In città, un paio di mesi fa, in giornate improvvisamente già calde, una troupe televisiva riprendeva alcuni esterni per un serial poliziesco tratto da una serie di gialli di successo e ambientato, pensa te, proprio qui: spostavano insegne, spargevano neve artificiale sulle aiole, facevano indossare cappotti un po’ a tutti, cose così – e tutto con una mano sola, perché l’altra era sempre impegnata a reggere il cellulare. Attorno si raccoglieva un po’ di folla, si scattavano foto, si sperava, chissà, in una comparsata. Mi sono chiesto – senza troppo impegnarmici – che immagine sarebbe venuta fuori della cittadina in cui abito; mi sono anche chiesto se mi ci sarei riconosciuto, ammesso che mi capiti davvero di seguire le puntate (davanti ai polizieschi mi abbandono all’abbiocco come un pupo). I tecnici della troupe devono esserci andati giù pesante con l’ambientazione invernale, per non dire nordica o artica, perché giusto l’altro giorno, in pieno mese di giugno, passando attorno a una delle aiole sepolte tempo addietro sotto quella neve che sembrava polistirolo e si incollava a tutto, ho notato che nessuno aveva più levato le croste di finta neve da un povero monumento piazzato in mezzo, e quelle, tignosissime, ancora ricoprivano la statua di bronzo plus ou moins astratta dedicata non so più a chi o che cosa – impossibile saperlo ora, la targhetta era ricoperta di uno strato grigio di palline.
Non lo so. So però, se toccasse a me filmarla, come immaginerei la mia città (che d’estate diventa torrida, proprio come l’ha descritta Stéphanie Hochet in un suo romanzo del 2010 inedito in Italia, “La distribution des lumières”, invece d’inverno è secca e ventosa per via del föhn, di rado innevata, e ogni volta che nevica è come se accadesse per la prima volta, tutti cascano dal pero, dieci centimetri sono subito emergenza, titoloni in prima pagina, proteste dei commercianti, pedoni in scarpette che ruzzolano, testacoda spettacolari sulle strade). Ne farei un intrico piranesiano di cantieri che procedono al ralenti o sono del tutto abbandonati, infarcirei le inquadrature di opere faraoniche lasciate a metà, in cui per decenni quattro operai cincischiano, poi tutto si blocca, poi si sblocca e i quattro operai tornano a cincischiare, e ingegneri e architetti impazziscono a introdurre varianti su varianti, improvvisando ogni volta per concretizzare le idee estemporanee dei committenti: edifici tronfi – tra il Beaubourg e la Bucarest dei Ceausescu – che sgomitano in mezzo a quartieri assai più modesti e tolgono loro sole e spazio. E ogni volta, dagli scavi per le fondamenta, farei spuntare cimiteri dimenticati, ipogei preromani, lapidi e dolmen e menhir, che tocca studiare a fondo prima di spostarli chissà dove. È proprio così, il più delle volte: non fai in tempo a mettere in moto la ruspa che già da sotto lo strato di asfalto bussano gli avi, tipo Valle di Giosafatte, ma meno organizzata.
Appena più in là – continuo a immaginare – con un buon programma di computer grafica erigerei altri cantieri di babelica presunzione in cui però la grandeur d’improvviso si è inceppata per un calo d’ispirazione o un ricorso al TAR, e la flora a poco a poco ha riacquistato spazio, riguadagnato l’area, riportato una spettinata selvatichezza: fili d’erba che diventano piantine, piante che diventano alberi sempre più esuberanti, fichi e ciliegi e salici che richiamano uccelli, ospitano nidi, gazzarre di passeri e taccole, e che qualcuno dopo un po’ viene a segare, ma ecco che ributtano subito fuori rametti e foglie, e si ricomincia daccapo, mentre sottoterra le radici mai dome ricominciano a allungarsi, scompigliando strade e marciapiedi. Viadotti piranesiani (e dàgli) che conducono quasi subito a inopinate mulattiere, perché nonostante tutto qui le dimensioni sono contenute, si finisce subito oltre la periferia, si sbanda in aperta campagna, tra i cumuli di letame, sui tracciati delle processionarie.
E già che siamo alle porte della città, in una zona appena più aperta del resto del fondo valle, ricostruirei virtualmente i resti dell’aeroporto, che avrebbe dovuto collegarci alle maggiori metropoli del mondo, e in cui (ma come? da quali angolature? con quali rischi?) sarebbero atterrati jet di quelli mica piccoli, e ora è già tanto se partono prendendosela comoda un biplano con un aliante attaccato dietro, un aereo da turismo, un paio di droni, quando va bene un elicottero in cerca di turisti avventuratisi in infradito su un ghiacciaio. Le strutture dell’aeroporto già somigliano alle draghe abbandonate lungo il fiume, come quelle cigolano al vento, perdono pezzi; le abitano randagi e disperati, ormai, ed è già qualcosa, una parvenza di senso, un tocco di vita.
Ecco, io così la rappresenterei, esagerando giusto un pochino, la mia città. Altro che i cappotti, le sciarpe e il cubetto di ghiaccio in bocca a far vedere il fiato manco fossimo alle Svalbard.