«Questo è il punto – rispose don Chisciotte – è qui che sta la finezza del mio piano: se un cavaliere errante diventa matto con un buon motivo, che gusto o merito c’è? Il tocco personale sta nell’impazzire senza ragione…».
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, I, XXV
Che cosa ha scritto Enrico De Vivo nel suo ultimo libro, Poche parole che non ricordo più, Exòrma, Roma 2017, un agile volumetto di 166 pagine, 12 X 19, che stupisce e incanta sin dal titolo? Terminata la lettura, da dove cominciare per tratteggiare il senso di parole, che neppure il narratore dichiara di ricordare più? Forse può fornire la chiave di lettura del libro proprio il titolo, mai come in questo caso significativo delle numerose storie fantastiche e irreali, che qui si raccontano. Infatti, sin dal titolo il narratore ci si presenta col suo io trasognato e un po’ sornione, lo stesso che accompagnerà il lettore nelle pagine a seguire. Sembra dirci: – Perché sprecare troppe parole, se ne bastano poche per dire quel che si ha da dire? E già questo è un grande vantaggio per chi legge, cui non si richiede la fatica ingrata, per chi se la voglia sobbarcare, di certi romanzi che sforna l’attuale editoria. Questo narratore sa essere parco e non vuol far perdere tempo a nessuno. Pertanto, il libro unitario nel suo insieme grazie a quest’unica voce narrante, che tuttavia talvolta non si perita di dare la parola ai suoi personaggi, si compone di tante piccole storie che di rado superano le tre, quattro pagine. Solo alla fine sapremo (ma già in itinere lo si comprende bene) che quanto abbiamo letto non è altro che un Corso di formazione, definizione presa in prestito dal mondo della scuola e svisata a più non posso. In realtà, la parola formazione è da intendersi in diversi modi: “essa è stata dell’intero Corso mentre si svolgeva; è delle storie, ipotesi, visioni esposte in questo libro; è del qui presente scrittore.” (p. 161) Il narratore racconta delle storie che lo hanno formato in quanto voce narrante, dando corpo all’affabulatore parco (di poche parole) dell’indicibile titolo. Dico indicibile perché davvero esso non può essere detto impunemente, a meno che, appunto, non si voglia dire qualcosa di molto preciso. Poche parole che non ricordo più: come si fa a scrivere un titolo come questo? Poche parole, va bene; ma la relativa che segue, che non ricordo più, che cosa vuol dire esattamente? Se il ricordo non sorregge più la parola, che ne è di essa? E il naufragar m’è dolce in questo mare! Da che mondo è mondo, infatti, Mnemosine, cioè la memoria, usa la parola, e se essa non c’è più, scompare anche questa, indubitabilmente! È proprio quanto ha voluto dire Enrico De Vivo inventandosi un narratore che non ricorda più le sue poche parole? Se non ho capito male, penso proprio di sì. Penso, cioè, che per comprendere questo libro occorra abbandonare ogni criterio di comprensione convenzionale delle cose del mondo (compresa la letteratura), e contemporaneamente abbandonarsi alle fantasie che la scrittura è in grado di creare ex nihilo. Ma il bello di questa creazione, nella scrittura di De Vivo, è che essa come per magia diventa subito un nulla, poiché immediatamente se ne perde il ricordo. Siamo davanti, dunque, ad una narrazione che nega se stessa nel mentre avviene, un po’ come accade nei fatti della vita che, presi a sé, una volta accaduti, non ci sono più, e semmai rimangono solo gli effetti che essi hanno prodotto (la formazione). L’essere e il nulla coincidono senza alcuna mediazione. Niente di gratuito in tutto questo, anzi, direi che mai fantasia fu più reale delle esperienze di questo narratore che si muove alle pendici del Vesuvio e dei Monti Lattari come don Chisciotte si muove nelle lande desolate della Mancia o Mister Bloom nelle strade affollate della Dublino primo novecentesca. Alla fine il Corso di formazione è servito a capire che la fantasia è il solo e unico spazio della letteratura, che non ce ne sono altri, o meglio, che tutti gli altri sono l’esito di una più o meno grande compromissione con quella strana cosa che abbiamo sempre davanti a noi e che alcuni chiamano la realtà vera. Ma la fantasia sa bene cosa sia la realtà vera, la usa e se ne guarda, forse proprio come la realtà vera usa la letteratura per i suoi fini strumentali e la guarda in cagnesco quando la fantasia le sfugge di mano.
Finalmente – ho pensato tra me al termine della lettura – una boccata di sana letteratura. E pensare che si trattava solo di poche parole che qualcuno aveva dimenticato!
[Pubblicato oggi anche su www.iuncturae.eu]
Caro Gianluca,
forse puoi immaginare quanta contentezza provo per questa tua recensione: sia perché l’hai scritta (hai deciso di scriverla) tu, confermandomi così l’amicizia antica, sia perché quello che dici ha, come sempre, una grande potenza chiarificatrice. A partire dall’analisi del titolo, che è veramente perfetta. Io ti avevo forse raccontato delle discussioni con l’editore sul titolo che avevo scelto io, “L’apprendimento della fantasia”, al quale tenevo molto. Però quando Paolo Morelli mi propose quest’altro, andando a rileggere il punto in cui avevo scritto queste parole (delle quali… non mi ricordavo più!), capii subito che era il titolo giusto, per tutti i motivi che tu dici benissimo con linguaggio filosofico e morale, e perché segnalano il momento esatto in cui il narratore “perde la memoria”, addormentandosi a casa di Rossana e dando inizio così ai sogni e ai racconti. In fondo, tutta la letteratura avviene su una soglia del genere, nel momento della perdita della consapevolezza o della memoria, quando si accende una luce inaspettata e colma di promesse come quella dell’astronave dalla quale entrano ed escono i personaggi (i vivi, i morti, gli alieni) nella scena finale di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.
Mi convince molto anche il passaggio sulla formazione intesa come “realtà effettuale”, come risultato quasi inconsapevole di un processo che consiste in niente altro che in ciò che ci è accaduto (“il successo è ciò che è successo”, diceva il Maestro). È molto precisa, e racchiude forse il senso di ogni formazione vera, che non può mai essere programmata o pilotata come avviene oggi, essendo costituita piuttosto – “come accade nei fatti della vita” – da qualcosa di inafferrabile, di aleatorio e vitale. Non è un caso forse che i migliori, in tutti i campi, sono coloro che si sono formati a modo loro, non accademicamente, non scolasticamente, facendosi forgiare soltanto dagli eventi della vita, dagli incontri, dalle letture, senza scartare niente e nessuno.
Infine, la tirata finale sulla “realtà vera” me la sono goduta tutta. E spero se la godano anche i mercanti dell’editoria segaiola e ammorbante, con tutti i loro scherani e i loro librini scintillanti di inutilità.
Sono contento, infine, del prossimo (metà giugno) avvio di collaborazione tra ZIBALDONI, che è sempre anche casa tua, e IUNCTURAE, che un po’ sento già come casa mia. Ti faccio e mi faccio i migliori auguri.
Ancora grazie della lettura.
Enrico De Vivo