Il primo romanzo di Giacomo Sartori, pubblicato da Il Saggiatore nel 1999, Tritolo, è ambientato tra le montagne dell’Alto Adige, dove si aggira un misterioso assassino che uccide coppie di lingua italiana, e che ha per protagonista Thomas, un giovane affetto da disturbi psichici. Col secondo romanzo, Anatomia della battaglia (Sironi Editore, 2005), siamo sempre tra le montagne, ma stavolta nel Trentino; un romanzo di forte introspezione psicologica ma anche politico, in cui il protagonista s’interroga sulle sue scelte, politiche ed esistenziali, e ripercorre la storia della propria vita, in particolare dopo che il padre, con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale, si ammala di cancro e conduce la sua strenua battaglia contro la morte. Con Sacrificio (peQuod 2008) siamo ancora in Trentino, in una vallata isolata dove vive un gruppo di giovani che progressivamente andranno incontro all’autodistruzione e di cui Sartori mette in scena il vuoto umano e culturale che li segna; viene fuori il ritratto spietato di una realtà di provincia, reso vivido e credibile da una lingua asciutta che dà corpo agli ambienti narrati e ne rende palpabile lo squallore. Con Cielo nero (Gaffi 2011) ci spostiamo a Verona, nel 1943, dove, nel carcere degli Scalzi, è detenuto Galeazzo Ciano, considerato un traditore dai fascisti della Repubblica di Salò e che diventa protagonista di un romanzo cupo; non tanto un romanzo storico, come i fatti e l’ambientazione lascerebbero suppore, ma uno scavo nella psiche del protagonista, che è poi la cifra caratteristica di Sartori. Ritornano le atmosfere alpine, con un viaggio avanti e indietro nel tempo – tre storie di donne in tre diversi momenti storici: 1627, 1978-1979 e 2012 – con Rogo (Carta Canta 2014), un romanzo anch’esso tragico, come il titolo stesso lascia presagire, tre storie di maternità che bruciano nella sofferenza. Col recentissimo Sono Dio (NN Editore 2016), invece, siamo ben lontani dalle atmosfere tragiche dei precedenti romanzi, basti dire che protagonista e narratore è addirittura Dio. Al suo sesto romanzo, Giacomo Sartori, ci regala un libro davvero insolito sia per la sua produzione, solitamente drammatica, che per il panorama letterario italiano; un romanzo piuttosto francese (ricordiamo che l’autore vive a Parigi ma è nato a Trento), perché vengono in mente i romanzi filosofici degli illuministi, dove la narrazione è sostenuta dal continuo argomentare e interrogarsi, e anche la comicità che lo attraversa ci riporta a quell’ambito. Ma viene subito in mente un suo parente italiano che a Parigi ha vissuto anni di lunga formazione, Italo Calvino, non solo quello delle Cosmicomiche, cui certo lo apparenta il punto di vista straniante, ma anche, e forse maggiormente, l’autore di Palomar, un libro tutto costruito sullo sguardo, sull’indagine dei comportamenti umani attraverso dubbi e domande ossessive, un’indagine, tra l’altro, comicamente fallimentare, come fallimentare si rivelerà il tentativo, anch’esso comico, di Dio di capire gli uomini. Un Dio che perde la sua onnipotenza per assumere la fragilità umana, a cominciare da quella linguistica, costretto a trovare parole spogliate del loro significato figurato o da quello usurato dai luoghi comuni. Dio si accorge che a voler parlare come gli esseri umani, si rischia di nominare cose che hanno perduto il loro senso. Da qui una serie di situazioni comicamente assurde che permettono all’autore di evitare il rischio di blasfemia, dal momento che bersaglio delle sue invettive sono gli uomini e non Dio. Tutto il romanzo ruota attorno ad un capovolgimento: non è l’uomo ad interrogarsi su Dio, sulla sua essenza ed esistenza, ma Dio stesso che s’interroga sulle sue scelte e sui comportamenti umani. Ne esce fuori un Dio profondamente insoddisfatto di sé e degli uomini, un Dio che vorrebbe farsi umano e il cui sguardo, già dalla prima pagina è attratto da un curioso personaggio femminile, Dafne, una biologa dalle fattezze post-punk, che vive di lavori precari, come l’inseminatrice di mucche, atea impenitente, continuamente impegnata in amplessi insoddisfacenti, incendiaria di crocifissi e col sogno di violare il sito web del Vaticano. Un romanzo comico, si diceva prima, con punte di assurdo e di grottesco, in cui il pluristilismo è l’elemento che lo caratterizza, passando dall’interrogativo scientifico a quello filosofico, con incursioni nella psicanalisi.
Ho intervistato Giacomo Sartori per entrare nel laboratorio dello scrittore e chiedergli alcune cose indispensabili per arricchire le chiavi di lettura di un libro abbastanza polisemico.
GIOVANNI ACCARDO: Sono Dio è un romanzo comico, sia pure venato di assurdo e talvolta di grottesco, penso alle scene con l’inseminatrice di vacche. Come si spiega questo passaggio da autore drammatico a comico?
GIACOMO SARTORI: In realtà il registro umoristico con venature grottesche è esistito fin dall’inizio nella mia scrittura, e il mio primo libro pubblicato (Di solito mi telefona il giorno prima, Il Saggiatore 1996) è stato una raccolta di quattro racconti comici, ognuno con una protagonista che parla alla prima persona. È vero però che finora l’avevo utilizzato solo per i racconti, ed è la prima volta che l’adotto per un testo lungo. I miei cinque romanzi precedenti sono gravi, e spesso anche un po’ cupi, mi dicono.
GIOVANNI ACCARDO: Qual è stata l’idea germinale? Come ti è venuto in mente il romanzo?
GIACOMO SARTORI: Mi piaceva provare a entrare nei panni del Dio personale delle religioni monoteiste, perché in fondo quello che ho sempre fatto nei miei testi è stato rappresentare la realtà dal punto di vista di un personaggio. E naturalmente immaginare un Dio che utilizza la lingua umana, che è uno strumento che riflette le nostre tare e fissazioni, e assolutamente inadatto per esprimere la perfezione e l’incommensurabilità, non poteva che sfociare in una sequela di situazioni comiche. Però ci sono dietro anche considerazioni riguardo alla religione, nel senso che se c’è un elemento che mi sembra ormai completamente anacronistico, è proprio il Dio personale, o meglio personalizzato. Gli individui contemporanei sono molto diversi da quelli di cinquant’anni fa, e anche il rapporto con la religione è cambiato radicalmente. Ora ogni credente fa di testa propria, creandosi un suo personale credo, non prende più in blocco la dottrina dettata dalla Chiesa. E ormai pochissimi sono disposti a immaginarsi una divinità per molti aspetti antropomorfa, magari con questa o quella peculiarità psicologica. Mi stupisce molto quanto poco si parli di questo profondo mutamento, come di altre questioni fondamentali attinenti alla religione. E anche della crescente domanda di spiritualità che accompagna la progressiva secolarizzazione della nostra società, e che spesso è areligiosa, mi sembra che se ne parli in maniera spesso inappropriata, caricaturandola e sminuendola. In filigrana del mio romanzo, che vuole essere prima di tutto un testo che prende e fa ridere, c’è tutto questo.
GIOVANNI ACCARDO: Quanta teologia c’è? Quanto la scrittura si è nutrita di letture bibliche?
GIACOMO SARTORI: Io vengo da una famiglia atea, e sono ateo, e quindi sono fondamentalmente molto ignorante in fatto di religione, anche se per scrivere questo romanzo ho letto per anni testi di vario tipo sulle religioni e sulla spiritualità. Ma volutamente non sono partito dalla Bibbia, perché la mia voleva restare una narrazione ambientata nel presente, e anche la riflessione soggiacente sulla divinità mirava a restare su un piano generale, indipendentemente dai dettagli di questo o quel testo sacro, e senza riferimenti teologici precisi. Quello che mi interessava era appunto il rapporto con la religione in una società ormai estremamente materialista, con il disagio che ne deriva, più che la religione in sé, e appunto il tema del dio personale. Del resto i romanzieri sono sempre dei dilettanti, invadono campi per i quali ci sono fior di specialisti. Il loro lavoro è scrivere delle buone storie, non dei saggi.
GIOVANNI ACCARDO: Dio definisce la Bibbia un romanzo delirante e inaffidabile.
GIACOMO SARTORI: È un’affermazione con una valenza comica, perché il Dio che parla nel mio romanzo, o meglio che in esso scrive, ha imparato a sue spese che deve diffidare della religione, come tutto quanto viene dall’uomo. Eppure resta pur sempre una divinità più vicina a quella rappresentata dall’Antico testamento, perché non è né misericordioso né benevolente come lo è il Dio introdotto dalla rivoluzione operata da Cristo.
GIOVANNI ACCARDO: Protagonista è un Dio che si interroga costantemente, preso da mille dubbi, ma anche deluso e arrabbiato col genere umano, ma alla fine desideroso anche lui di emozioni umane.
GIACOMO SARTORI: Il Dio del mio romanzo utilizza il linguaggio umano, ed è questo che è pieno di dubbi e esitazioni, perché è costruito a misura dell’uomo, per esprimere le sue fragilità e esitazioni. Lui vorrebbe essere immune dalla debolezza, e invece a dispetto della sua onnipotenza rimane sempre più invischiato, con il risultato che ce l’ha su sempre di più con l’uomo, al quale è sempre più simile. Ma anche le emozioni fanno parte integrante della lingua umana, perché non c’è frase che non sia portatrice di emozione. Non a caso mano a mano che scrive prova delle emozioni sempre più forti.
GIOVANNI ACCARDO: Si può leggere come una metafora della scrittura? In fondo Dio s’interroga sul significato delle parole e sulla difficoltà di verbalizzare i suoi pensieri, lottando contro le frasi logorate dall’uso e dall’abitudine.
GIACOMO SARTORI: Certo, questo Dio onnipotente che passa il suo tempo a scrivere è una metafora dello scrittore, che come lui può dettare il bello e cattivo tempo, può far fare ai suoi personaggi quello che vuole. E come qualsiasi scrittore il mio personaggio ha un rapporto difficile con la lingua, perché si interroga di continuo su di essa, la sorveglia, la analizza e studia, e soprattutto cerca in tutti i modi di tirarla dalla sua parte, di strapparla alla sua modalità più stereotipata e inconsapevole, come fanno appunto gli scrittori.