Il ventesimo secolo ci ha lasciato un’eredità poetica straordinaria quanto ingestibile. Se ne siamo eredi è solo per ragioni cronologiche, non perché ce ne sentiamo veramente degni. Le avanguardie storiche, l’espressionismo, il modernismo, le neo-avanguardie, il rinnovamento dell’epica, la lingua lanciata verso l’ubriacante libertà dal referente, lo strutturalismo sempre seguito a ruota dal neo-orfismo, sono stati progetti di “ingegneria poetica” non diversi per ambizione dai contemporanei progetti di ingegneria sociale che scuotevano i continenti. In entrambi i casi hanno dato luogo a trionfi e ad orrori, ma il punto fermo, almeno per quanto riguarda la poesia, è stato che l’attività poetica si configurava come un progetto totale, una rifondazione del mondo, seguendo analoghe progettualità passate, incluse le cosmiche utopie rinascimentali o l’aristocrazia delle lettere propugnata dall’Arcadia.
Ciò che è cambiato negli ultimi trenta-trentacinque anni (indicherei per l’Italia la scomparsa di Pasolini come spartiacque) è che abbiamo fatto esperienza, e la stiamo facendo tuttora, di una poesia senza progetto. Da quando, nell’alto Medioevo, la poesia occidentale iniziò a darsi un’identità post-classica, non si era mai verificato ciò che oggi abbiamo sotto gli occhi, e cioè che si scrive, si pubblica e si legge poesia senza che il fare poesia o l’essere poeta sia al centro di una visione del mondo. Così come è stato ipotizzato da fantasiosi filosofi della politica un “comunismo di chi non ha niente in comune”, allo stesso modo la mancanza di progetto è l’unico progetto che i poeti di oggi hanno in comune.
È una constatazione, non un giudizio negativo. La poesia non è un ideale cumulativo e non è obbligata a progredire. È nata con Omero, e da quelle altezze non poteva che scendere. Ma è vero che oggi, anche quando viene invitata sotto i lumi della ribalta, non ci vuole molto prima che il suo tempo scada e le venga mostrata la porta di servizio. La prassi identificata per millenni con la potenza sovrana del linguaggio si trova così ridotta a un articolo esposto come tanti altri sugli scaffali della cultura, e non certo in posizione di richiamo.
Avere un progetto, sia chiaro, non è una garanzia di successo. Leopardi aveva visto bene che il progetto della poesia moderna coincide con il suo naufragio. Ma infatti l’assenza di progetto poetico non coincide con il naufragio della poesia. Al contrario, l’attuale assenza di progetto implica precisamente il rifiuto di esporsi al naufragio, la pervicace volontà di stare a galla nonostante tutto, di farsi amare, adulare e premiare rifiutando la benedizione dell’annegarsi.
Da un lato, la poesia senza progetto ha generato il poeta senza la poesia: corteggiato in quanto simulacro della poesia, invitato, intervistato e incoraggiato a leggere in pubblico poesie che non sono state scritte per quello scopo. Dall’altro, la poesia senza progetto ha generato la poesia senza il poeta: poesia intesa come programmazione culturale, buco (poco costoso) da riempire, collana da iniziare, desiderio diffuso che la poesia ci sia e che avvenga, anche in assenza del poeta.
Queste situazioni convivono impossibilmente, ma convivono. I poeti ormai hanno imparato a passare dall’una all’altra con relativa facilità. Si lamentano molto, ma in realtà se la passano meglio che in passato, ed è questo il rischio maggiore che stanno correndo, perché sopravvivere senza un progetto significa rinunciare all’immaginazione. Il progetto della poesia non è il classicismo o il modernismo, la conservazione o l’avanguardia. L’unico progetto della poesia è l’immaginazione.
Luzi, Caproni, Sanguineti, Giudici, Zanzotto, per citare gli ultimi poeti che ci hanno lasciato, sono stati capaci, magari non sempre, magari solo in alcune fasi (ma anche un solo libro, anche una sola poesia perfetta è sufficiente a giustificare una vita) di creare un universo nel quale anche qualcun altro voleva entrare. Dopo di loro, con rarissime eccezioni, la poesia italiana (ma non solo) ha gettato la spugna nei confronti della “cosmopoiesi”, della creazione di un mondo integralmente interrelato, linguisticamente, tematicamente, e immaginalmente.
A ogni nuova tendenza che si affaccia, solo per essere scalzata il giorno dopo, percepiamo sempre di più che se il tempo della poesia, come molti direbbero con compiacimento, “è finito”, in realtà è finito proprio perché potrebbe anche non finire mai, perché potrebbe continuare così com’è precisamente all’infinito, mentre la poesia ha bisogno di limiti, di paletti di confine, di territori, di demarcazioni. Qui ci sono io, qui ci sei tu. Questo è il mio mondo, questo è il tuo.
Ma siccome detesto le lamentationes insistite propongo in tutta fretta una “via”, un “Tao della poesia” in tre tappe, una teoria pratica dell’immaginazione. Innanzitutto occorre una “conversione alla poesia” anche da parte di chi già scrive poesie. Il momento in cui Dante abbandona la stesura del Convivio e inizia la Commedia rappresenta la sua conversione, non a Dio ma a Beatrice, che è il nome che Dante ha dato alla sua immaginazione, alla sua forza poetica (alla sua “anima”, nel senso junghiano del termine), perché il poeta immaginativo è prima di tutto colui che dà nomi, che chiama e fa vivere chiamando. La conversione alla propria forza immaginativa implica che da quel momento in poi niente verrà scritto che non sia un atto di devozione alla propria immaginazione.
Parallelamente alla conversione deve agire l’estroversione. Coincide con il momento in cui il convertito inizia a pronunciare le preghiere della sua nuova religione, e a predicarla con le sue parole. Convertirsi non basta, bisogna testimoniare. Ma bisogna testimoniare la conversione. Petrarca testimonia molto, ma non si converte abbastanza. La sua conversione a Laura è meno rischiosa di quella di Dante a Beatrice. Petrarca vuole sempre lasciare aperta una via di fuga, farcendo intendere che potrebbe anche pentirsi, anzi certamente si pentirà di avere creduto così tanto nella propria immaginazione. Ma la conversione vera è senza ritorno.
Il terzo livello è l’incarnazione. Come il dio che si fa uomo, l’immaginazione si fa personaggio, creatura, e insieme crea il proprio creatore. Dante è sempre presente nella Commedia, ma come prodotto della sua stessa immaginazione (come prodotto da Beatrice). Shakespeare va persino più in là. Si elimina totalmente, è già da sempre convertito, e quindi già da sempre incarnato nei suoi personaggi. Se anche entrasse nel suo dramma e si mettesse a discutere con Amleto, darebbe unicamente vita a un personaggio che per caso si chiama Shakespeare anche lui.
Nessuno dice “io” più di Dante, nessuno dice “io” meno di Shakespeare, eppure entrambi mostrano, come due soli ai lati opposti di un’immensa ellisse, l’estremo dispiegarsi dell’immaginazione poetica, un potere che la poesia futura dovrà riconquistare a qualunque prezzo, se non vorrà vivere la morte di chi non vuole mai morire.
[Tratto da I poeti sono impossibili. Come fare il poeta senza diventare insopportabile. Seconda edizione accresciuta, Sossella 2016]