ENRICO PALANDRI, Boccalone. Storia vera piena di bugie
Bompiani editore, 2017 – Collana: Tascabili narrativa
Per Bompiani, con una foto di copertina d’Enrico Scuro, torna in libreria il debutto di Enrico Palandri, Boccalone, trentotto anni dopo la prima edizione per L’Erba Voglio, la creatura editoriale di Elvio Fachinelli. Ambientato a Bologna, negli anni del movimento, di radio Alice e Penthotal, degli Skiantos e dei blindati di Kossiga, dell’omicidio di Francesco Lorusso e di Alice Disambientata. E delle lezioni, al DAMS, di Gianni Celati, Giuliano Scabia e Umberto Eco, frequentate da Palandri, Pier Vittorio Tondelli, Andrea Pazienza, Igor Igort Tuveri, Carlo Mazzacurati, Roberto Freak Antoni, Claudio Piersanti e Carlo Rovelli.
Libro d’incontri, romanzo d’amore e di formazione, di quel «popolo alto di camminatori, notturni, silenziosi», di cui Palandri intercetta la voglia di comunicare, di farsi delle storie, per dirla con le parole – da Il lunario del paradiso – di Gianni Celati, superando dogmi ideologici e la politicizzazione, talvolta forzata, propria dei movimenti artistici dei Settanta italiani.
Un’opera che come poche – assieme solo, forse, alle tavole di Paz e alle liriche di Freak Antoni – fa proprio, come un’istantanea, lo spirito di quel momento, attraversandolo. Senza ottunderlo, quasi ne fosse controcanto o ne risultasse l’autore inconsapevole corifeo. E infatti: «dovremmo scriverla tutti assieme questa storia, con molte voci confuse assieme, dimenticate sulla pagina scritta: il registratore che adopero io è invece questa maledetta bocca larga, che perde in continuazione».
Una storia che rispecchia le passioni cinematografiche del periodo, a partire da Woody Allen, più volte menzionato nel testo. Io e Annie pare fornire anche ispirazione strutturale per la narrazione delle traversie affettive d’enrico e anna, i due protagonisti, dall’iniziale rigorosamente minuscola. Sino alla tanta musica, trasmessa e vissuta, a partire da Bob Dylan, di cui si riportano estratti da Ballad in plain d, Like a rolling stone, Boots of spanish leather, Mama you been on my mind.
Un libro che, come dimostrano le quattro ristampe succedutesi, rimane capace di trascendere generi (è autobiografia? inconscia autofiction?) e codici, restituendoci, in letteratura, un “altrove”, quello d’una generazione che voleva lasciarsi alle spalle gli anni di piombo, passando dalle parole rivoluzionarie alla rivoluzione dell’io-con-gli-altri (non più: l’impersonale “noi”), ché «facevamo l’amore con la politica e facevamo politica con le storie d’amore» (sono parole di Enrico Palandri).
Insomma, la trasposizione di una libertà “per”, piuttosto che “da”, com’era, invece, quella anelata dalla generazione sessantottina, ancora fedele-alla-linea e alle ideologie definite dal dopoguerra. Una libertà conseguita anche per il corpo, mai temperato, estatico («questa come tutte le storie d’amore è una storia sessuale»), ineffabile e polimorfico, in perenne movimento.
Pagine fatte d’una lingua leggera, cantata, di tempi dispari e paratattica, «un brusio leggero che parla di tutti» i sentieri seguiti e, poi, abbandonati, di fughe (in parole, sovente mutuate dal gergo dei giovani) minoritarie e deviazioni, nel solco delineato da Deleuze & Guattari col loro Kafka. Per una letteratura minore.
Quando uscì, Boccalone – celebrato da Goffredo Fofi sulle pagine de “Il Manifesto”, amato da Elsa Morante – divenne una sorta di instant classic, accolto come un ritratto dei ventenni alla fine degli anni Settanta, una generazione che stava esplicitando la propria rottura rispetto all’austerità ed alla retorica del lavoro del PCI di Berlinguer, così come la divaricazione dagli esperimenti intellettualistici del gruppo ’63. Come scrive Pier Vittorio Tondelli, che di Palandri è stato amico e compagno di strada: «Il sottotitolo del volume porta questa didascalia: Storia vera, piena di bugie. Palandri sembra affermare, con divertito stupore, il riavvicinamento alla letteratura. Sigla con essa un patto biografico e, nello stesso tempo, attraverso la consapevolezza della scrittura, le preoccupazioni del linguaggio da usare, il taglio dell’azione, le contrapposizioni degli episodi, lo trasforma in operazione estetica».
Questo piglio spontaneo – non tanto dissimile da quello, coevo, del primo Nanni Moretti – ci restituisce, ancor oggi, l’immediatezza di un mo(n)do di sposare vita ed espressione poietica, forma stilistica (le paratattiche, la punteggiatura libera, gli anacoluti…) al contenuto, registrando – quasi in presa reale, non mediata – le forme di comunicazione e di condivisione di quel popolo di camminatori.
Oggi, Enrico Palandri è Professor of Modern European Literature, a UCL, Londra. E dopo Boccalone, ci ha regalato testi importanti, tradotti all’estero: penso a romanzi come Le vie del ritorno o L’altra sera, o ai saggi Pier. Tondelli e la generazione e Flow. Sino a L’inventore di se stesso, recentemente edito sempre da Bompiani.
Ma quell’esordio, la cui fruizione non si dissocia dall’epoca dei fatti, resta importante pietra d’angolo nella recente storia – non solo della letteratura – italiana, quasi appartenesse più a quegli anni, a quella società, piuttosto che al percorso dello scrittore. Che, non a caso, non ha mai messo mano alla forma originale del testo della prima edizione, limitandosi – in occasione delle varie ristampe, sino a quest’ultima – soltanto ad integrarlo con prefazioni e postfazioni.
Boccalone è anche l’esito di quel tentativo di creare una via alternativa all’egemonia – politica, culturale – di PCI e DC, seguendo, lungo i sentieri di Sartre, Deleuze, Foucault, il “bianconiglio” di Carroll (e dei seminari celatiani), alla ricerca della deterritorializzazione, fisica emotiva e culturale, e della moltitudine, a sostituire concetti (già allora) desueti, quali patria e classe sociale.
Sincero come una tegola in testa, anche nelle bugie spante dalla bocca larga del protagonista – «una forma di emofilia sentimentale», le definisce Palandri – Boccalone resta un innegabile documento di quella stagione che ha visto emergere, come soggetto attivo, lo “studente” ed il “giovane”, identificabili come categorie non fisse o politicamente categorizzate a priori, ma partecipi nell’orizzonte sociale. Anche – e soprattutto – quando percosse e silenziate, dalla forza delle armi della polizia (a Bologna, nei tragici giorni di marzo ’77) come dal potere (pensiamo a Lama e al suo discorso all’università di Roma a febbraio dello stesso anno, oltre che ai governi diccì e a Cossiga, di cui varrebbe la pena rileggere l’intervista rilasciata a “Il quotidiano nazionale”, ottobre 2008).
A quel contesto, risale anche la pubblicazione, quasi contemporanea, di Bologna marzo 1977… Fatti nostri, raccolta delle telefonate giunte a Radio Alice durante i drammatici giorni di marzo, la cui firma “collettiva”, “Autori molti compagni”, include anche Palandri, assieme a Claudio Piersanti, Carlo Rovelli, Maurizio Torrealta. Libro cui Boccalone fa esplicito riferimento e di cui costituisce una sorta di contraltare, quasi una sua continuazione, secondo quell’esperienza di redazione collettiva riscontrabile pure in Alice disambientata, diario di un anno di corso al DAMS, con Gianni Celati, pure edito da L’Erba Voglio. Cui avrebbe dovuto, inoltre, accompagnarsi Il vestito policarpico, opera altra pensata da Palandri e Claudio Piersanti. Più letteraria di Fatti nostri, ma della stessa specie, mai pubblicata, il cui titolo derivava da una poesia di Piersanti – un protagonista altro del testo.
Il calarsi anima e corpo nell’aria-che-gira-intorno, l’intrecciarsi del flusso di coscienza d’enrico – costellato da digressioni continue – con la casualità degli incontri, con l’umore del momento, sino agli errori, d’ortografia e di vita («li amo, non li difendo», ci informa il narratore). Il registrare l’accidente, anche il più disparato, con l’inserimento, nel testo, di estratti da lettere e da conversazioni raccolte, incidentalmente, durante la redazione del manoscritto – composto su una macchina per scrivere presa a prestito e rivisto a Venezia, in un appartamento coabitato dal suo professore, Gianni Celati (il Gianni scrittore citato nel romanzo). In sintesi: una impagabile apertura verso l’esterno e l’altro da sé, quasi incrociando Emmanuel Lévinas allo strutturalismo, tanto da superare il punto di vista consolidato dell’autore come depositario unico – e ultimo – dell’opera. Opera che viene completata, in un flusso creativo condiviso, dal suo lettore, capace di accostarsi al timbro musicale della scrittura, in un abbraccio non dissimile da quanto descritto da Seneca ne Le lettere a Lucilio. Ecco i pregi che, ancora oggi, fanno di Boccalone un libro da leggere. Una (non) letteratura che è stata definita lirico sentimentale, modulata sui tempi dispari del jazz (versante Coltrane), improvvisata e non lontana da certa prosa beat (Kerouac, in prima istanza, ma anche Richard Brautigan), così come da taluni esperimenti di Céline, a cui s’accosta per il rifiuto delle coordinate lineari cronotopiche proprie del romanzo tradizionale, scardinate col ricorso ai tempi del presente storico e dell’imperfetto, in levare, mai vincolati alla rigida consequenzialità rettilinea degli accadimenti. E, soprattutto, una scrittura compagna di viaggio della prima produzione di Celati, penso soprattutto a Le avventure di Guizzardi e La banda dei sospiri, assai apprezzati da Palandri.
Il quale riesce, nell’opera di esordio, a includere anche tanto d’antico, da Giacomo Leopardi, ispiratore sottotraccia di tante pagine del romanzo, a Dante Alighieri (La vita nova), da Torquato Tasso sino a Rimbaud, Eluard, Shakespeare e Dickens. Tutte citazioni che traboccano dallo schema formale del ciclo delle stagioni, che nel libro (apparentemente) organizza la (non) trama, rilascio d’un laccio emostatico emotivo che ci avvolge, nel riportare le voci di quei ragazzi, dei quali Palandri scrive, nella Postfazione alla recente ristampa – Essere al mondo come i gatti e la luna: «l’ironia, il lirismo, la disperazione e il buon umore ricostruiscono la lingua daccapo in ogni frase tanto che a volte pare non abbiano niente da dire e vogliano solo smontare la seriosità di chi fa la voce grossa». Perché, sempre, «più importante della letteratura è che si svolgano le storie e i destini, si viva ci si innamori, altrimenti di poesia non si comincia neppure a parlare».
BIBLIOGRAFIA CRITICA SELEZIONATA
AA. VV., Generazione in movimento. Viaggio nella letteratura di Enrico Palandri, a cura di Enrico Minardi e Monica Francioso, Longo editore, Ravenna 2010
Marco Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001
Gianni Celati, La sua fantastica dote: essere quello che è, in “L’Unità”, 10 gennaio 2003, Nuova Iniziativa editoriale, Roma
Gilles Deleuze e François Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, traduzione di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1975
Alberto della Rovere, Dialogo con Enrico Palandri, Edizioni Saecula, Zermeghedo 2015
Valentina Desalvo, Il piccolo prodigio di Boccalone, in “La Repubblica”, 25 gennaio 2003, Gruppo editoriale L’espresso, Roma
Goffredo Fofi, Dal movimento di quegli anni arrivò, finalmente, un libro. Non un balbettio, Boccalone, storia di un popolo di incontentabili, rissosi, sfrenati desideranti “delicati come la sera, dolci come la campagna di Provenza”, in “Il Manifesto”, 18 marzo 1979, Cooperativa editoriale, Roma
Monica Francioso – Enrico Minardi, Enrico Palandri, Cadmo editore, Osmannoro Firenze 2010
Pier Vittorio Tondelli, Una sera, un treno, in “Rockstar” 116, maggio 1990, poi in Un weekend postmoderno. Cronache degli anni ottanta, Bompiani, Milano 1990
Le edizioni di BOCCALONE
Boccalone. Storia vera piena di bugie, L’erba Voglio, Milano 1979
Boccalone. Storia vera piena di bugie, Feltrinelli, Milano 1988, con postfazione dell’autore
Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano 1997, con nuova postfazione dell’autore
Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano 2011
Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano 2017, con nuova postfazione dell’autore.