Di questi tempi chiedono spesso, a noi linguisti, cosa pensiamo della metafora bellica in riferimento alla comunicazione riguardante il coronavirus. Personalmente, ne penso tutto il male possibile. Come altri hanno già spiegato esaustivamente, l’uso di una nuvola semantica collegata alla guerra fa male un po’ a tutti: a coloro che “combattono in prima linea” e “stanno in trincea” come il personale medico e paramedico (ma anche forze dell’ordine, vigili, ecc.) perché il loro sforzo è visto come qualcosa di eccezionale, e il loro lavoro non è tutelato come dovrebbe (proprio perché non è visto come il loro lavoro quotidiano, ma uno sforzo che segue, in qualche modo, regole differenti dalla normalità). Non è un caso, del resto, se queste persone sono le prime a chiedere di non essere chiamate né “eroi” né “angeli”.
La metafora della guerra fa male anche a noi, “soldati semplici”, perché una delle sue conseguenze è la creazione praticamente automatica di un nemico. Quest’ultimo non è solo quello “invisibile” del coronavirus stesso, ma, a seconda del momento, si concretizza di volta in volta in una categoria di esseri umani che, per qualche motivo, ci è invisa: l’importante è che il nemico sia “altro da noi”. E quindi abbiamo avuto i cinesi, i lombardi, i meridionali “scappati” da Milano nel momento della sua chiusura; i runner, i passeggiatori di cani, le persone senza mascherina, gli anziani che escono più volte al giorno per fare la spesa, chi sosta troppo a lungo nelle corsie dei supermercati, quelli senza guanti di gomma, i bambini, quelli che comprano le fragole (come se dovessimo per forza vivere la quarantena in contrizione perenne)… e l’elenco potrebbe andare avanti ad libitum, a dimostrazione di come, in questo momento, stiamo tutti con i nervi a fior di pelle e con tanta avversione per il prossimo, identificato, per l’appunto, come nemico, mentre noi ci sentiamo, per opposizione, quelli bravi, quelli virtuosi, quelli che si meritano un premio. Una piccola parentesi nel ragionamento è quando abbiamo scoperto di essere noi i nemici dell’Europa in quanto potenziali untori: questo atteggiamento è stato salutato con vibrata indignazione (quando invece non è che conseguenza, almeno in parte, dello stesso modello di pensiero dal quale sono nati anche i nostri, di nemici dichiarati).
Pratichiamo il sacrosanto distanziamento sociale, va bene: ci è stato detto che per fare la nostra parte nel cercare di far passare l’emergenza pandemica dobbiamo tenerci a debita distanza gli uni dagli altri. Giustissimo; ma non c’è scritto da nessuna parte che tale distanziamento fisico debba divenire anche un distanziamento mentale, spirituale. Lontani fisicamente, forse abbiamo più che mai bisogno di sentirci invece parte di un tutto. Una Meditazione di John Donne, risalente ai primi del Seicento, inizia, come ben noto, con queste parole: “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Meno famosa è forse l’ultima parte dello scritto, pur essendo stata ripresa anche da Hemingway: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”. Io penso che in questa circostanza in cui l’abulia e l’avversione per il prossimo si impossessano facilmente di noi, in cui tutto, dai discorsi mediatici alla tensione quotidiana che viviamo ci porterebbe a fare parte per noi stessi, tanto per citare padre Dante, dobbiamo invece ricordarci del “tutto” di cui siamo parte.
E quando penso al tutto, ritengo che dovrebbero pensarci meglio quelli che si tolgono i guanti di gomma e li abbandonano in giro, per terra; quelli che ritengono corretto fotografare le persone che incontrano per strada, decidendo arbitrariamente chi può e chi non può uscire di casa; quelli che acquistano una quantità eccessiva di un singolo bene per paura di rimanerne privi, senza pensare che così lo negano al loro prossimo; chi approfitta della situazione per speculare; ma anche, in maniera forse meno macroscopica, chi comunica sui media senza riflettere sulle conseguenze delle sue parole pur di raccogliere qualche clic in più; chi inoltra messaggi dall’origine non verificata che magari atterriscono il destinatario, pensando di fare cosa giusta; chi mette in giro, per divertimento, notizie false; chi commenta ossessivamente DOVETE STARE A CASA, così, urlato, tutto maiuscolo, sotto qualunque post, a chiosa di qualunque richiesta.
Il dolo all’umanità non si fa solo con atti “fisici” poco rispettosi del prossimo, ma anche con la scarsa attenzione per il modo in cui si comunica. In questo ambito, considero abbastanza sterile perdere tempo a identificare dei nemici (i giornalisti, i politici, gli influencer); domandiamoci, piuttosto, cosa può fare ognuno di noi per tenere pulita da cartacce la propria sfera comunicativa.
Penso che il grande lascito di questo momento storico possa essere una maggior consapevolezza del proprio potere comunicativo, del peso delle proprie “azioni verbali” sulle persone che ci circondano. Questo compito di presa di coscienza spetta a tutti, nessuno escluso. Altrimenti passiamo il tempo a lamentarci di quello che fanno gli altri, quelli che sbagliano… mentre noi, ovviamente, non sbagliamo mai.
Proprio per questo, ormai da tempo propongo di partire da quello che io ho battezzato “metodo DRS”, da dubbio-riflessione-silenzio.
Il dubbio serve quando si sente o si legge qualcosa che magari non possiamo comprendere del tutto perché non siamo esperti di quel certo ramo del sapere. Se da una parte sarebbe encomiabile riuscire sempre a capire se la notizia che ci arriva sia vera o falsa, è più realistico ammettere i limiti della propria conoscenza e competenza: per l’appunto, si tratta di sapere di non sapere. Chi ha dubbi, si mette nella prospettiva di imparare. Chi non ha dubbi, rimane impermeabile a qualsiasi possibile forma di aumento del sapere.
La riflessione è essenziale quando si sta per dire, scrivere o inoltrare qualcosa. Dovremmo sempre chiederci se siamo sufficientemente competenti nel campo in cui stiamo per dire la nostra, e se il nostro intervento è di qualche utilità per chi ci sta attorno nella nostra sfera comunicativa; inoltre, conviene anche soffermarsi a pensare se siamo, a posteriori, in grado di “reggere” quello che stiamo per dire, le sue conseguenze.
Se non si verificano queste condizioni, occorre ricordare che esiste sempre anche la via del silenzio: non occorre per forza sempre dire la propria, ma se non si è sufficientemente competenti, se non se ne sa abbastanza di un certo argomento, se si sta per comunicare solo per fare atto di presenza, di esistenza… ebbene, se ne può fare a meno. A oggi, il modo più semplice per costruirsi una buona reputazione online e offline passa dal prendere parola su quello che si conosce bene ed evitare di dire castronerie in tutti gli altri casi.
Questo comportamento, nella sfera della comunicazione, equivale al non seminare cartacce per strada. Nulla di risolutivo, dunque, ma il nostro piccolo servizio personale nei confronti di quel tutto di cui facciamo, volenti o nolenti, parte.
Grazie per questo articolo lucido, preciso, pacato ma stringente. Che ci ricorda quello che dovrebbe essere ovvio, ma che è diventato un pensiero raro, saggio: parliamo se capiamo e se abbiamo qualcosa da dire, non pensiamo di essere gli unici detentori della verità, dei diritti, del dolore. Sentiamoci parte di, e comportiamoci di conseguenza.
Interessante e in linea generale condivisibile. Da sottoscrivere e mandare a memoria la parte finale relativa al “dubbio-riflessione-silenzio”. Nella prima parte disturba un po’ il retrogusto moralista, tanto che in certi punti ho temuto saltasse fuori il termine “populismo”. Così non è stato e questo va a merito dell’autrice.