Da ragazzo non provavo una gran simpatia per lo studio del latino, una lingua morta che, come tutti i morti, mi sembrava inutile. Ma non era tanto la presunta inutilità a tenermi lontano dal latino. Ricordo di aver provato gli stessi sentimenti che provò Renzo Tramaglino dinnanzi a Don Abbondio e ai suoi “impedimenti dirimenti” (Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultusdisparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sisaffinis), a cui risponde: “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”. Come Renzo, anch’io mi sentivo vittima di una sopraffazione e di un raggiro da parte di chi voleva farmi sacrificare un pomeriggio all’aria aperta per le cinque declinazioni. Non voglio dare la colpa a nessuno, ma è certo che ho vissuto il mio rapporto con la lingua latina come un rapporto basato sulla costrizione e sull’inganno. L’apprendimento delle nozioni di base della lingua, pur essendomi proposto nella prospettiva di una futura più larga e piacevole conoscenza, che però tardava a venire, era arido e mnemonico. Neppure lo studio della letteratura, inteso come storia letteraria, e degli autori, inteso come traduzione di alcuni brani tratti dalle loro opere e molto spesso decontestualizzati, valsero a farmi cambiare idea. Giunto all’università, le cose cambiarono del tutto quando ebbi l’occasione di seguire le lezioni del professore di latino Cesare Questa. Con lui non c’era nessun inganno e nessuna sopraffazione, la lingua latina diventava finalmente quello che era stata e che continuava ad essere, una lingua di cultura (e che cultura!), intorno a cui ruotano molti saperi, quello storico, antropologico, retorico, politico, e financo, come nel caso degli studi di Questa, quello relativo alla storia del melodramma. Solo allora mi fu chiaro che non avrei perso tempo a studiarla, apprenderla e insegnarla a mia volta. Solo allora capii la sua utilità, che nulla ha a che fare con l’utilità immediata derivante dall’apprendimento di poche frasi in lingua inglese che permette allo studente liceale di sopravvivere a Londra per qualche giorno; un’utilità per così dire differita, perché consente non solo di conoscere il mondo antico, ma anche quello nel quale oggi viviamo, che non è altro che la prosecuzione di quello antico; sicché studiare oggi Plauto e Terenzio, Cicerone e Virgilio, Seneca e Petronio, mi sembra non più un umiliante atto di sottomissione ad un sapere a me estraneo, bensì un’occasione unica di conoscenza di ciò che siamo stati e di quel che siamo diventati; il che mai avrei potuto comprendere se mi fosse mancato questo straordinario strumento di confronto e di orientamento, che mi è dato dall’aver appreso la lingua e la cultura latina. Vogliamo privarne gli studenti delle future generazioni?
Ne parlavo con un collega qualche giorno fa. Mi diceva che molto probabilmente, dal momento che il trend non è molto favorevole al latino, noi insegnanti di Lettere ci ridurremo ad insegnare solo l’italiano. Ed aggiungeva di non esserne del tutto scontento, considerato che gli studenti non fanno che copiare la versione, falsificando, dunque, la valutazione dell’apprendimento.
In effetti, se copiare la traduzione è un esercizio vecchio quanto la scuola, negli ultimi anni l’uso dei cellulari ha accentuato questa pratica a tal punto da renderla insopportabile. E taluni importanti docimologi, ossia esperti della valutazione, si sono affrettati a coniare, naturalmente in inglese, una definizione del fenomeno, cosiddetto cheating.
In realtà, lo studente copia perché è ancora una volta oggetto di un inganno e di una sopraffazione: gli si richiede di mettere in pratica un’abilità ch’egli non può possedere, se non in minima parte, per motivi che riguardano senza alcun dubbio l’assenza dello studio di questa lingua nella scuola media e la diminuzione delle ore di latino in quella superiore. A fronte di tutto questo, perché continuare a chiedere la traduzione di un passo di Cicerone ad uno studente che a malapena ha imparato le cinque declinazioni? E non sarebbe più utile, dopo il necessario e preliminare studio linguistico, leggere gli autori latini avvalendosi, senza alcun timore o ipocrisia, delle traduzioni con testo a fronte? Sono del parere che i nostri studenti potrebbero leggere con piacere e con grandissima utilità un testo di Plauto o di Terenzio, di Cicerone o di Apuleio, sempre che i docenti capissero che di un libro con testo a fronte non ci si deve vergognare, bensì bisogna utilizzarlo per attingere meglio al messaggio degli antichi, a quanto essi hanno ancora da dirci. I docenti di latino dovrebbero ricordare che l’iniziatore della letteratura latina, Livio Andronico, di Taranto, tradusse in latino l’Odissea di Omero, che utilizzava come testo a fronte per insegnare il latino e il greco ai figli del Salinatore. Perché noi non dobbiamo fare altrettanto con la lingua italiana e latina?
Noi non dobbiamo fare dei nostri allievi dei latinisti, come non dobbiamo farne dei matematici, dei fisici, degli storici, dei filosofi, ecc. A questo ci penserà l’Università. Noi abbiamo il compito di far conoscere ai nostri allievi il mondo che ci ha preceduti, senza il quale la nostra civiltà non avrebbe avuto luogo e noi saremmo diversi da quello che siamo. Quando il latino non sarà più studiato, nessuno saprà più che cos’era l’amore cantato da Catullo né cosa ne pensasse Lucrezio, non conoscerà l’arte dell’oratore di Cicerone né saprà chi sono Enea e Didone, nulla gli dirà la pacata saggezza di Orazio, e di Seneca dirà: “Chi era costui?”; e così gli rimarrà sconosciuto il romanzo di Petronio e quello di Apuleio, e di Agostino apprenderà solo ciò che gli verrà detto in qualche dubbia fiction televisiva. Il nostro futuro liceale potrà fare a meno di tutto questo? Certamente sì, dal momento che in molti licei già ora queste cose non si studiano. Ed io sono del parere che si possa vivere anche senza latino; ma al prezzo di quale deminutio? Nessuno saprà più nulla della civiltà del latino, anche le università non sapranno più a chi insegnarlo. La nostra società allora ci apparirà come un malato che si sia risvegliato da un coma senza più memoria delle cose lontane. La fine del latino provocherà – ma il processo è già in atto – il più grave disorientamento culturale che la storia ricordi. Ma noi vogliamo davvero tutto questo?