Le mie mani aggrappate alle sbarre del lettino sono uno dei miei primi ricordi. Una sensazione che ho ancora sui palmi: le sbarre di legno tondo, con una parte che si slargava nel centro, per decorazione, a cui mi afferravo scuotendo piano, senza far rumore.
Ero nel cuore della notte, nel cuore della casa e nel cuore del luogo del riposo, la camera. Vicino a me, in mezzo al letto e le coperte matrimoniali, dormivano i miei.
Tutto taceva, tutti si riposavano e rigeneravano nel silenzio, nel buio, nel caldo del corpo protetto. Tutto e tutti meno che me.
Questo ricordo ha una nitidezza allucinata. Chissà se corrisponde al vero, o se ho prestato alla memoria certe sensazioni in un secondo tempo, con il senno di parecchie esperienze dopo. Fatto sta che ricordo molto bene questo senso di essere sola, nel buio e nella notte, e la tristezza muta di non riuscire a fare come gli altri.
Non estraevo, dalla gola stretta, alcuna richiesta d’aiuto. Chissà perché. Forse perché le persone addormentate mi sembravano passate in un altro genere di vita. Uno stato dal quale non è che si poteva essere richiamati semplicemente, con un “Oh, sveglia che non riesco a dormire!”.
E poi, forse, anche per via di tutte le trafile per andare a letto. Lavaggi, pigiamini, preghiere e ninne nanne… non era cosa semplice, da ripetersi più volte al giorno. No, chi dormiva dormiva e chi vegliava vegliava.
“Fate la nanna coscine di pollo la vostra mamma vi ha fatto gonnella, ve l’ha fatta con lo smerlo intorno, fate la nanna coscine di pollo…” parole incomprensibili, formule che la mamma ripeteva in un sussurro per portarmi al sonno. Per indurmi con la magia a trasferirmi in quella dimensione misteriosa.
Piegavo il tempo intorno alla stanchezza, prolungavo le cantilene allungandole su inizi di sogni, a piccoli rivoli. E alla fine cedevo alla voce, al sonno, al sorriso ad occhi socchiusi di mia mamma, e mi addormentavo.
Però, in piena notte, qualcosa mi svegliava. Come una presenza, come qualcuno che mi dicesse: “Oh, svegliati, che c’hai da dormire!” e mi ritrovavo seduta e allerta, come se fossi alzata da ore.
Sentivo il silenzio, e i piccoli rumori di chi dorme. I rumori rari della strada. Pensavo alle macchine che passavano. Temerarie. Chissà dove andavano, a quell’ora… cosa ci poteva essere di così importante, di così urgente, da far alzare un papà o una mamma nel cuore della notte per andare in macchina da qualche parte. Un’ombra di cupezza calava nella mia immaginazione sulla vita degli adulti: chissà quali dolori, quali fatiche inimmaginabili si abbattevano sulle loro esistenze…
E poi i gorgoglii dell’impianto di riscaldamento, che l’ho capito anni dopo, che cos’era. Attaccata alle sbarre, accanto ai miei genitori, non riuscivo a collocarli, quei rumori. Gli strani respiri della palazzina. Venivano su da canali dentro i muri e sospiravano, soffiavano, chissà perché e chissà cosa. Di sicuro c’era solo che era la casa stessa a emettere quei suoni. La casa che, di giorno, faceva finta di essere innocua, e poi, la notte, si svegliava e minacciava quelli che dormivano. Se si accorgeva che qualcosa si muoveva avrebbe di sicuro generato un mostro in grado di mangiarmi.
Forse per questo non svegliavo i miei. Troppo rumore, troppo movimento. C’era da stare ferma e buona, invece, e tornare il prima possibile sotto le coperte facendo finta di dormire anch’io.
Che poi è quello che ho continuato a fare, negli anni. Ferma, immobile nel letto, nei letti di bambina, di ragazza e di donna. In stanze, case e paesi diversi, tutte le notti si svolgevano come quando ero piccolissima: un sonno facile, che afferra e trascina via per qualche ora, e poi qualcosa che ti scuote e ti dice “sveglia!” così forte che ti ripresenti al mondo di colpo; già lucida e cosciente come se avessi completato una notte di sonno. E invece sono ancora le due.
Che era l’ora in cui passava il lavaggio delle strade, quando ero piccola, e quel suono era ancora più cupo e minaccioso di tutti gli altri. Perché voleva dire che era davvero tardi, e che io ero l’unica sveglia in tutto il quartiere, insieme agli spazzini e ai manovratori delle macchine.
In Siria c’era il muezzin che, in piena notte, da un minareto vicinissimo alla nostra casa, gracchiava dentro l’altoparlante il suo richiamo alla preghiera.
Immaginavo il muezzin che si svegliava, si lavava e si vestiva, saliva in cima alla torre (anche se probabilmente non lo faceva, e aveva il microfono al piano terra, mi piaceva immaginarlo mentre saliva le scale), accendeva l’apparecchio e svegliava tutto il quartiere. Le note della voce arzigogolavano nell’aria, procedendo su e giù per i toni.
Una per volta, partivano le preghiere nelle varie zone della città. Con tempi e ritmi diversi. Preghiere vicine e lontane i cui canti sfalsati si raggiungevano, si intrecciavano e formavano un unico suono che echeggiava nel silenzio. Un suono antico e sapiente, che sa che la notte è un momento pieno di paure. Un momento in cui bisogna ricordarsi che ci siamo, che siamo insieme, e che possiamo sperare in qualcosa che ci protegge.
Mi ci abbandonavo così tanto, a quel suono, che qualche volta è riuscito a cullarmi come le coscine di pollo, e a farmi riaddormentare. Ma per gli altri paesi, per le altre età, non c’è mai stato sollievo, nella notte. Sempre mi ritrovavo sola, verso le due, con la mia insonnia.
Però non proprio sola. Intorno a me c’erano infinite cose e mi si muovevano accanto come demoni: tutte le mie preoccupazioni. Stati di salute, giornate da organizzare, destini di figli, parenti ed amici, e cose importanti da non dimenticare, cose dimenticate da recuperare. Frasi non dette da dire. Frasi scappate da rimediare.
Rivedevo la moviola della giornata trascorsa e non mi perdonavo alcun fallo, mi fischiavo tutti i rigori. Ma non mi fermavo lì: mi trovavo a fare strategie e pianificazioni meticolose anche per il giorno dopo, la settimana, la stagione, la vita… anni di programmazioni cercando di prevedere i minimi dettagli. E una volta arrivata alla tomba, tornare indietro.
E tutto questo con il pungolo della colpa: non stai dormendo, non stai riposando, non stai recuperando, domani sarai distrutta, domani di tutte queste cose che hai deciso non riuscirai a fare niente ecc. ecc.
A volte, invece, arrivavano idee con una loro staccata autorevolezza. Così. Distillate nel buio e nel silenzio, senza altri pensieri beceri intorno, mi si presentavano delle vere verità.
Intuizioni. Decisioni. Cambi di marcia. Cambi di umore.
Cose che, nel cuore dell’insonnia, scintillavano di luce propria. E mi facevano anche benedire di avercela, l’insonnia, così da poter avere queste idee brillanti nel cuore della notte.
Negli anni, però, l’esercizio del pensiero notturno a catena è diventato una fatica insostenibile. Alla sveglia delle due l’ansia mi precipitava tutta insieme dentro lo stomaco, ingolfandolo e arrivando a spingere su verso la gola.
Ho iniziato ad avere somatizzazioni. A fasi.
C’è stata l’agitazione fisica, con moto perpetuo e rigiramenti spasmodici nel letto che, molte volte, mi hanno fatto terminare le notti insonni sul divano. C’è stata la fase del blocco assoluto, con pensieri di morte che si cristallizzavano in una stalattite di paura e di immobilità. La finitezza del tutto, l’inutilità della vita, la crudeltà del mondo, l’assurdità dell’esistenza del cosmo stesso erano pensieri che più di una volta mi hanno portato alla fase del lamento flebile, che comportava il coinvolgimento del povero compagno di letto. E la notte da insonne diventava tragicomica, con me che esponevo i miei turbamenti e lui che cercava di restare sveglio, senza offendermi con un crollo improvviso delle palpebre.
E quindi era naturale arrivare a una fase di dolore psicofisico. Tale e tanta l’angoscia accumulata in anni e decenni di insonnia, che ora, con i lutti recenti e le nuove stanchezze, le varie fasi mi si sono accavallate nel corpo e nella mente facendo a botte, a gara per entrare, spostarsi, correre qua e là e stringermi ora lo stomaco, ora la gola. A volte mi hanno fatto girare la testa, ma sopratutto si sono messe a pattinarmi dentro, su e giù, facendo un chiasso sguaiato. Facendo finta di scorrazzare liberamente, ma con il fine ultimo, per niente divertente, di annientarmi.
Un calvario di ore, il letto nemico, una paura di entrare fra le lenzuola a soffrire che mi hanno fatto, a volte, rinunciare del tutto; e restare sveglia, seduta in una parte della casa con le tapparelle aperte, ad aspettare l’alba. Quando il traffico fuori, la luce, il lavoro degli altri che riprendeva e gli uccellini già indaffarati sugli alberi mi garantivano una culla di azioni altrui in cui potermi abbandonare. E riuscire a godere, per una mezz’oretta almeno, del sonno.
Ma poi, qualche notte fa, qualcosa è cambiato. Una notte in cui le angosce facevano gozzoviglie e sporcavano tutto, prendevano i pensieri per la mano e li obbligavano a ballare, stremati.
Ho sentito chiaramente qualcuno che camminava nel corridoio di casa. E ho intuito un’ombra sgusciare in mezzo a quel suono. Né minacciosa né ingombrante. Una presenza delicata eppure troppo incongrua con il momento per non destare preoccupazione.
Sapevo che non era reale. E proprio per questo mi sono alzata. Per verificare in ogni stanza il mal funzionamento dei miei sensi. Per mostrare alla mia mente che davvero, questa volta, aveva sbagliato. Mi aveva mostrato cose che non c’erano. Non c’erano in salotto e nei bagni, nelle camere dei figli e nemmeno nei corridoi. Mi sono fermata in mezzo alla cucina, quasi trionfante. Che cavolo pensavo di aver visto? Non c’era niente di niente.
Mi sono versata un bicchiere d’acqua, per sentire la consistenza solida di un oggetto che rientrasse nell’esperienza reale. E ho sentito la differenza, così, in un istante, fra l’oggetto presente e il fantasma di poco prima.
Mentre bevevo ho lasciato che questa differenza mi parlasse, mi dicesse che tutti quei milioni di cose andate male da ricordare, amori perduti, doveri dimenticati, fiducie tradite, torti subiti, affetti scomparsi…semplicemente, non c’erano. Dentro, fuori, dove volevo. Non c’era niente, da nessuna parte.
Ho guardato davvero intorno. In mezzo alla cucina e i suoi oggetti inutili, fra il tavolo e le sedie privi di scopi, nella notte, c’ero solo io; con il bicchiere d’acqua in mano. E il liquido che si depositava piano piano nello stomaco.
Sono tornata in camera e sono sgusciata delicatamente nel letto. Mentre uno spazio vuoto e libero mi si spandeva intorno, via via. Perché le mie insonnie non stavano da nessuna parte. Non erano luoghi di pensiero, non contenevano niente. Tutte le persone che rivedevo a ore nella testa. Tutte le emozioni che mi si coagulavano, dentro, nella notte. E le idee geniali, le intuizioni in cui vedevo chiaro un problema… non c’erano né il problema né la soluzione, nella notte. C’ero solo io, in mezzo alle coperte, in mezzo alla stanza, in mezzo alla casa, alla città, alla notte e alle stelle.
Io nel buio e nel silenzio; senza niente, niente, niente di quello che pensavo davanti, dentro o intorno a me.
L’insonnia ricca di pensieri era un bluff. Un falso senso di potenza nel tenere a mente ciò che fa paura, come se pensarlo servisse a non farlo materializzare. Un’illusione per dare un senso, un ordine a tutto. Ma il tutto stava fuori, stava in altri momenti e altre circostanze della giornata. E rievocarlo spasmodicamente nella notte era un gioco perso in partenza.
In mezzo al letto, in mezzo al silenzio e alla notte, potevo anche lasciarmi andare al buio e al sonno. Che erano le uniche cose che c’erano davvero. Le coperte, il buio e la stanchezza.
Potevo sentirmi sola e inutile, nel mezzo della notte, e finalmente imparare, dopo decenni, a dormire.