Inseguire il tema dell’ustione per scaldarmi e bruciarmi al magistero di chi sa additare una via alla parola; mi affido così a René Char poeta-fabbro, poeta-maniscalco, poeta dal grembiule di cuoio – ed ecco la scintilla esplosa fuori dalle braci che brucia e incenerisce quel cuoio. Siamo nelle Vicinanze di Van Gogh, ove appunto “una scintilla ha bruciato il mio grembiule di cuoio. Che potevo farci? Cuoio e cenere” perché in Char la poesiaconoscenza si manifesta con l’esplosione del lampo e l’ustione del fuoco, perché l’approssimarsi al senso è intermittente e nell’intermittenza devasta, costringendolo a dire, chi ne viene toccato – è Orione degli Aromi cacciatori “pigmentato d’infinito e di sete terrestre” quando sceglie di abitare la terra e ha i tratti anneriti dalla sua attività di cacciatore-e-fabbro che riprofilava la punta delle sue frecce nella fucina ardente – è Orione innamorato della Stella Polare e che sa che i figli della terra appartengono al fulmine (qui Char dice éclair, lampo che illumina, che porta e apporta la luce), umani “pietra del fulmine” – umani scintille dall’origine sconosciuta e destinati a bruciare un po’ più in là del presente e cioè nel proprio futuro, umani la cui sofferenza è capace di rompere l’immane silenzio che li avvolge e sovrasta. “Come m’è venuta incontro la scrittura? Come piumaggio d’uccello sul vetro, in inverno. D’un sùbito si è levata nel focolare una rissa di tizzoni che, ancora adesso, non ha fine” (da La biblioteca è in fiamme).
La folgore (qui foudre, fuoco che s’accende improvviso) dal volto di scolaro affamata d’amicizia s’accende e dilacera la notte che la precede e che la segue, la segna per sempre, può addirittura deflagrare nella testa del poeta avvicinandolo pericolosamente alla morte, ma anche al riconoscimento che “la folgore e il sangue sono una cosa sola” – meravigliosa affermazione d’identità tra l’elemento che illumina e brucia e l’elemento vitale che ci scorre nelle vene.
Seguo Char nello studio di Giacometti poeta delle filiformi figure: come le avesse consumate il fuocoartistascultore in cerca del residuo ultimo, incombustibile, doloroso e vivo. Mi viene in mente, in maniera incongrua, la leggenda di Omar Khayyâm, il quale sta cantando la quartina del lamento per il recipiente di vino infranto (“ah! Il vino imbeve ora la polvere del suolo, sprecato piacere! Sei forse ubriaco, mio Dio?”) Il viso del poeta diviene allora, a punizione della bestemmia, nero e Omar deve cantare una quartina riparatrice per riacquistare il proprio aspetto – viso annerito, ustionato di Khayyâm, di colui che lotta o discute con Dio e ne riceve il marchio distintivo, ché l’ustionato può essere anche lo sfigurato: la poesia sfigura? Sì, cambia definitivamente ciò che si era prima d’incontrarla, prima che a lei ci si ustionasse. Così Giacometti tocca la materia, la sfigura nel senso ch’egli viola la forma definita dalla tradizione, bruciandola e graffiandola e lacerandola per restituirla dopo la sua disperata e disperante descensio ad inferos. E qui voglio associare ustione a strappo e a lacerazione: il pavimento dello studio di Giacometti cosparso delle splendide, ma doloranti rovine della sua ricerca artistica e poi, di nuovo in questo mio procedere per salti e per frammenti, mi ricordo: a ogni ritorno a Roma compio laico pellegrinaggio in San Luigi de’ Francesi e in Santa Maria del Popolo ove, ancora, malgrado l’elettricità, gli spazi conservano sentore del fuoco di centinaia di fiammelle a esaltare il porpora dei panneggi e il buio dei fondali – lì vedo l’ustione dell’arte scaturita dalle mani del Merisi, la folgore violenta e poetica che disarciona Saulo da cavallo, lo strappo nel gesto delle mani di qualcuno che era entrato nella taverna, che aveva levato una mano a indicarlo – qualcun altro ripetè il gesto, come fosse un’eco e qualcun altro fece lo stesso, eco della prima eco: dici quell’uomo là, seduto nell’angolo in fondo? : sì, lui, ripeté un quarto puntando il dito verso di lui: perché non alzi il viso, perché non mi guardi? : ed egli alzò il viso, guardò il dito levato: che cosa vuoi da me? lasciami in pace: vieni, seguimi: lasciami in pace: lasciami in pace – ma la conseguenza sarà poi una crocifissione a testa in giù.
L’Empedocle di Hölderlin, ovvero il cercare compimento del proprio esistere e pensare nel fuoco dell’Etna: il sapiente ascende verso il crogiuolo ardente dove il fuoco (congiunto di φῶς) chiama affinché si attui la compenetrazione tra il pensiero e la terra – risoluzione dell’attesa. Non suicidio, ma atto sacrificale per dare completezza alla propria esistenza di pensiero – il Fuoco che sale dalla Terra purifica. Lo sapeva bene il poeta svevo abitato dal fuoco della Grecia, ma anche di Patmos e consumatosi in un’attesa quasi silente lungo i decenni dell’enigmatica follia come se l’ustione non gli avesse lasciato altro che un compìto poetare sulle stagioni. In precedenza era stato un tempo d’interrogazione del divino, il vicinodistante, il pericoloso e seducente, l’ustionante.
Sfiorando la grecità sapienziale, nume tutelare ancora Char, non posso non rileggere Eraclito, la combustione che per alterno avvicendarsi crea il ritmo del mondo e dunque del pensiero, espansione e contrazione, espansione e contrazione. Sono fuoco gli astri e, ormai sappiamo, viaggiamo dentro un universo sempre diveniente nato da una combustione iniziale, vertiginosamente vivi in uno spaziotempo che chiama la mente ad accendersi di pensiero.
Perché “tutte le cose governa la folgore”. E poi è greco l’olivo, sacro perché carbonizzato dal fulmine di Zeusatena, toccato e segnato dal divino, divino il quale è, ci insegna ancora Char, “l’espressione meno opaca di noi stessi” e la cui dimora “sta nella fiamma, nella nostra fiamma sedentaria”.
L’ustione consustanziale all’esistere, suo fondamento e suo motore.
Il devastato dall’ustione ne attende la ripetizione: ecco il paradosso della e nella poesia. E questo fuoco che tocca il corpomente del poeta è sodale dei fuochi semiincappucciati che i migranti accendono sulla spiaggia per rasciugare i propri abiti zuppi di mare e di affanno, di quelli che scaldano (pochissimo) corpi in attesa di essere venduti ai clienti lungo le statali.
Un’ustione che è un marchio: penso a Marina Cvetaeva citata da Paul Celan – tutti i poeti sono ebrei. Ustione-marchio, ustione-destino, ustione-sodale: al fuoco si scaldavano e si scaldano generazioni di nomadi, fuoco nel canto e nella musica, ma anche fuoco che tocca e mangia le dita di Django Reinhardt e ne esalta la chitarra magica, esclusa, ribelle, manouche – e non posso tacere dei roghi che s’accendono ogni tanto nelle fredde roulottes pigiate nei Lager contemporanei che ipocriti chiamiamo “campi nomadi” – bruciano lì dentro corpi di bambini: ma essi non sono i nostri bambini e il fatto s’oblia. Allora la poesia, l’ustionata, deve conservarne memoria, perché nulla che tocchi l’umano le è estraneo e perché è essa stessa nomade ed esclusa, migrante paria, come ancora dice la Cvetaeva.
In Celan rimane la cenere dalla combustione nel forno crematorio e allora la poesia dice – o per dilacerate sillabe balbetta – l’ustione annientante dei corpi, dell’Ebraismo, di due intere civiltà – l’europeo-tedesca e l’ebraica. “Dove fiammeggia una parola che testimonierebbe per noi?” domanda la poesia di Celan cercando il “cristallo del respiro”. La fiamma ossidrica di Burri ustionando la materia s’apparenta a una poesia che ridice non il bruciare del desiderio, ma il bruciare annientante della violenza, il nulla storico e metafisico entro il quale la parola erra e pronuncia sé stessa. Ecco: è Sarajevo, la biblioteca bruciata, distrutta, bombardata, le cui nicchie e i cui vuoti archi Kounellis colma di libri, libri, libri – lì, nell’occhio dell’ustione non creatrice ma annientante, l’artista greco ricolloca con ostinata fede libri e libri e libri.
Per concludere, ancora Char: la luce delle candele nei dipinti di Georges de la Tour riverberano spesso nella poesia chariana: al Louvre ho cercato la sala dedicata, ho sostato davanti alla Maddalena alla luce della candela , ero lì in pellegrinaggio nel medesimo spazio d’angolo ove il poeta avrà sostato in piedi o col pensiero e immaginato la lama della fiamma lasciare colare l’ustionante olio dopo l’amore mercenario. Ustione e silenzio, dolore e meditazione, umiliazione e riscatto.