Nell’estate dei miei ventuno anni, andavamo per la prima volta verso l’autunno senza accorgercene. Scivolavamo verso le giornate più corte e le prime striature gialle sulle foglie senza freddo, pioggia e nebbie. Senza il grigio che, in quella stagione, piovigginava di solito dal cielo di Firenze.
L’estate era infinita, lunga e appiccicosa. Con le strade, mai lavate dalla pioggia, iridate di benzina, e il cielo sempre azzurro.
Stavo quasi sempre in campagna, in quel periodo, e quasi ogni giorno c’era una festa, in giro per la Toscana. Sui colli vicini, sulle pianure, sui monti del Mugello. Case che i genitori compravano o prendevano in affitto e che i figli riempivano al posto loro. Tanta gente, pigiata, a ballare, a baciarsi o a fumare negli angoli.
E poi una festa come altre, in una sera ancora tiepida che ti faceva stare ancora alzata, ancora sveglia. Si stava bene, sotto quel cielo un po’ fosco ma avvolgente di caldo, anche di notte. Un altro bicchiere, e il caldo si mescolava alla stanchezza e alla musica; diventava difficile trovare la forza per andare a riposare.
Un amico che voleva tornare a casa mi ha riscosso, mi ha convinto a muovermi: “So che stasera scendi a Firenze, mi puoi accompagnare?”.
Saluti persi nel frastuono; chi restava ci ha guardato andarcene muovendo appena la testa.
“Te la senti di guidare?” ha chiesto il mio amico, e mi sono stupita: “Perché, scusa?”.
Ho sentito le mie proteste impastarsi nel sonno e nell’alcol, ma ormai avevo deciso di guidare, e ero troppo stanca per cambiare decisione. Poi io guidavo veloce, e la velocità mi aveva sempre tenuto sveglia.
Non sapevo la strada, ma nemmeno questo era un problema; mi sono accodata all’auto di alcuni amici in partenza. Andavano spediti, sicuri, e io non dovevo far altro che stargli dietro. Non era un problema, mi piaceva guidare veloce.
Nel buio il frizzare delle idee nella testa era ancora più rapido. I segni da interpretare erano pochi, i dati da calcolare minimi. Destra, sinistra, dritto, senza staccare gli occhi un momento. In controllo e attenta, con i sensi centrati su ogni dettaglio, e il quadro d’insieme perso oltre il parabrezza, come una massa insignificante di dati.
Nella notte di fine settembre, scoprivo i tornanti della strada uno alla volta, con addosso il solletico della velocità, e la musica sparata dalla radio. L’aria mi si gettava in faccia dai finestrini, ancora tiepida nonostante l’ora, mentre il mio amico cercava di assicurare la mia attenzione alle sue parole, gridando chissà cosa sopra la musica.
Facevo caso solo alla strada. Andavano veloci, quelli davanti. Loro avevano una macchina nuova. Io una vecchia Fiat che aveva fatto tanta strada, che era passata da diverse mani, prima di finire fra le mie. La sentivo piegarsi alle curve, sentivo le ruote che controsterzavano dall’altra parte. Attenta al dettaglio, alle mosse da fare. A non perdere di vista quelli che sapevano la strada per tornare a Firenze.
Senza fare caso all’insieme che era grande, fuori dal cruscotto, oltre lo sterzo: la macchina vecchia, la prima pioggia dopo mesi, qualche goccia che scivolava unta sull’asfalto ancora caldo. E la notte, l’alcol, la stanchezza, il corpo sempre spinto a fare quel che serviva, non quello di cui aveva bisogno. La vita, messa dentro a mille cose, e vista come di lontano. La vita. Stava lì, c’era. E non c’era bisogno di prenderla in considerazione, di preservarla. Di vederla. Io vedevo solo le curve, una dopo l’altra.
Erano strette, quelle curve, molto strette. Non bisognava guardare da altre parti, non bisognava ascoltare la musica o l’amico. Solo guardare e tenere lo sterzo ben saldo, calcolare bene quanto girarlo, e quando; prima che finisse la curva, girare veloce dall’altra parte. Una volta, un’altra. Un’altra.
Lo sterzo ha preso vita fra le mie mani. Ad un tratto, è sgusciato via dalle dita, verso sue misteriose decisioni. Non riuscivo a impormi su di lui, e lui se ne andava esattamente in direzione opposta alla mia volontà. Una volta, un’altra e un’altra. In una serie di sterzate che non avevo deciso, che non riuscivo a bloccare.
E l’auto non obbediva a me ma a quello sterzo impazzito, gli andava dietro. Si è messa a zigzagare al centro, invece di curvare, e sempre zigzagando ha continuato dritta invece di girare a destra. La strada ha proseguito al nostro lato e noi siamo volati in mezzo agli alberi, con i tronchi illuminati dai miei fari. Tronchi ovunque, solo tronchi, e le mie luci contro.
Poi la caduta, i fari piegati, e ancora solo tronchi.
Troppo tempo in aria, ho pensato. Quando toccheremo terra moriremo.
E ci sono voluti ancora lunghi momenti perché l’auto toccasse terra davvero, mentre qualcosa mi colpiva le orecchie e non la riconoscevo subito e poi quando l’ho riconosciuta erano le nostre voci che non erano più voci, ma suoni striduli, di corpi senza speranza.
Ha sbalzato, rotolato, rimbalzato varie volte, l’auto. E io mi aspettavo che uno di quei colpi mi avrebbe uccisa, che non avrei sentito quello successivo.
Niente dolore. Avevo solo attesa della fine.
Nemmeno paura, in qualche modo. Piuttosto un’attenzione così estrema al momento, che non ha quel calcolo delle probabilità e delle conseguenze che possiede la paura.
C’erano solo un momento dietro l’altro, intorno a me. Dentro di me. Nella mia mente e nel mio corpo.
Sentivo che prendevo colpi da ogni parte, li sentivo uno per uno, ma ancora non provavo dolore. Nemmeno quando la macchina si è fermata, e non capivo in che posizione stava. In che posizione stavo io. Ma non riuscivo a muovermi, non riuscivo a gridare, a vedere, a respirare.
La sensazione del corpo che fa cilecca è strana, non mi era mai successa. Così normale: torace su, aria dentro, torace giù, aria fuori. E ora una cosa così facile non mi riusciva più. Chissà perché, chissà quale dei colpi mi aveva causato questa cosa… quando ho capito che non sarebbe passato, che stavo soffocando, ho gridato. Pensando che sarebbe stato il mio ultimo grido.
Forse questo ha aiutato a sbloccare il diaframma, mi hanno spiegato dopo. Il diaframma che con colpi molto forti a volte si blocca.
Adesso respiravo ma non potevo muovermi, non potevo vedere. Ho tirato fuori la voce che sapeva di sangue e ho chiamato il nome del mio amico, che non mi ha risposto.
Ho pensato che se lui era morto volevo morire anche io. Non avrei potuto trascinare ogni giorno, per tutta la vita, quell’idea lì, di averlo ucciso.
E come avevo finito di pensare questo mi sono sentita afferrare, ho sentito delle voci che parlavano, anche se non capivo cosa dicevano. Poi ho iniziato a capire: qualcuno mi chiedeva il nome, e io l’ho detto. Ho detto che capivo, non ero andata. Sapevo dove stavo ma non potevo quasi respirare, mi pesava sul petto un peso enorme, faticavo a sollevarlo.
Le mani mi hanno liberato gli occhi dalla terra e dal sangue e ho visto gli amici della macchina davanti alla mia. Quelli che sapevano la strada. Cercavano di tirarmi fuori ma ero incastrata, le gambe non venivano via. Poi qualcosa si è spostato, nella gamba sinistra, e sono sgusciata fuori.
“Veloce, dài, corri!” Sentivo che si dicevano. “Guarda come esce, oh cazzo, la radio è accesa!”. Un fiotto di benzina se ne usciva dal serbatoio. Mentre la musica segnalava che c’era ancora elettricità, lì dentro. Poteva esserci un contatto, un’esplosione, un fuoco che non ci avrebbe lasciato scampo.
Ricordo vagamente il resto, perché il dolore è arrivato con un’onda e mi ha stordito. Mi tagliava i nervi, premeva sulle ossa, stringeva ogni muscolo fino a farmi impazzire. La coscienza cercava di andarsene, voleva svignarsela per non sentirselo addosso. Io però la riacciuffavo e la riportavo lì. Dove vai, cogliona? Ma non vedi in che casino siamo? Non vuoi vedere come finisce?
Fra le piccole fughe della coscienza, e il mio essere vigile, e volenterosa di sentire la sofferenza fino in fondo, siamo risaliti su dalla scarpata. Mi hanno trasportata con chissà quale forza, per un dislivello di cinque metri, pieno di rovi. Vagamente ho sentito che venivo adagiata sull’asfalto, e poi sono svenuta davvero. Mi hanno svegliata le grida degli amici che facevano segni a qualcuno. E poi ho visto i fari enormi di un camion che si avvicinavano, che si fermavano.
L‘ambulanza l’hanno chiamata con la radio del camionista. Che se non fosse passato di lì, in quel momento, con il suo camion, chissà che fine avrebbe avuto per me quella notte.
Mentre aspettavo pensavo. Se ce la fai, devi cambiare. Se ce la fai, è un regalo del destino. Se ce la fai, sai quant’è facile non farcela.
La vita non stava più da un’altra parte ma vicina; mi teneva la mano, stava in ogni fibra. Dentro e fuori di me. Vicina e fragile, poteva svanire in un momento. Vicina e bella, la volevo.
L’ambulanza ci ha rintracciati così come mi avevano trovata gli amici: per via dei fari della mia auto proiettati verso il cielo, dal fondo di un burrone.
Ci sono voluti mesi di ospedale, letto, stampelle. Dolore a non finire, e ripresa lenta. Io stesa come nel disegno di una vecchia barzelletta: con il gesso dal petto fino alla punta del piede sinistro. Difficile trovare distrazioni, in quella immobilità. Non riuscendo a sollevare la testa verso niente. Non potendo bere, mangiare e fare bisogni in posizione naturale. Con gli organi sempre allungati e costretti sotto lo scafandro. Con le stesse percezioni sulla pelle e intorno agli occhi. Sempre gli stessi colori intorno, e gli stessi suoni.
Per supplire alla pochezza degli stimoli ho preparato un esame difficile, che mi prendesse la mente e portasse a spasso almeno quella, fra concetti e dati su cui non potevo sorvolare, che catturavano ogni momento di attenzione.
Poi c’era un andirivieni continuo di amici. Tutti quelli delle feste, a volte anche persone che conoscevo poco. Tutti i giorni mi facevano compagnia, mi facevano ridere, e io gridavo di smetterla perché le fratture sullo sterno non me lo permettevano. Mi raccontavano di fuori, degli altri, dell’università, di tutto quello dove sarei potuta tornare presto, “Dài tre mesi di letto, due mesi di stampelle, che vuoi che siano?” scherzavano senza pietà, e si prendevano i cuscini sulla faccia.
Quando se ne andavano non mi dispiaceva restare sola, però. Tutti si preoccupavano che potessi cedere; che la tristezza, o il nervosismo, potessero sgusciare da dentro allo scafandro e avvolgermi, soffocarmi, avere la meglio su di me. E invece io, dentro al mio bozzo spietato, godevo di ogni momento.
I miei genitori lavoravano, stavo sola lunghe ore. Guardavo il cielo dalla finestra, e quel poco che succedeva nello spicchio che riuscivo a vedere. Un uccello che passava, una luce che cambiava colore. Una nuvola striata dal vento.
Una volta un piccione si è posato sulla finestra e ha storto la testa verso di me per guardarmi. La commozione ha percorso una salita dolce, dal centro della coscienza fino alla testa, gli occhi, e ha salutato il piccione con lacrime che scendevano giù senza sforzo e senza dispiacere.
Quello che mi succedeva non poteva essere capito da nessuno e lo raccontavo a pochi. Ma sentire ogni respiro entrare e uscire dal naso. Ritrovare i miei lineamenti, poco a poco, sotto le tumefazioni della faccia. Vedere di nuovo bene, provare un dolore sopportabile, pensare di riuscire, un giorno, addirittura a camminare…
“La gamba non tornerà più come prima; ci saranno conseguenze, nel tempo”, mi avevano detto i medici. Ma non mi importava, in quel momento. Godevo talmente tanto di ogni istante da riuscire ad allontanare le loro voci foriere di problemi.
Il mio compagno di volo anche, mi veniva a trovare. Lui, incredibile! Non si era fatto quasi nulla. Solo due settimane di ospedale, per poter tornare alla vita di sempre, e senza conseguenze.
Però, durante i controlli in ospedale, una lastra aveva mostrato qualcosa. Qualcosa che non doveva esserci, nel suo corpo. Qualcosa che poteva essere molto grave.
Qualche settimana dopo, altri controlli hanno mostrato che grave lo era davvero. E che se non fosse stata individuata subito, grazie all’incidente, sarebbe stata, inevitabilmente, mortale.