Quella di Massimo Rizzante è scrittura ed è personalità sia umana che intellettuale ormai rara nella deriva provinciale italiana (e anche europea); l’ennesima prova viene dal recentissimo libro Il geografo e il viaggiatore edito da Effigie a ottobre di quest’anno, che continua la coerente linea di ricerca costituita da tappe quali Un dialogo infinito (Effigie, Milano, 2015), Scuola di calore (Effigie, 2013), Non siamo gli ultimi (Effigie, 2009) – e a ragion veduta cito opere che appartengono all’ambito della saggistica, ma anche della poesia, a quello del reportage e a quello del dialogo: la scrittura di Massimo Rizzante non si enuclea in comparti chiusi, ma possiede un respiro e un interesse nei confronti del mondo e delle scritture altrui che fa di ogni suo libro (e anche di questo più recente) un vero e proprio universo all’interno del quale muoversi tracciando o cercando itinerari in continuo mutamento; si tratta dell’attuazione più coerente e fedele dello spirito del saggio come anche qui, su Zibaldoni, da anni si mostra: iniziare un viaggio del pensiero, della memoria, dell’esperienza sia affettiva che sensoriale, senza sapere in maniera definitiva o aprioristica verso dove un tale itinerario condurrà.
Nascono allora libri che vedono la luce lentamente, lungo il corso degli anni, che incontrano autori con i quali s’avvia un dialogo proprio nel senso socratico e in quello di un contatto continuo, protratto nel tempo – libri che, ibridati e mescidati quali essi sono, offrono stimoli molteplici; mi sia consentito scrivere qui che, quando il 4 giugno 2017 si è spento a Marrakesh lo scrittore Juan Goytisolo, pochissimi in Italia se ne sono accorti e ne sono rimasti commossi: Rizzante, nello spazio Homo poeticus del suo sito web ha pubblicato un bellissimo intervento che è anche una conferma della sua idea di letteratura: è la mescidanza delle culture e delle esperienze a fondare il valore e il senso dello scrivere. Ricordo che, alla precisa domanda se si sentisse spagnolo, Goytisolo rispose, parafrasando Carlos Fuentes, di sentirsi di “nazionalità cervantina” – sono sicuro che Rizzante a una domanda simile risponderebbe di sentirsi di “nazionalità ariostesca e galileiana e vichiana e rabelaisiana e cervantina pure e leopardiana e calviniana e celatiana…”. Sono infatti Italo Calvino e Gianni Celati i due astri intorno ai quali ruota Il geografo e il viaggiatore, ma questo significa anche che sono decine e decine le figure artistiche citate e discusse nel libro – va qui detto senza ulteriori indugi che l’energia allo stato puro che traversa tutto il libro è generata dalla forza dell’amicizia e dalla gioia di scrivere: si tratta dell’amicizia che lega Celati e Rizzante e dell’amicizia che accomunava Celati e Calvino (quindi, per via indiretta ma tenace Rizzante e Calvino) e si tratta di abbandonarsi alla gioia liberatoria di leggere, scrivere, riconoscere lo slancio vitale nell’irrinunciabile libertà della mente in contrapposizione a quell’essere “ospedalizzati in questo mondo” come Rizzante definisce l’atteggiamento di chi non si lascia coinvolgere dall’esistere, di chi pratica scritture asettiche o vendute alle esigenze del mercato, morte ancor prima di nascere.
Questa mia non vuol essere una banale recensione, bensì atto d’omaggio al lavoro di un intellettuale e di uno scrittore che, ripeto, tra i pochi possiede uno sguardo veramente non eurocentrico e radicalmente anticolonialista – non lo scrivo riferendomi banalmente al fatto che Rizzante legge autori sudamericani, giapponesi, o delle “periferie” d’Europa, ma perché è la tensione etica e intellettuale (mai programmatica, bensì connaturata) che informa la sua ricerca e la sua scrittura a essere non eurocentrica e anticolonialista (dunque anche antifascista e antirazzista). Perfetto è, allora, il titolo nel quale “il geografo” è Italo Calvino e “il viaggiatore” è Gianni Celati, intellettuali continuamente impegnati a mettere in discussione sé stessi e il proprio tempo, artisti dalle radici profondamente e consapevolmente affondate nella grande, millenaria tradizione romanzesca e novellistica, oltre che saggistica. Proprio il saggio riacquista, nelle opere di Massimo Rizzante, la sua polimorfica identità che coincide, esatta, con l’esistere quando quest’ultimo sa sottrarsi al mercantilismo e all’asservimento: Il geografo e il viaggiatore è la tappa più recente di un itinerario di ricerca che, saggiando la letteratura e il reale, celebra quella felicità di scrivere che deriva da un rapporto profondamente umano con il mondo e con le persone: “Posso tranquillamente affermare che il poco che ho scritto, letto, tradotto fin qui, l’ho fatto per amicizia. Credo che coloro che spendono buona parte della loro vita dedicandosi a quello che chiamiamo letteratura (…) sospettino il significato di questa “virtù” che, secondo Kundera, è la sola cui possiamo aggrapparci quando ci coglie il presentimento o la presunzione di possedere sane convinzioni. Si scrive per qualche amico vivo (Celati) o, in molti casi, per qualche amico defunto (Calvino) che non abbiamo mai conosciuto personalmente, ma da cui ci sarebbe impossibile separarci. Questo libro smisuratamente piccolo, scritto e rivisto per un periodo smisuratamente lungo, è alla fine un libro su un’amicizia, quella tra Calvino e Celati. Ma anche sull’amicizia come forma, forse l’ultima, in grado di renderci meno scontenti e più in dialogo con il mondo, ovvero meno sentimentali e più sensibili” (Il geografo e il viaggiatore, pag. 7).
E mi piace aggiungere che anche il carissimo Enrico De Vivo è spesso presente, in queste pagine rizzantiane, proprio come amico, ma (si faccia attenzione) l’amicizia di cui si scrive nel libro nasce e si rafforza anche grazie alla stima intellettuale reciproca, l’affetto si nutre di comuni letture e passioni – nelle splendide pagine intitolate Nel giardino zen del Gobbo Divino Rizzante racconta di un suo sogno durante il quale lui stesso, Gianni Celati, Italo Calvino ed Enrico De Vivo incontrano il “Gobbo Divino” (Giacomo Leopardi) mentre medita in un giardino sulle pendici del Vesuvio (la zona vesuviana insieme con quella padana sembra essere in questo libro centro ideale di una “repubblica” di amici e di maestri che accoglie, indifferentemente, i vivi e i morti, il presente e l epoche passate); a parte lo spirito del racconto, del tutto somigliante a quello che ispira Poche parole che non ricordo più di De Vivo (e non è un caso che il sogno abbia preso vita dopo la lettura dei “saggi inventati” o, come li chiama Rizzante forse con significativo lapsus, “immaginari” dello stesso De Vivo), importante è l’affermazione da parte del Gobbo Divino che “… dovremmo imboccare un altro sentiero: quello dell’accettazione di ciò che alle origini anche noi occidentali abbiamo chiamato Natura: il fluire ininterrotto che cancella la frontiera tra soggetto e oggetto. E immaginare l’artista non come un uomo assediato dalla sua sfida con gli dei per la conquista della bellezza, ma come qualcuno che dimora sulla soglia e che si fa strumento sempre duttile, e allo stesso tempo fedele, dell’eterno divenire” (pag. 123): riconosco in quest’affermazione il senso profondo del libro di Rizzante che, nel ventaglio amplissimo di autori cui fa riferimento, non perde mai di vista il vivere come energia spontanea e non mercantile, allegra e trascinante, sempre in moto, imprevedibile e liberatoria – perché è la libertà uno dei grandi temi di tutta la ricerca rizzantiana la quale, in termini di scrittura, è perfettamente in sintonia con una tale concezione, per cui essa da saggio può farsi racconto, poi riflessione filosofica, poi memoria, quindi dialogo (sia verbale che epistolare), oppure pagina di viaggio, appunto di lettura, verso (ricordo di nuovo i non pochi suoi libri di poesia, tutti fuori dai sentieri ripetitivi e asfittici della poesia italiana contemporanea). “Una parola a cui tengo è la parola atelier. Significa bottega o officina ed è tanto antica quanto l’arte. Forse per questa ragione è così piena di mistero e allo stesso tempo suona alle nostre orecchie di mercanti del XXI secolo un po’ démodé. Questa parola ci ricorda che l’arte è il prodotto di una téchne, di un saper fare” (Non siamo gli ultimi, pag. 21) – l’universo di Massimo Rizzante, mobile, screziato, popolatissimo e nello stesso tempo coerente da libro a libro, trova in quest’umiltà del fare la propria origine e in tal modo si chiarisce perché tanta parte ha, nel Geografo e il viaggiatore, la figura umana e letteraria di Gianni Celati: non solo nel lungo dialogo tra pagina 66 e pagina 86 (Sulla Fantasia, il Badalucco e la Contentezza) che richiama i precedenti, splendidi dialoghi con diversi scrittori contemporanei di Un dialogo infinito (opera, quest’ultima, che dovrebbe divenire irrinunciabile livre de chevet per chiunque si reputi lettore smaliziato ed esigente), ma ripetutamente Rizzante affronta con Celati la questione del narrare, quel Camminare nell’aperto incanto del sentito dire (è il titolo di un altro testo contenuto nel libro) e che riattribuisce valore al farsi raccontare le storie che poi transiteranno in forma di libro esercitando la curiosità dell’incontrare la gente nei luoghi di normale aggregazione (i bar di provincia o di periferia, per esempio); viaggiare è riuscire a vedere ciò che è vicinissimo, essere capaci di sorprenderne la magia e l’enorme carica di novità – “… perché Celati è un fedele della fantasia e condivide con uno dei suoi maestri filosofi, Enzo Melandri, la ricerca della poetica dell’immaginazione esatta, che è esattamente opposta alla via razionalistica che da Cartesio in poi ha sempre visto nell’immaginazione una facoltà che induce all’errore perché permette all’uomo di vedere come se fossero presenti le cose immaginate” (Il geografo e il viaggiatore, pag. 33): in tal senso uno dei fili rossi che attraversano le pagine del lavoro è la dialettica tra Calvino, scrittore che impone alla propria scrittura le regole rigorose del giuoco letterario e combinatorio, e Celati, colui che recupera e valorizza la tradizione dell’oralità e della narrazione d’ispirazione popolare; mi scuso per l’eccessiva semplificazione, ché l’intiero Il geografo e il viaggiatore è, in modo assai complesso, problematico e accorto, un riproporre il tema del rapporto tra scrittura e mondo, tra narrazione e razionalità, tra istinto vitale e leggi narrative, tra tradizione e presente (“non siamo gli ultimi”, aveva già affermato Rizzante), tra convenzione letteraria e inafferrabile, irrefrenabile divenire dell’esistenza – non è soltanto in gioco, infatti, la letteratura, ma l’essere umano nella sua interezza, soprattutto quando questi vuole narrare e narrarsi. Avvincenti vengono così a essere le pagine nelle quali Massimo Rizzante racconta la predilezione calviniana per Galileo e per Leonardo, il suo amore (quanti l’avrebbero detto?) per la luna, la sua convinzione che sia la forma breve (il racconto, la novella) la vera vocazione della letteratura italiana. Italo Calvino, applicando alla narrazione il rigore matematico del “geografo”, spalanca anche gli orizzonti enigmatici e sfuggenti del reale, pur non cedendo mai, sottolinea Rizzante, all’incanto che da questo promana – l’autore de Il geografo e il viaggiatore mi sembra individui in tal modo due linee parallele, a volte sovrapponentesi, altre volte divergenti, della narrativa italiana contemporanea.
Mi preme anche sottolineare la bellezza dello stile, limpido e mosso, inventivo e rigoroso, di Rizzante che, in maniera antiaccademica si richiama, per esempio, a maestri come “l’Arso Vivo” (Giordano Bruno), come il “Giambattista Furioso” (Giambattista Vico – ma non senza un richiamo all’Ariosto, altro autore fondamentale anche per Calvino e Celati), il “Gobbo Divino”, appunto, o Bergamín e Agamben (binomio che continuo a trovare fecondo per qualunque intellettuale italiano che voglia liberarsi da una cultura ingessata e di maniera) e mi preme parimenti constatare come il tanto spesso vituperato lavoro critico riconquisti dignità e nobiltà: “La critica è una forma di autobiografia e l’autobiografia è un genere plurale. Chi è se stesso più di un’ora al giorno? Io no di certo. Io sono un flâneur dall'”allure vagabonde”, come ha scritto Montaigne, che scopre a ogni passo angoli e scorci sorprendenti della sua fragile coscienza. Scrivo, come ben sapeva l’autore degli Essais, per saggiare questa fragilità che mi costringe a viaggiare nel mondo o in una stanza, con impazienza e piacere per poi, un attimo dopo, ricadere se va male nel vuoto, se va bene nel vago, così caro a Leopardi” (Il geografo e il viaggiatore, pag. 129) – comincia così la “nota azzurra” di dossiana memoria che conclude il volume, un elogio sottile del saggista che walserianamente passeggia traverso il mondo o che non smette d’essere un “narratore delle pianure” secondo la magnifica suggestione celatiana.
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