendolari e il ricordo della felicità passata si trasforma in dolore acuto (Il treno per Sezze, Notizie dall’estate). Nessuna «felicità promessa» (Quadranti), solo esclusione (Ultima notte di scuola). Con contorno di fallimenti amorosi (Il distacco) e di «castrazione di ogni volontà» (Ballata del giorno normale). Il negativo irrompe nell’esistenza impossibile e sembra avere la meglio su tutto. Ma non è così. Non può finire così.

 

  • E infatti l’ultima sezione, La buona maniera, si apre alla speranza. I ricordi cominciano a fare meno male (Contagio, Elegia locale), si comincia a capire che la sopportazione è, anche cristianamente, l’unica via verso la salvezza e la saggezza (Il premio del deserto). E anche se tutto è andato a ramengo, l’anima è ancora viva e vuole ancora provare amore e bellezza, anche se è passata sotto le forche caudine del Male (Cavallo di ritorno). Renata è la figura femminile che sa stare al mondo, ed è da prendere come esempio, se non come modello. L’io cerca di imporsi alle cose, e piano piano ci riesce. Resta la malinconia, ma il dolore acuto è superato.

 

  • L’ultima poesia (Lettera di una badante, che chiude il libro) è una sorta di “spersonalizzazione” voluta e insieme anche subita. A parlare non è più l’io ma una delle tante badanti che a un certo punto hanno abitato la nostra casa. È lei che ora ricorda le persone che sono morte e che lei ha accudito: sempre le prozie. È ancora lei che dice che ora il personaggio, l’io, Elvio o Stelvio che sia, è lontano, ma un giorno tornerà. E non sarà più il ragazzone che piangeva sotto le finestre di casa quando a 36 anni ha dovuto lasciare tutto quello che amava e che per lui era tutto ciò che di degno e di onorevole aveva conosciuto nella vita.

 

  • Questo libro, lettore esimio, è una specie di “concept album”, o un poema, anche se molto carico e non sempre omogeneo. Ma l’omogeneità ho cercato di evitarla a favore della realtà, che ho cercato di fare entrare in dosi massicce. Il percorso concept è l’entrata nel mondo, l’abbandono delle certezze dell’adolescenza e della prima giovinezza. Un percorso di iniziazione al male del mondo, all’esistenza come condanna, con la sfida di non perdersi, che alla fine sembra riuscire.

 

  • Lettore, non scordare la questione del tempo: sia quello “mortale”, sia il quotidiano, sia il metafisico, ovvero l’eternità, con la quale la nostra vita, riuscita o fallita che sia, deve fare i conti. Io sono credente, ma non mi nascondo che la vita umana è soprattutto tenebre.

 

  • Mi chiedi di Leopardi, giusto lettore. Ebbene: mi ci sono laureato e addottorato. La tesi di dottorato è una lettura cognitivo-comportamentale di alcune prose autobiografiche dello Zibaldone. Leopardi è sempre presente nella mia poesia, insieme a Dante, che dà l’intonazione a parecchi incipit di poesie…

 

  • Le generazioni, amabile lettore… Che non vanno e non vengono, come vorrebbe l’Ecclesiaste. Io vedo una discesa, una flessione netta tra la generazione dei miei nonni, nati tra il ‘12 e il ’22 e i loro figli, che in Italia si sono divorati tutto, hanno fatto la grande abbuffata ai danni dei loro figli, non lasciando quasi nulla, né come eredità morale, né come possibilità materiali. Te la passo col beneficio d’inventario. Forse sono condizionato dalla mia situazione familiare, ma ho idea che non sia poi troppo lontana dal vero, questa mia “opinione”…

 

Non so cos’altro dire, caro lettore, forse ho detto fin troppo. Spero che questo “papello” ti sia in qualche modo utile, quando leggerai il mio libro, del quale ti presento di seguito un ampio estratto. Perché so che se lo desideri, questo libro ti raggiungerà, in un modo o nell’altro, e tu lo leggerai e forse amerai lui e un po’ anche me.

Stelvio Di Spigno

 

L’eredità

 

La parte ingenua di me che è andata a dormire

sotto i vostri occhi e capelli rimarrà per sempre

intatta, nessuno le toccherà i garretti, sia che fosse

una iena, un’aquila, una civetta che rumina

testate nucleari o qualche altro animale dalla pelle

di topo e dal cuore da eroe. Ma dalla vostra mente,

i vostri figli sono divisi. Ilario ama il padre,

Elvio la madre, e dentro di loro voi lottate

con rumore di ingorghi assassini, e con ceselli

d’oro mettete paletti e confini, li disunite

dall’interno, li fate piangere e pendere

dalla perdita di voi o da un vostro sorriso.

 

Allegrezza castrata è la madre di Elvio.

Un molare penzolante è il padre di Ilario. Sopra

le teste di questa famiglia di quattro

guerriglieri fatti a strati si muovono

indifferentemente cieli e contrade, quotidiani

con notizie di governi e armi a canne mozze,

per questa guerra il cui premio è dolore,

tristezza, rimpianto, spargimento di pezzi

d’identità dentro badili ardenti, in una bella

campagna d’estate come quella

che sovrasta e incenerisce casa nostra soltanto.

 

 

Napoli rivisitata

 

Forse hai capito quale festa ti dà gioia,

se Ognissanti o Natale, mentre previeni

il vento ottuso del porto, con tutti

quei presepi di barche e budelli,

e fuori c’è l’aria secca dei palazzi, e sembra che il Vesuvio

bruci elettricità nell’atmosfera: un giorno

andammo con mio nonno a leggere le pietre

nella grande vasca della stazione,

e su di loro c’era un volto napoletano.

 

Città di fame immonda e solo da guardare: oggi

lavoro lontano, non posso vederti invecchiare,

hai un saluto per tutti nelle tue asole bollenti,

e passi in umiltà senza domandare

che i tuoi arrivi siano scaltri la sera, che si disfi

quella mole di infamia che ti fa nera, che una mano

infili nel fitto dei tuoi vicoli una riserva umana

di latte impiantato tra colli e caserme.

 

Ogni volta che hai pianto ti ho visto

perdere a dadi ogni verginità, e come

se fossi una madonna abbandonata

in una delle mille edicole di quartiere,

ho cercato la tua essenza da amare

dentro un barattolo di complimenti a ore,

sapresti regalarmi ancora un po’ di castità,

fermarti dove si passa dal diluvio alla sciagura,

essere in tempo per salvare ancora te

dalla tua storia e insieme prendermi e farmi

ancora tuo, come quando ero

uno dei tuoi fantasmi arroventati.

 

 

Senza vergogna

 

Dove abitavamo un tempo, accasati

e incantati, io, i miei nonni, mia madre,

mio zio – è passato molto tempo e il luogo

non è cambiato. Specchietti per le allodole,

noi, cristiani di inizio millennio con fantasia

ridotta al grado zero del desiderio, non

ne abbiamo mai inseguiti – e ne andiamo fieri.

 

Il tempo è l’uva maturata nella campagna

che dà sul viale. Il tempo è quando mia madre

mi aspetta il venerdì. Quando mia nonna

rimpiange la sua infanzia da orfana. Quando

mio zio porta fiori freschi in casa.

 

Eppure, quando torno dove sono nato,

vedo treni come casseforti in movimento

che mi rimpiangono come un selvaggio.

«Uno che non si è mai mosso», dicono, «come si fa

a dire che ha vissuto»? Giusto. Come si fa.

 

Si fa che sono uno che non viaggia. Che i motori

li ho sempre tenuti sotto chiave. Troppa paura

di perdermi, troppa fisicità nell’aria

che non conosco, troppe donne, troppo impulso

a buttarmi via, troppa paura di dispiacere

chi mi ama, troppo rossore nel capire

che in fondo il meglio del pasto

arriva sempre all’ultima portata.

 

Avrei vissuto su una palafitta, ma non sono

un etrusco. Avrei voluto una casa in montagna,

ma amo le cene romane.Vorrei vivere poco,

ma dopo mi resterebbe, seppure in Paradiso,

troppa curiosità. Sono tutto e il suo contrario,

l’arte di tenermi insieme è più difficoltosa

dei primi gorgheggi quando studi canto.

 

Ma intanto passano i treni e gli anni.

Io ricordo tutto e niente. L’altra domenica,

però, quando ho visto i nuovi quindicenni

che hanno preso il mio posto nel coro

della chiesa, sono uscito dal sagrato, ho finto

un malessere, mi sono appartato e, lo dico

senza vergogna, ho pianto le peggiori lacrime

dai tempi del primo vagito.

 

 

La campanella

 

Puntello giorno e notte in un’ombra diseguale,

le mani tremano, da un alito di vento a un tumulto

della costa è un niente, il tempo di un vizio e di un addio,

la candela si scalda e il mondo trema,

io vedo questi piccoli, Luciano, Roberta, Ilenia,

il loro travaso dalla casa alla scuola, l’apparire

per loro del caos mattiniero, l’abitudine al caffé

che non hanno, piccole chele che si muovono

sotto la lente del potere, l’insegnante che li guarda.

Ripenso al mio liceo, a Palazzo Cariati, a un’aria

di promessa mattutina quando alle vetrate

tutta Napoli era in ginocchio e viva, morente

e luccicante, come ogni città nel suo divampare…

 

Ma no, era solo mia, tra il chiosco e il campo

di basket nessuno poteva circolare, se non una grande,

infinita volontà di essere in lei, guardarla, goderla

come propria, questa metropoli quattordicenne,

nessun errore poteva allontanarla, era lì ogni giorno,

era per me ed era nel sangue, arrivato il pulmino

si scendeva, si faceva colazione con milioni

di anime che latravano e io, protetto e quasi vero,

passavo il tempo amato, nessuna minaccia, la campanella

amica, l’anima nascosta in un panino, il portiere

che apriva in anticipo, io che guardavo lontano.

Lontano è quel tempo arrivato fin qui. Finita la speranza,

in un momento nuovo devo prendermi cura: Luciano

coi suoi ricci, Roberta la più bella, Ilenia che ride,

devo pensare a loro, rifanno il mio destino, non

posso scomparire: un giorno l’avrei fatto, ora non c’è

più scampo per i ricordi infranti, tutto succede in un attimo,

siamo qui per questo, perché accada ciò che non doveva.

 

 

Trenodia per Amelia e Velia

 

Il mio rifugio sono le vostre mani. Sono cresciuto

dentro il vostro cuore, come tra muscoli immortali

di voi, che immortali non eravate. E ora che siete

sotto la torre della terra e dei ricordi, io non vi chiedo

di tornare, come pure sarebbe normale. Ma che luce

guardate, com’è il vostro pane lassù, a che ora

vi svegliate la mattina e se pensate a noi, ogni tanto,

perché non siete più del mondo e chissà se vi è

permesso ricordarci, come noi facciamo sempre,

con la veste scura anni ’50, le collane e le perle

delle feste e i vestiti del lavoro, conservati

nell’armadio a casa vostra. Vi cerchiamo, preghiamo

per farci degni di voi nelle baite celesti,

come quando monta il mare la mattina e avvicina

le ondate al frangiflutti e la strada sembra asfittica e

noi in auto impariamo che il mondo è uno e basta.

Per i vivi e per i morti, voi ci rassicurate

che il senso di tutto non può essere la fine,

che un giorno ci vedremo sotto un albero che canta,

quando toccherà a noi varcare la porta più agognata,

dove ora voi stendete, come tende o ricami,

il colore più puro del cielo, il volere santo di Dio.

 

 

Il pranzo dalle zie

 

Sapere che non verrò più da voi,

come facevo ogni sabato a pranzo,

ai tempi del liceo, ma anche prima e dopo,

fino a quando zia Velia scappò via

e divenne una lavagna del cielo,

ancora mi rende schiavo dell’amore

di rivedervi nella vostra casa,

con la radio, il telefono, i parati,

tutti comprati o abitati da almeno cinquant’anni;

e quanto era forte il laccio che ci univa,

lo scopro ora, quando il sabato mi sveglio

contento perché so che da voi devo venire,

poi mi concentro, il sonno lascia la mente,

ricordo che non c’è più la casa,

che voi siete in paradiso e nei ricordi,

e mi viene da piangere e vorrei

salire le scale e vedere cosa provo,

adattarmi a stare senza voi, ma non riesco,

allora tento di capire il perché del tempo,

e perché due angeli come voi

hanno lasciato sola la mia vita

a disfarsi, a dirimere la quantità

di giorni che separa la vecchiaia di tutto

dal mio presente di oggi, la nicchia

sterile dove vivo e dove ricordando

quanto è stato bello avervi accanto,

faccio di me un breve dirottamento

fino al vostro caseggiato,

e torno al mio peccato di un essere solitario

che si chiede quanto ancora ha da patire.

 

 

La bandiera di Vittorio

 

Da piccolo mi facevi vedere

la metà del cielo che è andata a riposare

nelle Americhe dei soldati partigiani,

quelli che vinsero la guerra per noi, poi

mi fischiettavi il silenzio militare, imparato

da giovane, e io mi addormentavo

come ogni bambino che si sente sicuro,

perché c’eri tu a fare da guardia; tenere lontano

gli incubi, poteva solo la tua grande mano,

che ha stretto 92 anni di vita e una sola morte,

arrivata nel tempo che a te più piaceva,

il 31 di luglio, quando si stava già da un mese

nell’adorata Gaeta. Ora io ti penso in mille

modi: il vuoto che hai lasciato è un oceano

di sangue e lacrime, e proprio non si asciuga,

e nemmeno potrebbe se anche lo volessi.

Cosa fa un morto accanto a un giovane?

Gli ricorda la strada da seguire, specie se come me

si perde, non fa testo, non riesce a vivere

di suo. E allora ecco che ricompari: ti metti

dentro, mi fai l’eco, ancora fischi motivetti cari,

giurandomi che sto vivendo, che ne vale la pena,

che oltretutto non c’è scelta, e io faccio ciò che vuoi,

mi stringo a te piangendo, scrivo una poesia,

prendo il cibo a cui tenevi tanto e lo riporto

più vicino alle mani, perché non si perda

neanche una parola, e il ricordo, anche se sacro,

mi faccia andare avanti con te come bandiera.

 

 

Via Cupa del Principe

 

dove sorgeva la vecchia chiesa del Reverendo

Biagio Delle Cave (1922-2010)

                                              

                           per suo merito oggi ricostruita

 

Il mio bisogno di te è ogni anno

più immodesto, fa la voce più dura,

come un vortice, scavalcando immagini

«di eternità in eternità», come diceva Neemia:

il tuo ufficio, la sacrestia, la tua risata

che spalancava ogni cosa, come si potesse

vivere veramente e vivere bene, e ogni anno

vedo la tua chiesa, dove la gioia era canto

a gola aperta, la rivedo ma dal treno, o in auto,

senza saperci entrare, come non fosse reale,

come se tu, dopo averci lasciato, non fossi

ancora un architrave nella mente, nel modo

che ho di spegnere il male se lo vedo,

e più a fondo vado, più male fa sapere

che oggi niente si avvicina al tuo viso,

al tuo essere te stesso così indiviso,

come un giardino di dolcezza indicibile

dentro ogni mia vena.

 

Ora sei nel cielo limpido e pulito

di una giornata come tante qui ad Anzio.

Ho perso ogni traccia d’innocenza,

è stata la partenza o la macchia che portiamo

tutti dentro dopo che la grandezza

ci ha sfiorato e poi è fuggita. Tu mi dici che cosa

valica il tempo: l’amore, sotto forma di amicizia,

la pietà, come di fronte a un paesaggio

che dall’infanzia si è fatto inconsistente,

persino il perdono, così grande

tra le tue braccia di prete, che forse

un giorno ho meritato, prima che l’ultima

tua candela si spegnesse, finché

sei stato tu a fare da breccia accanto a me,

tra gli errori e le nebbie di sempre.

 

 

La strage di Filippo

 

Per Filippo Viola (1980-2005)

 amico fraterno e indimenticato

 

Vasta e signorile la tua presenza,

in calde limature di paesaggi periferici,

la faina, la mantella da mettere

per la scuola o di sera

dove tutto è distrutto quello che è ammontato,

 

abbiamo tutti dimenticato

com’era possibile starti accanto

e non temere, non essere addirittura

stanchi e volatili per te,

che non hai trovato posto in questo mondo.

 

L’alba ride come allora. Le auto fumano oppio

acidulo, candido sudore, come quando

tornavamo a casa a notte alta,

dopo una festa-riunione in qualche lupanare di stelle,

dopo molto alcol, molti sogni, molti cantari di sesso,

era tutto di noi, per noi, con noi. Era. Allora.

 

Treni saltati come denti,

in cui ora sparisci e mi dici a un orecchio

«sarebbe bello esserci ancora».

Ma da dove mi parli,

da quale scantinato o divano perforato,

cielo empireo o fuoco del Pireo,

non so più dire dopo averti

perduto così completamente.

 

Resta solo ciò che è detto. Resta che

ero io al primo posto nel tuo cuore

a forma di croce.

Quello che hai sofferto si è fatto di noi,

e ogni nuova parola

è menzogna a chi la dice.

 

Fraterno Filippo, il non avuto mai

porta le stimmate del tuo sangue ventenne,

perdona se non ci sono stato

mentreindietreggiavi e di lato morivi,

perdona che il tempo non si sia fermato

alla sola felicità del tempo andato,

 

se puoi abbi un pensiero per me, come io per te

continuerò l’espiazione, mentendo alla ragione

sul tuo folle volo, audace come il vecchio Ulisse,

perché finisse esattamente il tuo dolore, per sempre,

da un balcone di Scampia, in un applauso veggente,

di morte ustoria verso un sole perenne.

 

 

Contabilità infinita (Annum per annum)

 

Gli anni mi si siedono davanti.

Sui sandali, vestiti da padroni.

Parlano.

 

Ci hai portato a palazzo, ti abbiamo vaccinato,

come un pezzo d’avorio infarinato

di segale ferrigna e minestra di dolori,

e noi a farti da balia, perché non ti perdessi,

mentre tutto era contato, era meno di niente, e tu

squadernato di smanie, senza frutto, senza onore,

una scopa col manico di sale.

 

Hai vissuto in stratosfera, hai muggito

credendo a ogni fuoco castrato in desiderio,

e  il tuo tempo, smisurato, fu una fede

messa al dito per dispetto, l’hai pestato

nelle corse di notte, con le donne degli altri,

con le droghe e le toghe di cui si veste chi èdoloso.

 

Ora vengono i treni pieni d’altri messi male:

l’odore di vergogna, il sudore del paesaggio,

cemento dentro e fuori, l’inferno incatenato

momento per momento. Dappertutto,

un diamante sfiorito nel suo osso.

 

Ecco cosa ripetono i miei anni.

 

Non posso rinfacciare. Non ringrazio, non ho vita

da opporre alla fatica. Solo che non duri

il silenzio di quanto mi ha scaldato. Che il teatro

non mi resti sulle spalle senza attori.

Che non debba mangiarla fino in fondo

l’ortica che ho piantato sui miei passi.

E che Dio, in eterno, mi perdoni.

 

 

Il treno per Sezze

 

Nella teoria del verde dopo il verde,

arriva questo treno che batte ogni paese:

Sezze, Fondi, Itri. Campi, bestiame, cimiteri.

 

Si riavvicina pericolosamente

al golfo di Gaeta che ci attende inutilmente:

cose e persone che sono ormai ricordi

s’infrangono nel sole, e ogni inizio è una fine,

questo dicono i tempi, bagagli alla mano. Orologio mortale.

 

Lo sanno gli alberi che questa è una malattia.

Lo dicono i parchi che siamo già scaduti.

Persino il giornale a questa vista dolorosa

si fa più piccolo mentre salgono i pendolari.

 

Il bruco del treno ritorna nel presente,

nel gorgo della folla e nella pratica del niente.

 

Ma io che baratto volentieri morte a cecità,

rivedo un letto che odora di lavanda, l’anno ’85,

stanze in affitto e la casa di via Filiberto.

 

Nelle notti più atroci tutto prende il colore del sangue,

le pareti fanno un giro intorno all’aria, come le parole.

Quella gonna, quel momento, quell’odore,

il calvario di quell’attaccapanni, sigarette con belle compagnie,

mentre noi andavamo a dormire come altari umani,

rimboccando le coperte al domani:

niente è reale di ciò che verrà dopo.

 

 

Il sabato della supplente

 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento,

e messi in un vasel ch’ad ogni vento

per mare andasse al voler vostro e mio

 

Carte imbronciate, documenti

dalla pelle di fuoco, una che dorme in piedi, ma

sui piedi di un altro. Fascette immacolate

di compiti in classe. Questi sono i giorni del supplente,

prima si farebbe a chiamarlo facchino, ulcera, maiale.

Lei, donna, amava il greco antico. Quest’amore sacrilego

è stato punito. Giorni come ore volano come passeri.

Non un ricordo, non un fiore da parte dei colleghi. E dell’amore

una vaga rimembranza che è meglio allontanare.

 

La vita è tutto un debito. Attorno è terra bruciata.

L’uomo deve vivere, invece sopravvive.

Un sì dopo l’altro, accetta anche la morte,

la Nemica, la Carogna. Una volta arrivava in carrozza

col drappo nero e le orchidee dell’addio: ora

è quasi una liberazione, una libidine solitaria.

 

Restano nel cestello, a fine ora o a fine pasto,

fotocopie di monna Vanna e monna Lagia; lei oggi sogna

una vita normale con un uomo difficile

da capire. Altro che incantatori e barchette

con dentro Dante e il plotone stilnovista.

«Domani faccio la stacanovista. Mi butto

sul lavoro. Così passa più in fretta. Il sabato

chiudo bottega e piango fino a sera».

 

 

Trentasette primavere

 

Dicono che fu uno stillicidio in mare aperto,

il capitano di corvetta Costigliola fu preso dall’Egeo

che goccia a goccia gli instillò la morte

sul viso, tra i capelli, nell’amore, i ricordi, le parole.

 

Mio padre, diviso, piangeva alla televisione. Erano amici.

Mai s’erano ubriacati, né picchiati, ma Silvio lo amava,

lo leggeva, come neanche la moglie, come neanche i figli

epoche ed epoche dopo.

 

A trent’anni la vita si spezza e non si rialza. Lo vedo da me,

coricato in questa clinica per dementi di cuore, per afflitti

da vene in coma e otturazioni di arterie. Dicono: realizzati.

Fatti avanti, fai del tuo, e se puoi, anche del mio.

 

Intendono soldi, successo, amore. Oroscopi delle speranze

scadute tra le mani. Ma qui ci si ferma in tanti,

e non c’è bisogno di documenti per capire

che la speranza è andata in pezzi e che sei ancora giovane.

 

Troppo per morire, troppo poco per rinascere, trasportato

verso il pianto, resta in bocca un sapore

di credenza, di infanzia, di biscotti e lacrime a merenda.

Dobbiamo starci e far sì con la testa, ognuno ammalato

di destino, con una crepa al centro della festa, tutti

affondati nell’Egeo nel mezzo del cammino.

 

 

Il distacco

 

a T. C.

 

Hai coperto bene la paura con l’assenso,

il bruciore di un osso con una cavità entrante

e mancante nella mente, mentre spiegavi

e rispiegavi che non era il tempo, quello, buono

per l’innamoramento e intorno c’era già fruscio

di ricci e castagne e foglie di platino adamantine,

su tutta la strada ragionammo su come salvare

un amore che voleva cominciare, in mezzo

alla plastica e al niente io vedevo il tuo vestito,

il suo colore di rifiuto, le mezze scuse, le mani

che battono sul volante, e tu mi chiedevi

di uscire, di non farti del male, ma da una

vastissima distanza, una danzante valle distesa

ormai tra due silenzi, tra una fine decisa, tutta

di metallo, sentivo il freddo delle tue parole

dall’anima fino alle gengive, e questo solo

è il mio ricordo: non hai portato via niente.

 

 

Notizie dall’estate

 

Fuoco nell’aria mista a sale e a corpi terrestri

e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l’auto

per Gaeta, Formia, Minturno. Una curva presa male

e ti ritrovi a Napoli o su una croce. Tutto sa di altro.

Ovunque luoghi troppo cari per passarci l’estate.

Troppo inutile l’estate per passarci la vita.

Dove i miei cari pendevano verso il fresco del mare

ora negozietti e rent car. Fine delle trasmissioni,

con la camicia sbottonata, cerco di essere

invisibile come loro, ma la parete della morte

non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall’altra

parte, non so se partire, restare, pregare

per una vita breve. Estate benedetta, che mi riporti

dove tutto è cominciato. Agosto torrenziale,

che mi fai vedere a figura intera i volti, i templi,

i tempi in cui tutto si è interrotto. Fuoco per ogni dove,

fuoco su di me. Sparate pure, non mi prenderete.

Non ancora, tra le rotonde e le spiagge con nomi

californiani, anche la fine perde l’orientamento.

 

 

Quadranti

 

Quanti fascicoli di luce, quanti sguardi innevati,

e mattine il cui carico è dolore dovrà attraversare

questo corpo corale di tutte

le gioie distrutte, i disamori, le cadute,

 

prima che il tempo di ognuno anche per me

si esaurisca, sulla soglia di casa, o rinculando

con montagne di parole nella mente, guardando

solo il cielo, facile da vedere qui da Anzio,

 

quando, per non odiare gli uomini, storci il collo,

distrai gli occhi, punti a caso dentro una stradetta

senza uscita,

 

e i lavori in corso sono la sola certezza

che tutto si riabitua e si riabita,

ma non saremo noi a goderla, la felicità promessa.

 

 

Ultima notte di scuola

 

Continuo a ferirmi ma sanguino in pace,

come la sera della festa della scuola,

non invitato, non avendo ultime classi, passavo di lì,

e c’erano musica, tavolate e torte monumentali

per i futuri cuochi diplomati.

 

Come dire il dolore e l’esclusione.

Come dire l’amarezza e la passione.

Essere il primo dei non cercati e piangere

senza un filo, un grammo di commozione.

Come dire che è così per me da sempre.

 

Ovunque solitudine e sorrisi. Il destino

non cambia faccia e scruta. Cerca la stessa

vittima perché si compia il castigo. Sempre

la stessa preda a incaricarsi la pena.

 

 

Contagio

 

Grotte, spelonche, antri oscuri dove nascondersi

non è peccato né fa rumore. La città impetuosa,

la Napoli delle mille ore felici è lontana, perduta,

senza più sesso né bisogno. Nel luogo dove ora sono,

ancora serpeggia il vespro, il millantato

arpeggio di un’età senza angoscia. Ere geologiche

accelerano, l’uomo-anima non regge più e potrebbe

scoppiare, baccaneggiare, divampare,

con la dinamite dei pensieri e della felicità

facilmenteconsumata. Venite a me, fontane

dagli antichi chiarori, acque verdi di fosforo,

baccanali dei negozi chiusi all’alba. Fondiamoci

in questa immensità senza sorprese. Chissà

che domani non sia il nostro turno

di risorgere o lasciare per sempre

questo mondo a chi ha talento meno imberbe

per giorni capaci, sogni amici, fedeltà non

infrante, canzoni di risacca e solitudine

per sempre rimbeccate da una mano più lieve

di santità e d’amore,

nel mare abusato delle foglie morte, in novembre.

 

 

Elegia locale

 

La bella di Francia che scende

sul predellino del litorale celeste, incatenata

a questa scorza di Vindicio, che lo sguardo dei vecchi

vendica, con amara solitudine verbale in consultorio,

per la boria che hanno di mangiare, se potessero,

anche i cieli e i cherubini come a Sodoma,

a Napoli o a Kuala Lampur, nel fuoco di Indonesia.

Non passeggiate, non guarite

dallo sguardo materno, bambini-dèi sulla giostrina

di Caposele, sull’altalena dell’Olivella. Domani

toccherà a voi inanellarci a un altro predellino

dal quale scendere in preda a convulsioni

per il troppo sperare di essere presi al laccio

da tutta questa bellezza e farne parte, come il danaro

si fa presto a dire in banca, un faro scollinante

diventa subito giudizio, un’allodola

morta su una cabina non diventa che una tolda

da dove parte, in un tripudio di braccia e di campane,

il mio, il vostro, il-di-tuttiun canto, il canto camminato,

sempre che non disdegni la nuvolaglia a raggiera

che il pomeriggio assaleil golfo di Gaeta.

 

 

Nautica popolare

 

Se l’uomo-nazione porta una città con sé,

allora il gioco è fatto, la creanza stabilita,

i pescherecci possono partire quando la nafta

brucia nei motori e le vele a tribordo fanno

uno sciabordio perché a più nulla servono,

come a niente, se ci pensi, servono gli uomini,

se non hanno nel cuore un luogo eletto,

una patria o nazione immaginaria, dove fuggire

ogni volta che la realtà li asfissia con

i propri confini basilari. Bella gente di mare, voi

non vi bagnate come gli altri quando piove,

viaggiate per il golfo come sentinelle australi,

come me aspettate l’alba di domani

per dire di che salvezza morirete, quanta

facezia riempie le vostre mani e se un senso,

uno qualunque, angelico o animale,

ha torchiato le vostre vite quando erano

tranquille, fatte di lavoro, minestra e bolle d’aria

come l’amore, che al vostro umore decaduto manca

quando non è di Dio il primo innamoramento.

 

 

Visione nominale

 

Era una piega alta nel cielo

arato e notturno di solitudine e tuoni

e pioggia sulle spiagge d’inverno

all’imbrunire, era tutto e solo da capire,

quel vento angusto che non disturbava,

era l’amore, la speranza infinita, la canzone

invalida, estatica della felicità:

era la donna che ti stava accanto, era tua madre

e tuo padre, era mio nonno con la busta della spesa,

il sabato quando don Biagio veniva a pranzo,

la campagna e l’asfalto nella loro lotta, e ora

la fine di ogni cosa nel suo dimenticarsi

di te e del tuo tempo migliore, il silenzio

della casa di Anzio, tu lontano da tutto

che pensi distrutto agli anni del liceo,

il cuore che batte senza un movimento,

il tempo che non avanza di un momento.