Il racconto Sentimentalismo di Villiers de L’Isle-Adam mette in scena un elegante e crudele minuetto dialogato tra la donna e l’artista, ricco di riflessioni estetiche e psicologiche. Lo seguiremo pertanto passo passo, chiosandone gli aspetti più interessanti dal punto di vista della psicolgia della letteratura (intesa come psicologia dell’artista, dei suoi processi creativi e del suo rapporto col pubblico).
La prima battuta, che dà il là al duello, è della donna: “[…] agitati incessantemente da impressioni artificiali e, per così dire, astratte, i grandi artisti – come voi – finiscono per attenuare in sé la facoltà di subire realmente i tormenti e le voluttà che la Sorte riserva loro?” Questo angolo del cuore è sempre stato considerato il riparo ultimo per l’artista a fronte degli urti del destino e delle scosse della storia. E più si trattava, in quel particolare scorcio di fine secolo, di una sorta di depauperamento, di macerazione anche fisica, presupposto all’allucinazione artistico-mistica o alla concentrazione feroce del pensiero (si pensi alle pozze di silenzio mallarméano, alla stanza cranica di Proust o al vuoto di realtà provocato dalle droghe e dall’alcol in tutta l’infiammata e deragliata linea dell’incenerimento maledetto nell’Ottocento francese). Si tratta, inoltre, di una sorta di sfasamento dell’artista rispetto alla realtà, quasi una finta a schivare il colpo diretto degli avvenimenti, un effetto sonnambolico di ralenty che permette la riacquisizione dell’esperienza come viva, più tardi, nell’arte, con un conseguente struggimento, tante volte espresso, sull’impossibilità di vivere “ in diretta”. Ma qui la donna, provocatoriamente, ribalta la visione appena esposta di artista, attribuendo tale condizione di riparo asettico all’uomo più che all’artista, prima ed indipendentemente dal pensarsi in funzione della creazione; un’accusa, nemmeno troppo velata, seppure gettata come un candido fiore del dire in tono mondano, di codardia o debolezza, a cui solo in un secondo tempo, artatamente, si sovraimpone un habitus, si disloca un alibi artistico. Il secondo affondo della donna scava ed amplia l’“accusa”: “ Sembrerebbe allora, vedendo la fredda misura dei vostri movimenti, che palpitiate solo per cortesia… avete troppo timore di non essere perfetti nelle vostre manifestazioni, non è vero? di mancare d’esattezza nell’esporre il vostro turbamento.”
Qui il discorso investe in un primo momento direttamente l’artista e non più l’uomo che precede l’artista, cogliendo come l’inclinazione all’analisi e l’aspirazione alla perfezione, tormento di tanti raffinati stilisti del periodo, si trasponga nell’uomo, e a contatto con qualcosa di così imperfetto, fluido e incontrollabile come la vita (realizzata nei movimenti incoscienti del corpo), rispetto alla cosmogonia della pagina scritta, finisca per paralizzare il gesto. Pertanto la volontà di fare di sé un capolavoro, il dandysmo decadente, rivelano la loro maschera marmorea e cinerea all’occhio “naturale” della donna. Che del resto non manca di sottolineare la dimensione narcisistica esasperata dell’uomo-artista, ancora una volta fondata sull’insicurezza dell’uomo, che è portato ad esibire se stesso come opera di fronte agli altri costantemente intesi come pubblico, e più pubblico arcigno, borghese e beffatore dell’arte (come appare allora in una vera e propria ossessione agli artisti dell’epoca, per la prima volta così chiaramente), ma nello stesso tempo critico ed esperto d’arte come fosse proiezione del sé. Ancora viene ribadita l’accusa che vede l’artista nato, come maschera posticcia e rassicurante, da un’insufficienza vitale dell’uomo.
Arriva a questo punto la risposta dell’artista sotto forma di aneddoto. Si tratta di un cantante che, sul letto di morte della fidanzata, sentendo scoppiare in singhiozzi la sorella di costei, non poté fare a meno di notare “i difetti di emissione vocale”. Eppure il cantante morì a causa di quella separazione, mentre la sorella smise il lutto il giorno stabilito dall’usanza. Come si conviene l’artista usa una paraboletta simbolica, la cui sostanza sta nell’antico valore della temperanza nei gesti, nelle reazioni e manifestazioni di gioia o dolore. Per altro ciò assume anche un valore significativo a questa altezza storica dopo i pianti dirotti e gli entusiasmi furibondi dell’uomo-artista romantico, che si affranca dall’abito mentale borghese espandendo tutta la sua anima più grande dei confini del mondo. Qui l’artista torna di propria volontà in-gessato, elegante e perfetto.
L’artista specifica poi concettualmente la chiusa dell’esempio già narrato, sferrando con decisione il contrattacco alle insinuanti battute della donna che abbiamo sopra riportato: “[…] le fibre cerebrali colpite dalle sensazioni di gioia o di dolore sembrano, voi dite, come allentate nell’artista, per via degli eccessi di emozioni intellettuali che il culto dell’Arte quotidianamente richiede? Io, al contrario, le giudico sublimi, queste fibre misteriose!” Le affermazioni della donna vengono dunque capovolte. Ella confonde l’evaporazione nel gesto, la vulgata, della passione, con la vera, profonda passione. Non solo due modi diversi di manifestare il sentire, ma due modi sostanzialmente diversi di sentire (uno flebile e uno potente, uno falso e uno vero). La donna, che rimproverava artificio e paralisi di “slanci naturali” all’artista, si lasciava ingannare proprio da una passione artificiosa, generante facile e contagiosa impressione: “il cuore violento è nullo”. Una passione cieca ed accecante come la superficie bianca del nulla. Dunque dietro il gesto clamoroso, la parola ardente, si nasconde un effimero traboccare più esibito che reale, mentre il vero “forte sentire” è un più trattenuto e continuo calore interno. Si tratta con tutta evidenza di una polemica antiborghese, laddove la spontaneità si vuol configurare come ruvidezza e viceversa, ed entrambe formano il guscio della passione, ma anche, come detto, di una gelida stilettata dell’artista d’area mentale simbolista, così distaccato e ironico, ai fratelli maggiori della bohéme e del romanticismo, all’“opacità delle loro grida”.
E’ quindi interessante notare il paradosso per cui, secondo questo punto di vista, l’esibizione romantica della passione o la solida concretezza del sentimento borghese risultano la parodia della vitalità, cioè l’irruzione della forma (pertanto della morte) sulla corrente della vita, che dev’essere invece preservata intatta facendola scorrere ininterrotta in profondità. In definitiva il formale artista decadente, con astuto sofisma, dove appena balena una verità forse mistificata, afferma la sua forma come difesa necessaria della vita passionale e bolla come forme parodiche e mortificanti le espressioni romantica e borghese, messe in ultima analisi arditamente sul medesimo piano.
Ciò che importa è ora passare dalla psicologia (anche comportamentale) dell’uomo-artista alla riflessione sulla creazione, al di là di alcune sgradevolezze dell’armamentario decadente (per esempio “le espressioni sentimentali” dell’uomo comune come “semplici sfoghi di animalità”; formula irritante in primo luogo per la sua ovvietà snobistica da Baedeker mentale del tempo), analizzando nell’artista la diversità del sentire presupposto al farsi dell’opera. Dice sprezzantemente il protagonista dei suoi clamorosi avversari: “Queste nature senza echi”. A questa natura da generazione spontanea dei sentimenti si vuole infatti contrapporre la fecondazione interiore dei fatti esterni da parte dell’artista in vista della creazione. L’artista avverte, nell’immediato, impressioni e sensazioni come tutti gli uomini, ma invece di una reazione quasi automatica ad esse, effimera e finita in sé, le fa ampliare dalla propria sensibilità, germinare e chiarire innervandole di riflessione, in quella risonanza profonda che configura il “metodo proustiano”. La seconda vista non parte idealisticamente dal soggetto, perforando o trasformando la realtà in contorni imprendibili dall’uomo comune, ma opera con un lento rimescolamento delle facoltà sulla cruda e indifferente realtà, assorbita con plastica passività dall’artista decadente. Resta in tal modo ribadita, contro le proposizioni della donna, proprio la superiorità vitale dell’artista, che se non può esprimere i “prolungamenti” dell’evento naturale con immediatezza, apparendo così come paralizzato, è tuttavia dotato di una maggiore costanza della propria fiamma interna che a lungo lavora e plasma il reale.
S’innesta a questo punto il fondamentale discorso sull’espressione perché, essendo negato all’artista lo sfogo incondito a favore del rimbalzo nelle cavità dell’animo, il divenire più complesso, arricchito e metamorfosato, dell’esperienza, non può più essere detto, consciamente, con “le parole della tribù”: “No, Lucienne, non ci va a genio di doverci tradurre malamente in queste manifestazioni mendaci abusate dalla gente.” Vivendo più intensamente (nel senso della dilatazione, effusiva e concentrata, del sentire) il momento, l’artista dovrà, forse per snobismo, certo per natura, e infine per motivi morali, produrre qualcosa di più intenso della parola che sia semplice specchio al mondo, cioè la poesia. Che diviene, pertanto, come ricerca espressiva e formale, un dovere. D’altra parte questa tensione, tutta scrittoria, può condannare al silenzio nella/della vita quotidiana a favore della sola arte (per lo meno nei confronti di un pubblico non selezionato in “martedì letterari”; si pensi di nuovo all’orrore, sbandierato tra gli altri dallo stesso Villiers in Due indovini, per la cultura da gazzette, veicolo trionfante delle “espressioni consacrate di cui il volgo si accontenta”). Con ferrea consequenzialità si può giungere fino alle annuali sillabe beckettiane, ripugnanti lo scambio referenziale, la chiacchiera mondana o l’intervista, in quanto l’artista se ha qualcosa da dire in più degli altri uomini sul mondo non lo può fare, come visto, in botta e risposta immediati e senza pause interiori che sviluppino nel tempo soluzioni formali (allora sì immediatamente sostanziali) adeguate.
Ciò in realtà si scontra con tante altre immagini dell’artista che abbiamo ereditato dalla tradizione: il ciarliero uomo da salotto o da osteria, il tribuno infiammato o il prolusivo vate, l’autore di motti memorabili o lo scrittore automatico, in tutta una produzione di “letteratura orale” enorme e sconosciuta, che se rinvenuta tramite attenti pedinamenti da registratore, cambierebbe nella sua verità spontanea il volto dei singoli artisti e delle storie letterarie. E tuttavia ci si propone, da parte della controfigura di Villiers (l’autore di prosa più amato da Mallarmé, è bene ricordarlo), un breviario di comportamento, per altro anch’esso di consolidata tradizione, per l’artista: “Per rispetto al giusto concetto di Sincerità dobbiamo essere sobri nei gesti, scrupolosi nelle parole, riservati negli entusiasmi, contenuti nella disperazione”. Ecco dunque definito il gelido erotismo ed il magnetismo discreto di questi eroi dei Racconti crudeli, spesso inseguiti non a caso in passate epoche storiche o condannati a giacere in una bolla fuori dal proprio tempo, con i loro modi aristocratici e la parola tesaurizzata, sfoggiata o irrisa, tra il frastuono della moderna città meccanica.
La donna, che in tutto il racconto gioca la parte più decisa ed aggressiva, non pare però convinta dei modi distillati dell’artista, di cui s’appropria per altro quale ispiratrice, sapendo che nascono come una sorta di reazione alchemica all’esistenza; si dice sì “abbagliata” dalle “profondità del cuore”, dalle “dolci espansioni della tenerezza”, ma poi getta l’idea risolutiva: “Io non so seguirvi”. Non si tratta dell’affettazione di modestia di un lettore incapace di orientarsi nei labirinti cartacei del cuore d’artista e nemmeno esprime la malinconia per un’impossibile condivisione profonda e simbiotica delle esperienze, ma è piuttosto un’ultima manifestazione di sfiducia sulla veritiera adesione tra uomo e artista: “[…] non sarò mai del tutto convinta che voi stesso provate, in maniera non immaginaria, ciò che fate provare”. Però, al di là dell’ennesimo attacco alla scissione-sovraimposizione dell’artista all’uomo, ci troviamo di fronte ad un rimprovero che ha anche un valore di dichiarazione di poetica. Si pretende infatti un prodotto artistico veramente nato dal crogiolo interiore delle sensazioni e non un incanto ipnotico da apprendista stregone, da abile manipolatore alessandrino o postmoderno di arte e vita. E’ questa una protesta della donna rivolta certo al particolare artista, astratto e distante, di connotato simbolista, ma anche un monito per il creatore di ogni tempo, acché nella delicatissima rete di infingimenti che comporta il rapporto tra arte e vita, non si perda ogni scintilla di passione e d’impegno sentimentale a favore del puro gioco da fumista. D’altra parte un più sottile brivido d’inesistenza si potrebbe evincere da quella frase in riferimento alla donna intesa come pubblico amoroso, quasi che, catturata dall’incantesimo impalpabile della dimensione astrale dell’arte, non sia più in grado di valutare come certe e non immaginariamente provate le sue stesse sensazioni.
L’artista, presa ormai coscienza della sua irrimediabile separazione (anche dalla donna-pubblico amoroso, che non accetta più di abbandonarsi alle regole incerte del gioco artistico), divaga amaramente, fingendo d’acconsentire, per contraddizione, alla possibilità di essere egli, come tutti, vuoto di passioni, e immagina teatri dove commuoversi e vivere a comando tutti gli eventi della vita. Privato del contatto con un pubblico che sia disposto a correre il rischio dell’arte fino alla propria perdita, gli sale in bocca il gusto dell’inanità della creazione, viene aggredito dal senso di effimero in cui la sua ricerca inesausta di luci vivisezionatrici e di esercizi di respirazione spirituale sono distrattamente osservati e dimenticati nel turbinio delle rotative, sepolti da nuovi stimoli letterari offerti in modo necessariamente superficiale al pubblico. L’artista s’immagina anche, per sentirsi “più a posto”, di fare una cosa impossibile ma molto rimuginata nelle meditazioni del decadentismo (si pensi a gran parte dei romanzi di Thomas Mann), cioè di dismettere i suoi panni stravaganti, di recidere la parte più viva di sé e diventare un ripulito borghese. L’illusione dura un breve momento e per contrasto proprio egli ricorderà alla donna il suo appuntamento, presumibilmente con un altro uomo, “comune”, rifinito e franco, maturo e sicuro nelle parole.
La donna dunque si allontana in carrozza, fidando nell’agilità disinvolta dell’artista nello sgusciare tra le pieghe della tragedia, nel temperare i dolori come matite con lo scherzo, e sicura di nuovi incontri segnati dalle frecciate complici di ex-amanti che si sono da lungo tempo conosciuti nelle proprie essenze. Vediamo in controcampo l’artista, tornato a casa, solo nella stanza più segreta, mentre si netta assorto le unghie, scorre veloce le pagine di alcuni libri, poi un sospiro e un gesto nervoso ne denunciano il martellare insopportabile dei sensi, isolato dalla mente con scandalizzato sdegno; poi il colpo di pistola.
Resta quest’ultimo gesto, da sempre il più ambiguo, da interpretare (e proprio il colpo di pistola, tra le diverse soluzioni finali, è l’estrema luce che porta inscindibile con sé il buio), anche per i personaggi letterari, che pure si differenziano dalle persone, secondo Forster, proprio per la loro assoluta trasparenza. In questo caso ci pare si tratti dell’ultima risorsa dell’artista per testimoniare la passionalità del suo essere e quindi la verità della sua arte; l’estremo richiamo per relazionarsi con la donna-pubblico amoroso che l’aveva abbandonato, attraverso un’azione, che, grazie all’inattingibilità di una sua definizione, sfiora solamente la sfera del patetico rispetto a facce malaticce e serenate notturne di riconquista e risulta pertanto, in certo modo, in linea con il proprio ideale di comportamento. Si dà certo, immedicabile, la sconfitta della parola, descrittrice e ricreatrice del reale mediato, a favore della nuda evidenza dell’atto, nel contesto depauperato dei rapporti tra artista e donna-pubblico. Il colpo recide, una volta per sempre, con la detonazione del simbolo, la decrepita corrispondenza d’amorosi sensi tra l’oltretomba dell’arte (ormai del tutto perso e richiuso) e il brulicare della vita, pieno di luce, ma altrettanto insensato senza il legame con la guida della profondità. Qui è Euridice a voltarsi e lasciare deliberatamente la mano di Orfeo: il mito si ribalta perché la donna torna all’insensato brulicare della luce mentre sul poeta si sprofondano definitivamente le tenebre.
Tuttavia il messaggio che su questo tema un’arte ormai autoreferenziale, ma di ciò non rassegnata o compiaciuta, può di scorcio raccogliere, sta nella visione d’un creatore dal nocciolo sempre fiammeggiante e di un fare di meditata perizia formale ma che si nutre simbioticamente di vita, tanto che parlare di autobiografia sarebbe una sciocca semplificazione.