Stamattina, appena alzato, dopo una notte passata a sgambettare come Pinocchio quando lo impiccano alla Quercia grande, ho visto che fuori divampava una giornata a dir poco meravigliosa.
C’era quel venticello fresco che viene dal mare, quel sole che entra a secchiate in casa facendo brillare perfino il pavimento (abbastanza sporco per la verità).
Sono uscito sul balcone e guardandomi intorno mi sono detto ah, quanto sarebbe bello poter rimanere in casa oggi, invece di dover per forza uscire come si deve fare di domenica, in paese, magari costeggiando le strade meno battute se uno non si sente troppo presentabile, o puntando a uscire solo la mattina o subito dopo pranzo, andando verso il ponticello di T., a piedi. Tutto, dicono, per prendere un poco d’aria, ma che prendere un poco d’aria non si può dal balcone o dalla finestra, dico io, che c’è bisogno di andare per forza a sporcare in giro?
Ma è domenica e la domenica, si sa, è un assedio. Somiglia parecchio alla vita: breve, inutile e piena di minacce e scemenze.
All’assedio ognuno reagisce come può, ed è tutto un tirare calci a vuoto.
Si alza nell’aria un polverone di doveri, in primis i doveri verso sé stessi. Bisogna uscire, fare la colazione nel tale bar, camminare sul lungomare o al corso fin quando non si incontra qualcun altro di conosciuto che vive con lo stesso peso addosso e fermarsi impalati a discorrere di scemenze, quando in realtà non ci sarebbe altro da fare che bloccare il primo o la prima che capita a tiro e dirsi chiaro e tondo «ma la senti anche tu questa minaccia tra capo e collo? la senti come pesa?».
No, si preferisce parlare d’altro.
È il dovere dell’intrattenimento, diciamoci la verità, della spettacolarizzazione del dolore personale e collettivo e io con questi doveri faccio tanta fatica a conviverci. Sicché cerco sempre mille stratagemmi per sfuggirli. Ma mica sempre ci riesco.
Affacciandomi al balcone, oggi, con le mani strette alla ringhiera, già mi figuravo il viavai dei passeggiatori, le chiacchiere, le risate, gli urletti dei bambocci… invece nessuno. A parte due biciclette lanciate verso direzioni opposte, non si vedeva anima viva ed erano già le dieci del mattino. Com’è possibile, stavo per chiedermi… poi, è stato un flash, sono uscito dall’intontimento mattutino e mi sono ricordato la pestilenza, i nuovi divieti, l’emergenza sanitaria. In effetti NON si può uscire, NON si può passeggiare, NON si può prendere la boccata d’aria, si PUÒ solo rimanere confinati in casa e lasciar passare il tempo (un tempo che, in questa particolare curvatura di costipazione in cui viviamo, bislaccamente, fluisce ancora più veloce, come se scendessimo giù a peso morto dagli scivoli altissimi di un parco giochi acquatico).
Al pensiero della clausura un grande sollievo mi è come sceso benefico nello stomaco. Come avevo fatto a dimenticarmene?
Finalmente un governo che abolisce l’intrattenimento domenicale, un governo che contempla l’inazione, che accarezza l’atarassia, che coccola gli accidiosi, che li gratifica, li moltiplica.
Un governo di filosofi, c’è poco da fare. E tu te li scordi?
Con un sorriso sono tornato dentro casa e ho avviato il fornelletto per il caffè.
Ho preso questo bel caffè forte, sorbendone all’incirca due tazzine da bar, e mi sono naturalmente disteso sul divano. Il divano è molto comodo, tuttavia mi piacerebbe cambiarlo, assieme a tutte le sedie, il mobilio, la stufa. Fare un gran fuoco. La straordinarietà del periodo meriterebbe uno stravolgimento degli arredi. Cambiare divano come si cambia la pelle, o meglio cambiare la pelle in quanto si cambia il divano. Ma ora che mi decido, è facile che sia rientrata anche l’emergenza sanitaria.
Stesso partito prenderò (ho già preso, forse) per i capelli. Ora che mi decido a tagliarmeli da me, credo che avranno riaperto pure i saloni dei barbieri. Allora tanto varrà aspettare.
Dal divano, annoiatuccio com’ero, ho allungato una mano e ho acceso il portatile. Dopo aver saltabeccato qua e là sui siti per quasi due ore che sono fluite velocissime, mi sono ricordato di controllare la casella email – non sono proprio un assiduo frequentatore della posta elettronica, è vero, ma ho anch’io una casella mail, che credete.
Tra le ultime email ne ho trovata una, graditissima, di Franco Buscemi, fondatore e presidente dell’associazione Oblomovisti italiani di cui sono socio non sempre ahimè meritevole e osservante.
La sua email risaliva ad almeno sette giorni fa, ovvero di domenica scorsa…
Il suo messaggio mi è subito parso significativo. Lo ricopio qui in questa cronachetta sia perché riscrivendolo (lo ricopio proprio senza fare l’increscioso copia-incolla) mi sentirò più vicino alle sue sagge parole sia perché non vorrei che tra un’email di pubblicità e una email di truffa finissi per perdermi proprio la sua.
La lettera fa così (ricopio a mano libera):
Care consorziate, cari consorziati, care oblomoviste, cari oblomovisti, care lettrici, cari lettori, care tutte, cari tutti. Non so. È vero. Ma bisogna confessarsi a fondo e dire soprattutto ciò che non si sa. Quello che si sa si sa, voi lo sapete, che ve lo dico a fare?
Vi scrivo in merito ai gravi fatti riguardanti il cosiddetto coronavirus e l’azione del nostro buon governo, le chiusure, le zone rosse, gli arresti domiciliari.
Voglio essere ottimista: penso che non ne usciremo più. Spero di non portare sfortuna. Già da un po’ di giorni sento qualcuno in tv, uomini molto valenti, capi d’industrie, signori d’azione, di commercio, li sento che dicono “mbè sì, dài, non facciamo i difficili, i contagi stanno scendendo, le terapie si stanno svuotando, i morti indietreggiano”… no! Non bisogna abbassare la guardia! Bisogna altresì continuare, perseverare, rinchiudere, sorvegliare… punire l’ingiustificabile spirito del dinamismo, dell’attivismo, del vitalismo… dell’uscivismo (non si esce! basta!) che non porta altro che pestilenza e corruzione dell’anima. Fosse stato per noi oblomovisti, questa pandemia non si sarebbe mai generata.
Quindi, nonostante i nuovi appelli e i nuovi proclami in parte provenienti dallo stesso benedetto nostro governo, voglio essere ottimista, lo ripeto: non ne usciremo più. Non usciremo più! E viva Dio!
All’inizio di questa pestilenza so che alcuni dei soci che ora mi leggono con affetto e approvazione hanno sofferto le limitazioni imposte dall’alto. Anche i migliori, i più immobilisti tra di voi, davanti al giogo del governo si sono sentiti soffocare, mi hanno scritto proprio: “Buscemi! – ma senza offesa, per carità, perché mi chiamo così – Buscemi! Il nulla è una scelta, se ce lo impongono, che nulla è?”. Non ho risposto a queste dolorose lettere. Non ho risposto non per cattiveria, sapete che sono un pezzo di pane, non ho risposto in primo luogo perché volevo con il mio silenzio rimproverarvi: ho avvertito dalle vostre parole un moto, come dire, un moto di ribellione, e quindi un moto di vitalità, che, lo confesso, non mi è piaciuto per nulla; in secondo luogo, non ho risposto perché sapevo che la saggezza è una formula matematica: immobilità + tempo. E infatti, giro pochi giorni per i più dotati, giro due-tre settimane per i meno allenati, ecco che avete iniziato a scrivermi letterine, chi di scuse chi di ringraziamento, tornando, finalmente, ognuno sui propri passi.
Alcuni, certo tra i più talentuosi, mi hanno confidato, senza per altro vantarsi, che dopo i primi dieci giorni hanno iniziato ad avere a noia pure l’andare a fare la spesa – bene necessario, eh, lo voglio ricordare – perché l’andare a fare la spesa non solo rappresenta una scocciatura enorme da sempre (vestirsi, lavarsi, anzi lavarsi e vestirsi, o non lavarsi va bene, ma vestirsi per forza, vedere gente, rischiare di essere riconosciuti… salutati! abbracciati!… ma anche lo stesso aprire lo sportello della macchina o della porta di casa… girare la chiave e avviare il motore!!!) a tutto questo squallore si è aggiunta, a causa della pestilenza, la pena infinita, inoppugnabile del doversi lavare le mani e del dover indossare la mascherina! Una mascherina di dubbia utilità che però tira la faccia, strappa i capelli, ferisce le orecchie, che non lascia né vedere né respirare. Ecco, i più talentuosi hanno smesso perfino di fare la spesa. Io stesso, lo dico candido come una rosa, non mangio da venti giorni. E sono in perfetta forma (cioè uno straccio d’ossa).
Pertanto, care e cari tutte e tutti, tenete molle, mi raccomando, e siate anche voi ottimisti: non ne usciremo più. Solo con l’accidia e restando fermi potremo salvare questo mondo – ciò vale da sempre, lo sapete bene, ma ancora di più vale ora che la natura pare riprendersi un po’ del suo e gli animali a cinguettare e squittire come è giusto che sia. Noi – finalmente – in silenzio!
Un caro saluto a tutti dal vostro Franco Buscemi, presidente di un’associazione destinata a diventare sempre più grande.
E qui finisce pure il mio, di spettacolino.