Caro Enrico De Vivo,
[…] “Zibaldoni e altre meraviglie” è stato un esperimento unico in questi anni, perché attualmente, sempre di più, SCRIVERE VUOL DIRE SOLTANTO TENTARE IL COLPO GOBBO DEL SUCCESSO, E METTERE L’IDEALE DEL SUCCESSO IN PRIMO LUOGO, ADEGUANDOSI ALLA PROSA DEI GIORNALI E METTENDO FUORI LUOGO TUTTE QUELLE INCERTEZZE CHE CI RENDONO ANCORA UMANI, E NON PURI CALCOLATORI DEL COLPO GROSSO.
Il tuo lavoro è stato vastissimo e modesto. È stato uno studio per ritrovare una lingua che non sia quella standardizzata della scuola e dei giornali, una disciplina non per trovare la via più furba per farsi avanti, ma al contrario – se posso dirlo – un’ideale di scrittura che è stato sempre il mio: lo scrivere come una forma di gratuità, sottratta (quando ci si riesce) alle mille pressioni della vita sociale, e votata a quella ricerca fantastica che ci collega affettivamente agli altri, e infine una ricerca letteraria lontanissima dai repertori di chiacchiere che si applicano ai libri correnti come etichette, e lontana anche dal vizio di ridurre la letteratura a forme di “curiosità”.
Io credo che qualunque cosa buona si scriva, nasce da uno stato di gratuità, senza scopo, senza furbizie… ossia nasce da quella gratuità che si chiama affetto: il senso del TU a cui ci si rivolge, come ciò che viene infinitamente prima dell’IO, prima DELL’EGO TRIONFANTE IN QUALUNQUE MODO.
Se mi posso permettere di leggere a mio modo il lavoro che hai fatto in questi anni, direi che lo vedo come continuazione d’una tradizione che va da Leopardi ai poemi cavallereschi a Basile, alla tradizione della novella italiana, e anche alla tradizione del pensare filosofico come la vera forma della tradizione. La tradizione è una forma della mutevolezza, ciò che cambia nel profondo la nostra vita e nelle cose che scriviamo col passare del tempo (non è il cambiare per stare al passo con gli altri), ed è in questo nodo che la tradizione si lega al mutamento e il mutamento alla fantasia, come la pensava Vico.
Altra cosa da apprezzare di “Zibaldoni” è di aver rinunciato del tutto al privilegio che si attribuisce ai prodotti romanzeschi, come se fossero l’unico genere accettabile, mentre per lo più è veramente il genere del cinismo letterario, per fare il colpo gobbo con le “storie” che agganciano i lettori sulla base di stereotipi giornalistici o storici – in questo senso il genere romanzesco, sempre più confezionato come prodotto industriale, rispecchia più d’ogni altro genere il cinismo attuale.
Su questi temi c’è moltissimo da dire – ad esempio c’è un nuovo filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, tutto da studiare, che ha scritto un trattato sul NOSTRO CINISMO QUOTIDIANO (Critica della ragion cinica), che collima con quanto ho detto sopra.
Qui mi torna in mente che a suo tempo tutti questi aspetti del cinismo contemporaneo erano stati individuati da CESARE ZAVATTINI, quando diceva che il male maggiore del mondo letterario con cui fare i conti era la furberia. Dice Zavattini: “Quanti furbi professionali, espliciti! Capisco, non è facile defurbizzare un ambiente, l’uomo rinuncia malvolentieri a questa sua qualità che gli permette di ottenere i massimi risultati col minimo mezzo… Solo occupandoci del costume con maggior coraggio {io traduco: uscendo dal seminato delle parole d’ordine giornalistiche, delle chiacchiere a vuoto e della stupida “curiosità”} noi faremo del cinema antiretorico {traduco: faremo una letteratura non votata ai paroloni pubblicitari della retorica attuale, con cui i libri sono diffusi} nella quale il cinema è il grande assente”.
Ora il grande assente è la letteratura dell’occidente…
ECCO, IO VOGLIO DIRE CHE RARISSIME PUBBLICAZIONI SI SONO AVVIATE PER QUESTA STRADA, E UNA È STATA QUELLA di “Zibaldoni”, CON TUTTE LE SUE INGEGNUITA’ INIZIALI, E ANCHE UNA SPECIE DI SBANDAMENTO… PERCHE’ QUESTO È UN LAVORO SULLO SBANDAMENTO, FUORI DALLA SICUREZZA DEL BANCARIO, O DELL’UOMO DI SUCCESSO CHE FA I SUOI CONTI PER BENE, PER FARSI AVANTI TRA LA FOLLA.
La cosa di fondo su cui il lavoro di “Zibaldoni” è stato insostituibile è questo: nel processo generale di PRIVATIZZAZIONE che ormai colpisce tutto quello che ci circonda (processo che riduce a DENARO ogni possibile uso del nostro pensiero e dei nostri affetti), “Zibaldoni” è rimasto fino a qui indenne e spesso pronto alla risposta come nessun’altra rivista in circolazione.
In un libro di conversazioni Gilles Deleuze dice testualmente che può darsi che negli anni in corso noi assisteremo ad un “ASSASSINIO DELLA LETTERATURA” – cioè alla sua scomparsa, la sua sostituzione con puri prodotti di marketing – ma non se ne accorgerà nessuno – e aggiunge che nella Russia stalinista è avvenuto precisamente questo: LA LETTERATURA RUSSA È STATA ASSASSINATA, è stata sostituita dai prodotti di partito, ma anche questo assassinio nazionale è passato inosservato. […]
Gianni Celati
* N. d. r. Sottolineature, grassetti, corsivi e maiuscole sono dell’autore, così come il titolo stesso di questo testo.
NOTA AL TESTO
Qualche mese fa sono andato al cinema con un mio ex studente a vedere Paterson, il film di Jim Jarmush. Il protagonista è un autista di bus che scrive poesie su un taccuino che porta sempre con sé. Non è interessato minimamente a pubblicare i suoi versi, che recita di tanto in tanto alla ragazza che vive con lui, solo quando questa glielo chiede. Verso la fine del film, l’antipatico cane di casa riduce a pezzettini il taccuino di Paterson, distruggendo in un colpo tutta la sua opera. Il giovane ci resta molto male, ma infine confessa alla ragazza: in fondo erano solo parole scritte sull’acqua.
Usciti dal cinema, ho detto al mio ex studente (un tipo molto severo e rigoroso) che avrei scritto un post su Facebook per suggerire che due sono gli insegnamenti che si possono trarre da questo film:
- La poesia non è niente;
- Bisogna continuare a scrivere poesie.
Il mio ex studente ha replicato che se avessi scritto un post su Facebook dopo aver visto Paterson, avrei solo dimostrato di non aver capito il film. E ha chiosato: “In quale spazio tu collochi le poesie di Paterson, in quello pubblico o in quello privato?”. Non ho capito bene che cosa volesse dire e non ho saputo rispondere; stavo per chiedergli spiegazioni, ma lui mi ha salutato ed è andato via.
Ai primi di gennaio del 2006, in occasione di un mio ventilato abbandono di “Zibaldoni” (forse ero stanco), Gianni Celati mi scrisse una lunga lettera (qui sopra se ne leggono ampi stralci), nella quale, con la consueta generosità, mi incoraggiava ad andare avanti. Mi raccomandava inoltre di non rendere pubblica la missiva se non agli amici e ai collaboratori di “Zibaldoni”, che probabilmente la ricordano ancora.
A distanza di più di dieci anni, l’aspetto “semiprivato” di questa missiva mi ritorna in mente a proposito della discussione con il mio ex studente su Paterson, e poiché Gianni Celati ha compiuto nel 2017 ottant’anni, voglio fargli gli auguri con la presente riflessione. Celati è autore di libri importantissimi, che finalmente cominciano a raggiungere un vasto pubblico. Ma in quale spazio si colloca quella lettera – come tanti altri suoi testi – che lui raccomandava di non divulgare se non agli amici di “Zibaldoni”? In quello “pubblico” o in quello “privato”?, per dirla con il mio severissimo ex studente. Secondo me, si colloca in uno specialissimo spazio “semiprivato” (più che “semipubblico”), dal quale un giorno emergerà insieme a sicuramente mille altre sue testimonianze a comporre qualcosa che assomiglia a un pensiero multiforme e indefinibile, che egli è stato capace di far passare attraverso esperienze diversissime, nelle quali le cosiddette “opere letterarie” sono soltanto sparute stelle di una costellazione molto più vasta per intima necessità, che comprende lettere, appunti, chiacchierate, battute, dialoghi, che sono serviti a qualcosa di più particolare di quello a cui servono di solito i testi scritti, perché hanno messo in collegamento persone diversissime in maniera imprevedibile e originale.
Il pensiero di Celati è un pensiero “semiprivato”, come tutto il pensiero (l’intelletto materiale del quale parlava Averroè?), e forse la segreta ambizione della sua opera è il raggiungimento di quella dimensione “semiprivata”, lontana dal pubblico e dalle masse – ma anche dall’intimità morbosa e autodistruttiva dell’io solipsistico, romantico o postmoderno – che in fondo è all’origine di qualsiasi pratica letteraria. A ripensare a tutto quello che Celati ha scritto ha detto ha fatto, come alla sua ossessione per la lettura ad alta voce non nei grandi spazi e per platee oceaniche, ma per poche persone, in ambienti raccolti e affettivamente presi, si vede emergere chiaramente questa dimensione “semiprivata” come una dimensione necessaria non solo per la letteratura e per il pensiero, ma per la salvezza della nostra condizione di esseri “pubblici” e “privati” allo stesso tempo.
Credo che questo basti come motivazione della scelta di pubblicare questo testo dopo oltre dieci anni, anche contravvenendo all’indicazione iniziale del suo autore. L’ambito “semiprivato” – e privilegiato – dal quale partivano le questioni che Celati poneva, è l’aspetto fondamentale di tutta la questione, quasi l’ipotesi estrema di un grado zero dal quale riprendere a discutere di tutto quello che lui per primo argomenta già qui sopra (partendo dal TU, non dall’IO!) – o, se si vuole, la proposta di un tipo di immaginazione che si muove seguendo gli scatti delle occasioni e le sollecitazioni luminose dell’hic et nunc.
RIPRENDERE PATERSON.
E lunga vita a Gianni Celati!
Enrico De Vivo
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