Questo è Godot. Come faccio a saperlo? Non ne ho idea, è così e basta. Tutt’a un tratto era qui e ha detto di essere Godot. Ovviamente ho subito dubitato e pensato: Godot, ma è quello che aspettano sempre nell’opera teatrale di quell’irlandese. Loro aspettano e lui non arriva. Vabbè, ma che ci si può fare se uno afferma di essere Godot. Lo si potrebbe accusare di menzogna e d’impostura. Si potrebbe dire che è un poco di buono. Uno che vuole solo fare il protagonista.
Eppure non è il tipo, c’è qualcosa, il modo in cui se ne sta lì con le spalle pendenti, nel suo abito consunto e con quel cappello ammaccato sul capo. Non ha l’aspetto di uno sbruffone, piuttosto di uno che non sa bene che pesci pigliare. Probabilmente si è perso mentre andava dai due tizi che lo aspettano. Era altrove coi pensieri e non ha fatto attenzione a un certo bivio. E all’improvviso si è trovato in un posto che gli era del tutto estraneo. È una cosa che può succedere, e allora non ci si può perder d’animo e bisogna tirar fuori il meglio.
Così pensava anche Godot, e più ci pensava, meglio stava. A un certo punto stava così bene che nulla poteva più nuocergli. A parte tre cose: cani, gatti e la possibilità che iniziassero a piovere cani e gatti.
Godot non aveva neppure finito di pensare questo brutto pensiero che iniziarono a piovere cani e gatti. Dapprima solo due o tre, presto però ne caddero ovunque. Correvano qua e là agitati e scomposti, farneticando di decadimento dei valori o qualcosa del genere. Gli mancava solo questo. Quelle bestie tuttavia dicevano la verità, perché, dopo che furono cadute tutte quante, il cielo si oscurò un’altra volta per sgravarsi poco dopo dei valori. Si abbatterono su di lui come un temporale. Godot decise di non svignarsela subito come usava fare spesso quando le cose diventavano sgradevoli. Così rimase lì e non fece nulla. Ogni tanto beveva una tazzina di tè e mangiava un pezzo di dolce.
Quando il decadimento dei valori fu cessato, Godot rifletté sull’opportunità di prenderne con sé uno o due per aiutarli a rimettersi. Poiché tuttavia non poteva esser certo che ci sarebbe riuscito, lasciò perdere e prese invece con sé una gatta. Una gatta particolarmente bella, parve a Godot, che perciò la chiamò Ingrid. A volte la chiamava anche Marianne o Sigrun. Per lo più, tuttavia, non la chiamava proprio.
Da quel momento in poi i due fecero un pezzo di strada assieme. Qualche ora, si può supporre, o forse anche giorni o settimane, chi può saperlo con esattezza. A un certo punto comunque non andò più così bene come all’inizio. La crisi iniziò quando Godot insistette a non voler più avanzare a quattro zampe. E ne aveva abbastanza anche del cibo per gatti, gli usciva dalle orecchie. Così avvenne ciò che sempre deve avvenire in casi come questo: Godot mandò la gatta a comprare le sigarette e non tornò più indietro. Si sedette anzi su un ciottolo ed elaborò un po’ di lutto. Allo scopo si servì di due assi di legno marcio che dispose distrattamente una sopra l’altra, ed ecco già una croce. Con un gran gesto vi incise la parola INGRID, se la caricò in groppa e proseguì il cammino. Tuttavia non fece molta strada, poiché poco dopo gli si parò davanti un giovane dai lunghi capelli a matassa che pregò Godot di dargli la croce, offrendogli in cambio lo stivale destro a punta ricurva di una scimmitarra.
A Godot l’offerta parve adeguata, così lascio la croce allo sconosciuto. Come si narra, sembra che in seguito egli ne sia morto, ma questa è un’altra storia. Sarebbe invece interessante sapere da dove salta fuori la scimmitarra con il suo stivale destro a punta ricurva, non trovate?
C’era una volta una pecora, la quale aveva una scimmia che amava sopra ogni cosa e cui leggeva negli occhi ogni desiderio. Se la scimmia voleva un tronchetto farcito, la pecora gliene preparava uno con i più bei tronchi dei dintorni. Se voleva una chiave a forchetta, la pecora le procurava una chiave e una forchetta, così che potesse combinarle a suo piacimento. Un giorno la scimmia ebbe un desiderio particolarmente stravagante.
“Voglio scarpe che diventano rosse quando sorge il sole e blu quando sparisce!”
Hm, pensò la pecora. Questo è proprio un desiderio stravagante. Dovette lambiccarsi per capire come soddisfarlo. Aveva letto da qualche parte di quelle scarpe così insolite. Appartenevano a un re di un paese lontano, che le aveva rubate a un altro re di un paese ancora più lontano. Quella storia era finita in modo assai disgustoso con molto sangue e pastina in brodo. La pecora fu scossa al solo ripensarci. E mentre così si scuoteva, a un tratto le cadde dall’occhio una lente a contatto.
Ma guarda te, pensò la pecora. Una lente a contatto. Oggi non se ne vedono mica più tutti i giorni.
Non fece in tempo a pensare quel pensiero che la lente a contatto era già bell’e dimenticata. Già, la pecora è fatta così. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. E cosa faceva nel frattempo la scimmia? Si annoiava e giocava un po’ a calcio. E mentre lo faceva inciampò e cadde di faccia. Si mise a urlare in modo spaventoso. “Ahi, che male!” urlava. E a volte: “Che male, ahi!”, secondo quel che le pareva meglio. Presto però si annoiò anche a far questo e si rialzò in piedi. Andò dalla pecora, che sedeva in un angolo e rimuginava sulla scarpa.
“Ehi, amica”, disse la scimmia alla pecora. “Mi sto annoiando, comprami un gabbo!” La pecora alzò gli occhi stranita.
“Un gabbo? Che roba è?”
“Un gabbo è un gabbo!” disse la scimmia ostentando uno sguardo saccente.
“E che ne è delle scarpe che diventano rosse quando il sole sorge e blu quando sparisce?”
“Ah, quelle”, la scimmia fece un cenno di diniego. “Quelle sono cacatine da bambini. Comprami un gabbo!”
“Ok” disse la pecora. “Allora parto.”
Così disse e partì. Per mari e monti, borghi e valli, a rotta e di collo. Fu un viaggio molto lungo, almeno per le sue abitudini. E durante quel viaggio visse ogni sorta di avventure, si sposò due volte e due volte divorziò. Poi comprò un gabbo e ritornò dalla sua scimmia. Ma quella ne aveva già uno e non gli interessava più. “Non mi interessa più” disse arrogante.
La pecora era triste. Scrisse canzoni malinconiche che poi eseguì con la chitarra. Così divenne ricca e famosa e ricevette molti premi. La scimmia ne ebbe notizia e si pentì di quel che le aveva fatto. Andò da lei e si scusò.
“Oh, lascia stare,” disse la pecora. “Eccoti un po’ di soldi, comprati qualcosa di bello.”
La scimmia ringraziò compitamente e tolse il disturbo. Con i soldi si comprò un paio di stivali dalla punta ricurva e con quelli si mise a scimmiottare a più non posso la capra con la chitarra. Per questo da allora in poi fu chiamata scimmitarra.
Fu così che andò.
[Tratto da: Marion Brasch, Die irrtümlichen Abenteuer des Herrn Godot, Voland & Quist 2016. Traduzione di Stefano Zangrando. Le illustrazioni sono di Matthias Friedrich Muecke]