a Marco Belli
Quando ripresi conoscenza, il presidente era già lì.
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Estratto dalla Gazzetta Ufficiale della Casa Editrice di Stato (GUCES) della nazione di ***, n. 6 (giugno 1962), a. LI, p. 24:
“BANDO: La Casa Editrice di Stato indice un bando di concorso per partecipare ad una delle fasi conclusive della redazione del LUF (Lessico Universale per i Fanciulli), di imminente uscita presso i propri tipi.
Il concorso è stato appositamente concepito per dare voce a coloro che, pur non avendovi partecipato attivamente, ritengano che la redazione del LUF sia avvenuta in modo incompleto, o sovrabbondante.
Art. 1. Il concorso è aperto a tutti i Docenti ordinari della Libera Università della Nazione di ***, ivi compresi coloro che, non avendo figli di età compresa tra i 6 e i 14 anni, erano stati automaticamente esclusi dall’équipe redazionale del LUF (GUCES, n. 6, giugno 1958, a. XLVII, p. 21, art. 1 del bando).
Art. 2. Nei propri elaborati, dopo aver presa visione dell’Elenco delle voci del LUF (di cui alle pp. 25 sgg. della presente Gazzetta), i candidati dovranno riportare le voci che intendano aggiungere al, o sopprimere dal, LUF.
Art. 3. Pena l’esclusione dal concorso medesimo, gli elaborati dovranno pervenire in busta chiusa al Comitato Editoriale del LUF, presso la Sede Centrale della Casa Editrice di Stato, Piazza dell’Innocenza 23, 3444 Città di ***, entro e non oltre il 31 dicembre dell’anno solare in corso. Gli elaborati non verranno restituiti.
Art. 4. Pena l’esclusione dal concorso medesimo, la proposta di aggiunta o soppressione delle voci dovrà essere accompagnata da precise e circostanziate motivazioni.
Art. 5. Pena l’esclusione dal concorso medesimo, le eventuali voci da aggiungere dovranno essere accompagnate da un’esaustiva definizione.
Art. 6. Pena l’esclusione dal concorso medesimo, le definizioni andranno compilate secondo le Norme tipografiche per la redazione delle voci del LUF di cui agli artt. 9 sg. del presente Bando.
Art. 7. Tutti gli elaborati verranno valutati dal Comitato Editoriale del LUF, il quale, nel caso dell’accettazione di una nuova voce, si riserva di apportarvi tutti i tagli e le modifiche del caso.
Art. 8. Le nuove voci e le soppressioni accettate verranno pubblicate nel LUF; ai vincitori non verrà data notizia della loro vittoria; data la forma completamente anonima in cui l’intero LUF è stato redatto, dei nomi dei vincitori non verrà data alcuna notizia, ritenendo il Comitato Editoriale del LUF premio e incentivo più che sufficiente per tutti i partecipanti l’aver avuto la possibilità di collaborare a tale insigne opera.
Art. 9. Norme tipografiche per la redazione delle voci del LUF: Pena l’esclusione dal concorso medesimo, i candidati dovranno…”.
Fine dell’estratto.
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(Post- e ante- fatto: M., prot- e ant- agonista, si infiltra o più propriamente cerca di infiltrarsi – ma coi terroristi non si è mai completamente infiltrati, nemmeno i terroristi stessi lo sono, sono sempre in prova almeno fino a quando non decidono di farsi saltare in aria fugando così ogni qualsivoglia sospetto di doppiogiochismo – in una comunità terroristica perché ricorda il nome della cellula che ha organizzato un certo attentato di cui lui, per ragioni non ancora chiarite, conosce anticipatamente l’esito.) Ma è proprio quello il nome? mi sorprendo a voler controllare sui vecchi quotidiani quello che in realtà è il futuro, e altrettante rinuncio a ripercorrere il passato, convinto come sono che la sequenza di fatti a cui sto pensando si trovi davanti e non dietro di me, come in effetti è. Il futuro e il passato sono due fantasmi cui io in qualche modo ho appeso o iniettato brandelli o corpuscoli di carne, e la sera o le mille sere, ormai non fa più differenza, in cui ho usato la seconda cassa ovvero le casse di latta, le innumerevoli casse di latta che ora so non erano altro che porzioni di uno stesso immane macchinario, ero ormai quasi io ad essere diventato un vero spettro, privo persino, come gli altri due, ormai rigonfi di tutti gli umori e le marcescenze di creature viventi, del comfort dell’astrazione.
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A volte ho paura che nei sogni mi sfuggano proprio quel vetro e quel riflesso, e più di tutto ho paura che il presidente stia imparando a nascondersi come in uno spettacolo zingaro o una farfalla notturna contro la corteccia di un albero. È il movimento, il cosiddetto destino comune a isolare la figura mimetizzata. Hanno le particelle del presidente un destino comune? I suoi grossi anelli – la passione per l’ambra opaca, hi hi hi hi hi hi hi! – il suo bastone sormontato da una trota o un salmone, il suo ridicolo panciotto viola attraversato dalla catena d’argento dell’orologio, i suoi occhi traballanti, la sua risata giapponese e persino le singole lettere delle prime parole che mi disse “È diretto anche lei a Venezia?” hanno o no un destino comune? o nel momento in cui l’architetto si spostasse dalla tana del suo mimetismo si sconnetterebbero come le stelle di una costellazione osservata da un altro sistema solare, rivelando di essere solo lo sfondo sul quale un corpo ormai indecifrabile, ormai dileguato, si era nascosto? Come una sogliola, maschera depressa che scorre sui fondali. Una volta ho sognato che aveva preso la forma di un diavolo impagliato, uno strano esserino sepolto chissà quando in un giardino e ritrovato casualmente da non so più quale cacciatore di tesori— o forse era un cane ad averlo trovato, scavando in giardino per nascondere un osso? e il cuore del cane era talmente puro, che il solo contatto col demone impagliato gli aveva azzoppato – fiorendovi un tumore (Nota: Gli esperimenti che provocano il tumore sono sempre gli esperimenti più efficaci, come se il tumore, con quella forma di minuscolo cervello, fosse il marchio certo di raffinatezza scientifica, una carnelacca su cui il male imprime il proprio anello) – una gamba, e ora l’animale era costretto a zoppicare rimanendo fermo sul posto, gli occhi ridotti a due fessure luccicanti, guaendo e leccandosi e girando su se stesso più volte prima di riuscire ad avanzare. La notte gli occhi del piccolo demone nero si illuminavano, conducendo lentamente l’uomo alla pazzia.
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Un giorno un giovane di poco più di vent’anni, fissando assorto il paesaggio che sfrecciava dietro il finestrino di un treno diretto a Venezia, si addormentò. Quando riprese conoscenza, sentì qualcuno che respirava vicino a lui.
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(Barcollando nella sala d’attesa, il telefono in una mano e la stampella nell’altra) “No. No. No io adesso sono qui in ospedale. Sì. Di nuovo. Sì io… mi si stanno incollando le ginocchia e… mica potevo lasciarla aggrappata al muro a inseguire topi e rondini… no i topi non c’erano, va bene, non c’erano, né per modo di dire né per davvero, no, ha ragione, no, nessun baratto, sottolineo. Nessun baratto. No, non per le ginocchia, anche se nessuno qui mi ha ancora chiesto… e sì che dovrebbe, sottolineo, dovrebbe essere un ospedale. Ma… No. No, per lei, però a me si stanno incollando le ginocchia, sono qui con le stampelle avanti e indietro per la sala d’attesa e nessuno mi ha ancora chiesto come va, nemmeno un cazzo di “come va” (gesto delle virgolette; gli cade per terra tutto quanto; urla al telefono finito sul pavimento), questi… e dovrebbe essere un ospedale. Dovrebbe. Sottolineo. No. No. No, ti dico, nessuno… Nessuno… Ma mi ascolti? Capisci quel che ti sto dicendo?” (Il suo volume di voce attira le occhiatacce degli altre persone in sala d’attesa; lui sembra indeciso se raccogliere prima la stampella o prima il telefono: si piega in avanti allargando ciascuna mano verso ciascun oggetto.)
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… quando diventi vecchio che sei pronto per scrivere, e la parola domani diventa sempre più spaventosa. Alcuni invecchiano prima, io invece sono invecchiato normale. La domanda è se ho ancora qualcosa che almeno assomigli all’intelligenza, o se quando dico che sono invecchiato e che sono pronto in realtà intendo dire che sono finito. Ma daccapo, cosa significa essere finiti? Ho paura del mio cuore. Il giovane che incontra il presidente architetto ha paura del proprio cuore. Cosa vuol dire avere paura del proprio cuore? Sentire di avere in petto una triste bestia pronta a scavarsi coi denti la propria via attraverso le nostre viscere, come in una tortura dell’Asia centrale. Essere sempre stanco, desolato, scontento, non riuscire a uscire da sé quando è la sola cosa che si vorrebbe, quanto vorrei avere dei denti anch’io che mi permettessero di trovare a mia volta una via d’uscita attraverso le mie viscere. Uscire da sé. Avere una qualche voce, non dico dei denti, una voce che ci trasporti, non importa dove. La gioia di Abramo…
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Quando tornai in me, il presidente era già lì.
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(Una branda, una sedia, un tavolo, una bottiglia di vino, un bicchiere, alambicchi, fiale, bottigliette, barattoli, ferri chirurgici, ferri da calza, garze pulite e garze macchiate di sangue, una scatola. Un piatto con due pere. Contro la parete, altre scatole di varia grandezza. L’uomo mascherato è seduto davanti a una pianola in fondo a destra, le spalle rivolte al pubblico. Valmarana dorme sulla branda. Mentre il pubblico entra, la sala è in penombra e il palcoscenico è buio. Sul fondale vengono proiettate a velocità stroboscopica immagini di tavole anatomiche.)
VALMARANA: (Si sveglia. Va al tavolo. Vede la scatola sul tavolo. All’uomo mascherato) Sei in casa? (Fine immagini proiettate. Luce sul palcoscenico, buio in sala.) Un’altra scatola! (Pausa.) Un’altra scatola! (Pausa.) Mi hai sentito! Un’altra!… (Pausa. All’inizio è intimidito da tutto. Poi, procedendo, si animerà sempre di più. Movimenti con gli occhi come se vedesse insetti.) Sono i denti. I denti. Mi si spaccano. Pezzettini. Non fa male. Non succede in questo momento, no. Mi succede di notte, mentre dormo. CRAC, CRAC, fanno così. Io apro gli occhi, sento in bocca una scheggia dura, e ZAC, un altro dente spaccato. (Pausa.) No. Non è del tutto vero che succede di notte. Succede presto, prima dell’alba. Non riesco mai a capire bene il momento in cui mi sveglio. (Pausa. Sottovoce) CRAC, CRAC. (Pausa. Voce normale) È come se la mia bocca si stesse rimpicciolendo, e i denti dovessero spaccarsi per poter rimanere attaccati alla mandibole. Ormai a forza di spaccarsi spostarsi e sbriciolarsi sono tutti appuntiti come un seghetto, dei denti da pescecane. Guarda che roba. (Sorride, scoprendo i denti verso il pubblico. I suoi denti non hanno nulla di strano. A bocca spalancata, come un grosso rettile che prende il sole) CRAC, CRAC. (Pausa con sorriso spalancato. Si ricompone) Ultimamente mi succede anche prima di addormentarmi, nel dormiveglia. Non so dire se sia fastidioso o se mi piace. Mi ricorda quando da bambino avevo la febbre. (Pausa.) Sì. (Lunga pausa.)
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(La casa del presidente è tutta piena di piccoli animaletti di vetro (pulcinella di mare etc.). Il presidente parla e M. fissa gli animaletti tenuemente imperlati del vapore uscito dalla vasca da bagno, e parla delle loro abitudini. Studia le abitudini degli animali per deformarle e scrivere i testi per le carte da gioco: “Ho sempre avuto una memoria di ferro per stronzate come queste”.)
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La gioia di Abramo…
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Ricordo che da bambino bevevo moltissimo succo di pomodoro. Lo tenevano dentro bottigliette di vetro, sul balconcino. Strappavo la pellicola di plastica che teneva insieme le bottigliette, aprivo la bottiglietta (ma forse era qualcun altro ad aprirla per me) e guardavo giù dal balcone o più probabilmente attraverso le sbarre di ferro della ringhiera bevendo pomodoro. C’era un altro bambino in un altro balcone che si chiamava Carlos. Non parlava mai. Quasi sempre pioveva e io vedevo l’acqua che scivolava fin dentro la chiesa. Bevevo succo di pomodoro e dicevo che ero come Dracula. Pensavo che il mio cuore era sempre più rosso, e che era ormai quasi perfetto, quasi del tutto liquido, talmente tanto era il pomodoro. Ora il mio cuore era un sole di sangue, e io non sarei mai più morto. Avevo un gemello siamese e avevamo lo stesso cuore, ma il resto del gemello era sparito, lo riuscivo a vedere solo se mi mettevo a lato del sole quando era basso o guardandolo dal finestrino dell’automobile, vedevo il naso quasi trasparente del mio gemello invisibile e il sole fuori dal finestrino sembrava un bruco di dischi di carta che avanzava verso di me senza mai raggiungermi. Avevo anche dei finti canini di gomma e un maglione rosso e non avevo paura del sangue, il sangue mi faceva ridere e io ancora non lo sapevo che invece la paura è proprio quella, e quando mio padre si fece quel taglio sulla fronte io dovetti mordermi il labbro per non ridere. Carlos non parlava mai e mia madre mi diceva, è uno straniero, non parla perché non capisce.
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Il giovane si volse. Si era addormentato in uno scompartimento vuoto, ma adesso tutti i posti erano occupati. Lui era seduto vicino al finestrino, e, nei due posti che rimanevano sul suo lato, trovò una coppia di mezza età, marito e moglie; la donna aveva in grembo una rivista religiosa che ogni tanto carezzava come una cosa molto cara, e il giovane pensò che i due dovevano essere dei testimoni di Geova. Di fronte a lui, nei posti che rimanevano, vide una famiglia di orientali, forse di indiani. Sembravano molto ricchi. Erano in quattro: un uomo che teneva in braccio un bambino, e vicino a lui una donna, estremamente bella; con loro c’era un’altra donna, più vecchia. Ogni tanto l’uomo e le due donne, come per non farsi sentire dal bambino, si scambiavano qualche parola a voce bassissima, parlandosi vicino all’orecchio e sorridendo.
Poi, nel passare il treno davanti ad uno stadio, la donna con la rivista religiosa aveva dato di ginocchio al marito, e indicando la costruzione aveva detto, “Hai veduto l’infamia?”, e al cenno d’intesa dell’uomo, aveva rincalzato dicendo, “Che orrore!”; e dopo un sospiro aveva aggiunto, “che scomodo!”, e a queste parole il giovane si addormentò di nuovo, e quando nuovamente si risvegliò, vide che gli indiani e i testimoni di Geova erano spariti, e vide che al loro posto era comparso un signore che, non appena il giovane posò lo sguardo su di lui, lo salutò con un cenno del corpo, come per alzarsi, ed un sorriso, quasi che per tutto quel tempo (ma quanto tempo? il treno era lanciato, e il ragazzo, senza orologio, non aveva modo di capire né che ora era, né dove era) il signore davanti a lui non avesse fatto altro che attendere il suo risveglio.
L’estraneo si era sistemato vicino al corridoio del vagone, proprio sull’angolo opposto rispetto a quello dove stava il giovane. Il giovane poteva vederlo nel riflesso trasparente del finestrino, e così, ancora ignaro di quale terribile orrore quell’incontro avrebbe portato nella sua vita, ebbe il comodo di considerare il nuovo venuto dalla testa ai piedi, senza parere sfacciato. Il cielo e la luce, fuori, stavano cambiando. Questo sconosciuto aveva un aspetto tanto singolare da meritare una descrizione alla maniera tradizionale, la maniera cioè di quegli scrittori di cento o più anni fa, che amavano rivolgersi cordialmente al lettore, dicendo più o meno, “e qui i nostri venticinque lettori non ce ne vorranno, se ci soffermiamo a descrivere un poco questo nuovo personaggio, il cui aspetto era davvero singolare”.
Per la verità, forse l’uomo non sarebbe parso molto strano a quegli scrittori, ma questo solo perché pareva uscito proprio dall’epoca di Balzac o Manzoni, tanto che per tutto il tempo che ne considerò il riflesso nel finestrino, forse anche a causa della luce fioca o anche per la trasparenza dell’immagine dell’uomo, dietro cui il paesaggio continuava a sfrecciare, il giovane ebbe costante il dubbio di essere ancora addormentato, e che ad un certo punto il riflesso del suo compagno di viaggio si sarebbe fatto sempre più indistinto, lui si sarebbe risvegliato, e voltandosi avrebbe rivisto davanti a sé i due testimoni di Geova e la famiglia di indiani.
Fuori dal treno infine era scesa la sera, e nel vagone si accese la luce elettrica, il che, come per far ricredere il ragazzo, rese il riflesso dello sconosciuto più vivido e, diremo, incontrovertibile.
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Ero caduto con la faccia contro un sasso e mi ero rotto il labbro. Ho ancora una piccola cicatrice. Il sangue mi scendeva tra i denti ed era più dolce del succo di pomodoro, ma mi vergognavo a mandarlo giù, la bocca mi bruciava e piangevo. Il cervo volante arrancava nella ghiaia, minaccioso e vulnerabile. In realtà io non so più nemmeno dove mi trovo ora. Potrei benissimo essere già tra i dannati, all’inferno.
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Lettera del prof. Favori al prof. Zanna:
“Gentile professor Zanna,
con la presente intendo offrirLe un modesto aiuto per una più piena completezza del Lessico Universale per i Fanciulli, Lessico di cui Lei è direttore, nonché meritevole ideatore. Agli inizi dell’anno passato, il direttore della Casa Editrice di Stato, il prof. Valmarana nostro comune amico, si è preso la libertà di mostrarmi le bozze del primo dei cinque volumi dell’opera (A-Ezzelino); in cui non ho potuto fare a meno di notare, in verità con un certo stupore, che, sotto la lettera B, tra le voci barroccio e Bartali, era del tutto assente la voce barsàla.
Ora, sono perfettamente conscio del fatto che il Lessico Universale per i Fanciulli obbliga i propri redattori a delle scelte molto sofferte, dovendo infatti esso Lessico coniugare in sé due esigenze opposte: quella di essere il più possibile completo da una parte, e dall’altra quella di essere adeguato alle energie mentali, a quell’età fatalmente acerbe, dei fanciulli della nostra Nazione. So bene quanto sia stata tormentata la decisione, ad esempio, di eliminare parole e nomi come relatività o Priapo, e quante odiose (e invero invidiose) polemiche abbiano fatto seguito a simili soppressioni, soppressioni dettate non da leggerezza d’animo o peggio da pigrizia, come avrebbero voluto i Suoi accusatori, bensì, dalla prima all’ultima, frutto di attenta ponderazione e ininterrotte elucubrazioni. E proprio per evitarLe nuove noie con chi è fin troppo solerte a trovare ogni minimo difetto anche in opere come la Sua, che volontariamente e eroicamente si sono poste sotto il giogo stesso dell’Imperfezione, proprio per questo mi sono deciso a rivolgermi a Lei in via del tutto privata, perché torni sui Suoi passi e permetta al barsàla di entrare a far parte del Suo Lessico.
È pur vero che il barsàla è una creatura marina, e il fatto che la nostra Nazione si trovi nel più profondo entroterra ha fatto sì che dal lessico venissero eliminate, e con ragione, diverse specie acquatiche di cui molto probabilmente non dico i fanciulli, ma nemmeno i nostri stessi concittadini adulti avranno mai sentito parlare. Tuttavia, converrà anche Lei con me che il barsàla è una creatura tanto spettacolare nel suo aspetto e nelle sue abitudini, di tale e tanto sicuro interesse per un giovane lettore, che oso affermare che nessun lessico universale per i fanciulli che aspiri veramente a meritare il titolo di Universale, potrebbe rinunciare ad annoverare tra le proprie voci la voce barsàla, almeno non più di quanto potrebbe rinunciare alla presenza della voce tigre.
Forte di questa sola e semplice ragione, che cioè la mente di un fanciullo non può che trarre giovamento dal conoscere quanto di meraviglioso abiti il nostro mondo, mi sono preso la libertà di stendere una breve nota, che speravo Lei avrebbe voluto prendere in esame per un’eventuale inserimento del barsàla nel suo Lessico. Tale speranza si è in seguito trasformata in ragionevole certezza quando, poco più di un mese fa, il buon prof. Valmarana mi ha informato che è stato indetto un concorso proprio per venire incontro a esigenze come la mia. Il prof. Valmarana ha avuto anche la gentilezza di mostrarmi le Norme tipografiche per la redazione delle voci del LUF, alle quali mi sono pertanto attenuto.
Ho preferito lasciare al mio lavoro la mole che esso ha finito con il prendere, mole in verità esagerata per un’enciclopedia per ragazzi: nel farlo sono stato guidato dalla consapevolezza che certo Lei e i Suoi collaboratori non avrete difficoltà a praticare i tagli che riterrete più opportuni.
Resto come sempre il Suo aff.mo
Alberto Favori
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Passavo le ore a strofinarmi i palmi delle mani l’uno contro l’altro, contro le braccia, lungo la nuca, le guance, il collo, massacrandomi le ginocchia e maledicendo la cassa di latta e il presidente, come se a furia di strofinarmi e di imprecare volessi ridurmi ad un mucchietto di terra. Osservavo il mio corpo, i miei piedi, le mie gambe, così, seduto e piegato in due, al buio, come se avessi la vista fosforescente di un gatto, come se solo con lo sguardo potessi far tornare il corpo e tutto il resto alla sua giusta età, e insieme scavavo tra le costole con le dita, cercandomi il cuore come un sacerdote azteco, come un feto quando si aggrappa alle costole della madre (che sia questa l’origine oscura del quadro svedese, della scala, della ringhiera, della gabbia, della prigione, del castello? casa propria è semplicemente la prigione di cui si ha la chiave, una cassa toracica sufficientemente grande per contenerci); solo che io adesso lo facevo dall’esterno, e con le mie stesse costole (ma erano poi davvero le mie, dato che erano le costole di me dieci anni prima? e le costole della propria madre, quando le si afferra dall’interno, non sono le proprie costole? e poi, di cosa possiamo veramente dire “questo è mio, questo mi appartiene”?); mia madre mi aveva raccontato di quando ero un feto (e mi fosse scivolata di troppo la mano lungo il tubo della cassa di latta lo sarei diventato sul serio, un feto, storpiato dalla malattia, il feto di un piccolo rettile preistorico a due teste) e con le mani a volte mi attaccavo alle sue costole come fossero pioli e io volessi salirle su per la gola e uscirle dalla bocca, schiodandole la mascella come a un’anaconda. Perché la si chiama gabbia toracica? Volevo che la mia gabbia avesse uno di quelli sportellini di ferro come le gabbie dei conigli, o come quelli a molla per i canarini.
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Vidi come sottilissime falci concentriche irradiarsi sotto la tenebra delle palpebre. Non sapevo decidermi ad aprire gli occhi, e di fatto non ricordo il momento in cui finalmente li aprii: avvenne soprapensiero, un minuto prima ero nascosto dietro le falci di luce che frugavano le mie palpebre, e ad un certo punto, ad un nuovo scossone, mi resi conto di essere seduto in uno scompartimento di un treno in corsa, e di star guardando fuori dal finestrino da chissà quanto tempo. Le mie tre dita erano ancora conficcate dentro il cuore, ma quando le mossi per ritornare nella stanza dell’architetto, immediatamente sotto i polpastrelli sentii il tessuto del mio pullover, e non più la consistenza da mattatoio del mio cuore.
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(Estratto dalla undecima Prova a sorpresa del Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio)
Consegna: (omissis)
Svolgimento dell’alunno M.: (omissis) …visto una palla di luce e era tutta azzurra e io non sapevo cos’era. Penso sempre alla morte perché… (omissis) …e se morirò non potrò vedere più la mia mamma e il mio papà che sono tanto buoni… (omissis) …mi dispiace tanto che tu non credi al buon Dio, vorrei che tutti quelli cui voglio bene ci credessero così ci vedremmo tutti insieme in Paradiso.
Valutazione di padre Giorgio Giorgio: (omissis; in allegato A, la relazione del Comitato Grafologico di Briwen attestante l’autografia della valutazione in oggetto.)
(Fine dell’estratto)
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I roditori e gli uccelli puzzano. Puzza quello che mangiano. Più di tutto il mangime per uccelli. Sotto la casa dove abitavamo c’era un negozio di animali che vendeva anche mangimi, e per le scale era come essere dentro una gabbia di uccelli. Il proprietario era sulla sedia a rotelle.
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“… no sei tu che non mi ascolti, io sono qui in ospedale e mi si stanno incollando…”
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… gioia di Abramo nell’avere una voce che gli diceva cosa fare era tale che per tenerla in vita sarebbe stato pronto a sgozzare il proprio figlio. Una voce. Sarei in grado di ascoltarla e di sacrificarle la mia carne? La voce di un Pulcinella con la bocca sporca di burro. Cuscini pieni di zanzare. Il Pulcinella canta ubriaco e ogni notte si fa uccidere dai negri che vivono nella baracca di fango e lamiera. Tengono i pezzi di Pulcinella come amuleti. Le mosche e le zanzare volano intorno agli amuleti. Quando la parola domani sarà diventata così terrificante da gettarti nel panico, allora sarai pronto per scrivere.
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E continuava a sentire la risata dell’architetto dietro le spalle, come un gabbiano impazzito, un gabbiano di Hitchcock, e le parole del bambino, i suoi nonsensi crudeli, e lo vedeva quasi fare i suoi movimenti da marionetta di latta ai bordi del suo campo visivo, una scimmia di latta che si arrampica lungo un cordino.
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Ma veniamo finalmente, proprio come vuole la vecchia maniera, alla descrizione del personaggio, che ormai il nostro lettore attende da troppo tempo.
[continua l’11 gennaio]