Ho sempre sostenuto che la mia città doveva sprovincializzarsi; beh ora abbiamo fornito al mondo l’immagine iconica che probabilmente resterà a simboleggiare questi mesi: la processione di camion dell’esercito, carichi di bare, che attraversano le strade notturne, emettendo un rumore sordo e persistente. Condomini accesi, pratini verdi, cartelli che permettono di capire dove ci si trova, strisciati dai faretti rossi di posizione. Qualcuno li ha paragonati alle carrette dei monatti, qualche anziano, come mio padre, ricorda il passaggio su quelle stesse strade delle colonne con dentro i militi di Salò e della Wermacht. Seppure impropria la suggestione lessicale e metaforica della guerra ci assedia.
Carlo Mazzantini, in A cercar la bella morte (Marsilio, 1995), classico saloino della guerra civile, ci ha fornito una visionaria narrazione della fase di interregno vissuta da coloro che dopo l’8 settembre, non volendosi sfilare dal conflitto o passare dalla parte degli Alleati, si dirigono da Roma ai comandi tedeschi e sono spediti ad addestrarsi presso Ardea in un limbo fuori dalla storia. Il trasferimento avviene come a ritroso in una distorsione temporale, nel nulla della notte e di luoghi abissali:
Un viaggio lunghissimo. Tutta la notte: avanti, avanti, per strade sconosciute: la dimensione del mito… Il viaggio che ci riportava indietro, verso l’infanzia, verso il vago e il fantastico dell’infanzia dove tutto è possibile. La storia s’era fermata un momento e attraverso quella frattura noi ce ne sgusciavamo fuori.
Non incontrammo nessuno, non un viandante, un carro, una macchina, su quelle strade che il crepuscolo andava riempiendo di ombra. Non c’eravamo che noi in giro per il mondo quella notte.
Il viaggio utilizza i camion, mezzo di trasporto dove quei giovani saliranno e scenderanno come futuri combattenti della Rsi nelle azioni, nelle “corse pazze”, per usare le parole di Giorgio Pisanò in Io, fascista (Il Saggiatore, 1997), spesso di nuovo senza alcuna indicazione geografica (“Signor tenente, dove ci portano?” – Non si sa, rispose il tenente dalla cabina”), come si dice in Tiro al piccione (Mondadori, 1950) di Giose Rimanelli. I camion diventano bersaglio degli attacchi partigiani, bare viaggianti dove vegliare i morti e rafforzare il cameratismo fino agli ultimi giorni dell’avventura: così Roberto Vivarelli, professore di storia alla Normale che ha fatto outing sul suo passato solo nel 2000 con La fine di una stagione (il Mulino): “Intanto, non so da dove, è arrivato il secondo camion, sul quale una parte di noi trasborda, e partiamo subito per Milano. […]. È l’alba di martedì, 24 aprile”. Per Marco Laudato, il protagonista di Tiro al piccione, sono le ininterrotte scie di rumore nella notte che si trasformano in richiami di Sirene (“E quel rumore di camion mi spaccava il cranio, mi pareva di ballare in un vuoto d’aria, e sentivo più insistente in me la voglia di seguire quei rumori.”), un rombo potente ed insieme suadente: “In quel momento, sulla strada, ripresero a rotolare i camion. Era un rumore massiccio, rugginoso; le bottiglie di conserva, allineate sulla mensoletta in una parte del muro, si toccavano fra loro, creavano una musica nella stalla”. Nel buio i camion sembrano lanciare anche segnali luminosi, come convogli della storia che invitano ad essere afferrati in corsa per abbandonare l’angusta realtà del paese (“In quel momento passò un’altra colonna di camion. Era una piccola colonna che subito sparì nel buio. Speravo che ne passassero ancora, per colmare quel vuoto e quel silenzio della strada”), oppure addirittura sostano come adescando il protagonista: “Ma appena girato la fontana vidi l’ombra del camion fermo presso l’argine della strada, a una trentina di metri. Alle ruote di dietro era accesa una pila, una specie di occhio luminoso. Riaccelerai il passo, ma a mano a mano che mi avvicinavo tornavo lento, sempre più lento, appena trascinavo i piedi. Cercavo di ricacciare giù il fiato corto e sentivo, sotto il cavo della mano, il battito forte, irregolare, del cuore.”
Nel romanzo di Mazzantini il camion diventa una specie di vascello di Caronte sfilante nel vento notturno, che lascia indietro la vecchia vita con attorno le facce stupite, adulti borghesi si presume, di chi non può capire (“I passanti sui marciapiedi appena alzavano gli occhi stupiti per quella cosa così inattesa, ci cercavano con visi increduli, ma noi eravamo già lontani. Ce ne andavamo”), “verso un’altra realtà, una esistenza nuova, diversa”, senza tuttavia ancora nessun punto di riferimento. Tanto che, come in una navigazione ancestrale, ci si deve orientare con le stelle: “Ecco là il gran carro, vedete! Quella è la polare: quella laggiù, la più piccola e la più luminosa. Non c’è dubbio, ragazzi! Stiamo andando in quella direzione: ci portano al nord!”. Anche quando arrivano a destinazione si conferma lo spaesamento totale: “L’impressione di essere circondati da un mondo ignoto e inesplorato. Dove si trovava esattamente quel paese? Che c’era intorno? Che succedeva nel mondo? […] E se anche l’abbaiare di un cane lontano o il muggito straziante di una mucca interrompevano il silenzio, il mondo sembrava deserto”. I protagonisti sembrano figure di folli dominatori del vuoto “dove erano scomparse le consuete forme di vita associata, dove non c’erano più autorità, solo quella loro macchina irta di armi che poteva scorrazzare liberamente per strade non più battute da nessuno.” Poi, insieme ai Tedeschi, diverranno le presenze visive e sonore che nei rastrellamenti battono le strade di montagna e di pianura nella bergamasca, rimaste negli occhi e negli orecchi dei vecchi, attraversano le vie solitarie e spente della città notturna, terrificanti.
A un certo della notte ti svegli per dei colpi forti e indecifrabili, come borbottii di uno scappamento pesante. Oppure di tosse secca, ripetuti. Stranito non capisci se sono ancora in strada i convogli del lutto e dell’incubo, o se prestissimo un camminatore gira per l’asfalto bianco dei lampioni. O viene invece da dentro, qualche condomino per le scale, che appesta l’aria tocca i corrimano, le maniglie delle porte. E non smette, ritorna, passeggia e ripasseggia di sotto, il corteo dei camion non ha fine attorno, nell’intercapedine della casa, la casa che tossisce, la città. Apri la finestra, non c’è nessuno; ha smesso, comincia un altro giorno. Sarà il 25 di aprile?