Tempi eccezionali, sì, non c’è altro modo per definirli, per descrivere l’alternarsi di sentimenti e il caos di pensieri che li stanno accompagnando. Improvvisamente reclusi, isolati, minacciati. Per l’esattezza, presi di mira. E circondati da un silenzio che è stupefacente, perché non siamo né in campagna né in montagna ma proprio nel centro della capitale. Fino a quando? Potrebbe, in una qualche forma, essere anche per sempre? Ma di colpo è diventato inutile chiederselo, il futuro non è più un tempo da usare.
E intanto la luce è cambiata. Come una provocazione, o piuttosto come una presa in giro, è arrivata la primavera. Un’aria leggera, perfettamente tersa perché dicono più pulita, fa risaltare i colori e le linee di quella piccola porzione di facciata e di cielo che è dato vedere dalla finestra. La via, quasi un vicolo, è stretta, il palazzo di fronte è proprio a pochi metri così che stare affacciati verso le finestre dirimpetto può diventare indiscreto. E poi non succede nulla, anzi sembra proprio che non ci sia nessuno. Meglio quindi cambiare prospettiva, rivolgersi verso l’interno.
E per esempio ora fermarsi a guardare gli oggetti poggiati sugli scaffali tra i libri, osservarli bene accorgendoci che improvvisamente si sono trasformati. Trasformati, senza che ce ne accorgessimo, in piccole raccolte di reperti provenienti dal nostro passato, da altri luoghi e da altri mondi, da momenti bagnati dal sole africano o dalla luce crepuscolare di una notte bianca di mezza estate. Sollecitandoci con la loro presenza tra i libri a riflettere sulla vita che era in essi e che ci ha richiamato, spingendoci un tempo a farli nostri. Così che anche gli scaffali della libreria che li contengono si sono trasformati, diventando le stanze delle meraviglie della nostra casa.
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Viene da Dakar, in Senegal, il piccolo autobus giallo e blu di cartone. Ottobre 1987. L’aereo di quel lungo viaggio per il Mali era arrivato all’alba, c’era da aspettare fino a mezzogiorno il prossimo volo. Passeggeri stanchi e assonnati vagavano non sapendo come passare il tempo tra il banco del bar e le sale di attesa. Ma i venditori erano già lì con tutto il repertorio di souvenirs e di lusinghe e esortazioni ben sapendo che la noia unita a insistenza implacabile spinge quasi sempre all’acquisto. Tra loro il bambino, con l’autobus di cartone. Era la riproduzione dei cars rapides, i minibus che si vedevano correre a tutta velocità sulle strade della capitale, così tipici di Dakar che il Musée de l’Homme di Parigi ne espone uno tra le collezioni africane. Periodicamente rimessi più o meno a nuovo per dissimularne lo stato che da noi sarebbe di rottami, riverniciati dei due colori base, giallo e blu, e poi decorati di scritte e immagini da artisti pittori che, ognuno seguendo la sua fantasia, facevano questo di mestiere, i vecchi, scassati e apparentemente esausti Renault SG2 riprendevano a circolare tra il centro della città, le periferie e le località interne del paese. Sempre zeppi all’inverosimile, si districavano sconsideratamente nel caos del traffico anarchico di Dakar. Insicuri? Sì, ma a proteggerli c’erano le apposite scritte, invocazioni, scongiuri, e i segni talismano, come la mano di Fatima, l’occhio, il leone, il destriero alato del paradiso islamico, Buraq, cavalcatura dei profeti, il falco, il pavone.
Questo modello ne riproduce fedelmente uno: i finestrini fatti di carta un po’ trasparente, un po’ rigida, su cui sono dipinti rami fioriti, le scritte davanti, quella del percorso, fino a Touba, città santa dove si trova la moschea più grande di tutta l’Africa subsahariana, e quella indicante il quartiere di Dakar di partenza e di arrivo, Pikine Dakar. Di lato, Transport en commun, che specifica l’uso del piccolo autobus, come un taxi collettivo. Poi la più importante, quella che protegge, Alhamdoulilahi, in arabo “Dio sia lodato”. Sopra, l’usuale mucchio di fagotti e bagagli opportunamente trattenuti da una rete. Le porte si possono aprire, quelle davanti hanno anche i deflettori. Sullo sportello, dalla parte del guidatore, c’è il nome del proprietario, Ibou D., e sulle due porte dietro ancora una invocazione, questa in lingua wolof, Yana Yala, “Dio”. Uccelli rossi, forse aironi o fenicotteri o cicogne, sulle fiancate. Ma dimenticavo la marca di fabbrica, il piccolo rombo bianco della Renault sul paraurti davanti, nonché la firma sul paraurti dietro, Lat. Diop.
Anche il dipinto che è sullo sfondo dell’autobus giallo e blu viene dal mercato Kermel di Dakar. Un suweer, come si chiama in lingua wolof, dal francese sous ver, ossia una pittura su vetro raffigurante il kuttab, la scuola coranica. Il maestro è seduto su un piccolo tappeto che qui sostituisce la tradizionale pelle di capra, con accanto, rilegato di rosso, il Corano e il fornello per bruciare l’incenso. Gli allievi, otto, ciascuno con la sua tavoletta, gli stanno di fronte. Fa parte del loro corredo il secchiello, poggiato a terra, con cui si aggirano chiedendo l’elemosina destinata come compenso al maestro. Nell’arco di alcuni anni il Corano deve essere appreso integralmente, a partire dall’alfabeto arabo in cui è scritto. I versetti, copiati sulle tavolette, sono ripetuti ad alta voce fino a conoscerli a memoria. Nei vicoli dei villaggi, dove il kuttab sta spesso nel vestibolo della casa del maestro, nelle ore prescritte, quando il sole è appena sorto e quando sta per tramontare, si può sentire il cantilenare dissonante delle voci, a volte lento e ritmato, a volte rapidissimo, e allora diventa un ronzio, simile al volo del calabrone. Suleyman ag Alhawafi, tuareg del Mali, grande dotto di sapere islamico e a sua volta maestro coranico, mi raccontava del tempo in cui, nel deserto in cui viveva, imparava con altri bambini a scrivere e poi a ripeterle, le prime tre lettere arabe dell’invocazione, bismillah, “nel nome di Dio”, con cui si apre ogni sura del Corano. Ba, si, mi, alifu, lamu, lamu, ha... All’inizio poteva tracciare le lettere solo col dito e solo sulle foglie o sulla la sabbia, in seguito sulle apposite tavolette di legno con il calamo e inchiostro di ceneri di piante diluite in acqua. Il maestro del kuttab, suo padre, era così severo e così dure le bastonate che infliggeva ad ogni errore che ogni sera lui pregava che morisse.
Ora sono sulle rive del Bani, affluente del fiume Niger nel Mali orientale, in attesa del bac per traversarlo e raggiungere Djenné, tornare alla sua spettacolare moschea di terra. Vacche dalle lunghe corna si immergono nell’acqua, il pastore entra a sua volta e tenendosi alla coda di una e lanciando richiami le dirige verso l’altra sponda, nuotano lentamente nell’acqua color petrolio illuminata dal sole. C’è un gruppetto di bambini, stanno lì per vendere ai passeggeri le loro creazioni. La piccola bicicletta di fil di ferro, autentico capolavoro quando la si osservi attentamente, ha tutti i dettagli precisi: le ruote con i raggi, la forcella anteriore, il manubrio, la sella, la catena che è di filo di cotone, il telaio triangolato, la stampella laterale per tenerla in piedi nelle soste, la corona anteriore e la corona posteriore, la canna orizzontale della bicicletta da uomo, i pedali. Da quanti anni è qui, sullo scaffale della libreria? Più di trent’anni, ma nulla ha perso del potere di allora.
Ancora bambini, ancora Mali, questa volta altopiano dogon di Bandiagara. La pista risale tra le rocce verso il bordo delle falesie. Seduti su un masso, come un gruppo di gnomi usciti dal mito, aspettano che passi qualcuno. Hanno con sé oggetti, o piuttosto creazioni fantastiche, che hanno fabbricato con quello che sono riusciti a rimediare tra i rifiuti. La radiolina è fatta con pezzi di sandalo infradito di plastica, sandalo, questo, numero 42. Riproduce la radio a transistor che ogni pastore tiene all’orecchio stando in equilibrio su una sola gamba poggiato alla sua lunga pertica mentre sorveglia gli animali, e che ogni ragazzo in moto si porta a tracolla. Il piccolo cilindro bianco sulla parte davanti ruota, e le scritte, Sisp, Mahef, che sono la marca del sandalo Made in Mali, sono perfette per riprodurre quelle, altrettanto incomprensibili, che nelle radio vere servono a sintonizzare. Di lato, a destra, una rotellina nera, quella che, on/off, accende e spegne. E perfino l’antenna si alza e si abbassa. Dietro, ultima preziosità, dentro uno sportellino che si apre, due minuscole batterie iridescenti. A volte, adesso, sembra di sentire una musica.