Il nome di Elio Bartolini non è forse tra i più noti della letteratura italiana. Eppure nel dopoguerra ha scritto diversi racconti e romanzi, tra cui La bellezza d’Ippolita (1962) divenuto film; è stato anche sceneggiatore di Antonioni e regista in proprio. Pur essendo nato nel 1922 a Conegliano, ha vissuto quasi sempre in Friuli, esordendo negli anni Ottanta come poeta dialettale (Poesiis protentantis e Cansonetutis) e combattendo tra le file della Resistenza. Frutto di quest’ultima esperienza il romanzo autobiografico Il Ghebo, pubblicato per la prima volta nel 1947 e poi per Gremese negli anni Settanta, che indica il nome di un fiume friulano, nonché i canali tortuosi che attraversano le barene nella laguna di Venezia. Il Ghebo si presenta nella prima parte come un romanzo d’iniziazione al comando. Andrea, studente borghese con già alle spalle un’esperienza in montagna, viene nominato capo delle quattro bande della pianura friulana del Tagliamento, grosso modo un centinaio di uomini, che il comando ha deciso di riunificare. L’arrivo alla Cartera, un insieme di fabbricati posti in una specie di isolotto tra i due rami del fiume Ghebo, presenta una situazione di attesa nervosa: “con quello che ci diceva Marcus quest’estate: – No, niente, per carità, neanche un colpo di pistola in più, la pianura deve pensare solo a rifornire la montagna. – E con quello che è successo questo dicembre, quando in montagna tagliavate la corda, perché è la corda che avete tagliato, e a noi la radio ci diceva di star buoni in casa. Chi si è ricordato di noi, allora?”[1] Questo dice il Monco che capeggia la banda della Cartera, ed un altro partigiano esplicita il rifiuto di una messa in moto dall’alto: “Ma vengono in pianura, a nascondersi come tanti merli nei barascani, adesso che è inverno e in più pretendono di comandare. Noi li abbiamo già, i nostri comandanti.” (p. 49). Il capitolo iniziale, attraverso la discussione degli uomini, mette anche sul tappeto il problema politico: “Io non sono stato mandato qui per fare la rivoluzione – Andrea ricominciò quasi con dolcezza. – Ma vi dico che solo se vincerete in questa guerra della libertà, potrete anche fare la rivoluzione.” (p. 50).
Alla tensione classista si aggiunge quella cruciale propria alle regioni del confine est d’Italia: “uno studiato dovrebbe anzitutto preoccuparsi che il nostro Friuli continui a cominciare dall’Isonzo, come sempre cominciato, e non dal Tagliamento come questi Sloveni adesso pretendono” (p. 84), dice ad Andrea, Toti, il comandante della formazione cattolica. Il comandante non ancora accettato cerca di vedere il lato promettente nel gioco delle tensioni e, in particolare, nel neghittoso ribellismo della Cartera dove si ferma: “Ma – gli parve anche di capire – in un tipo di guerra in cui tutto o quasi era affidato al gesto breve, deciso una volta per sempre e precluso d’ogni possibilità di ripensamento, proprio di questo c’era bisogno: di una tensione pronta ad esplodere di continuo, di un’ira che, ottenebrando ogni altro freno, imperversasse più forte, terribile.” (p. 56). Per ora tuttavia il contrasto sfocia nell’abbandono ostile della discussione da parte degli uomini e nella sfida a pistolettate nella notte lanciatagli dal Monco, che non si concretizza forse solo perché irrompe la notizia dell’uccisione di Aramis, uno dei quattro capi banda.
Andrea annuncia allora la decisione di scrivere un giornaletto di banda per far valere le sue prerogative di “studiato”; di qui l’ennesimo dibattito, questa volta attorno al nome, e la sensazione che l’iniziale, quasi incantata, attenzione per l’inedita attività intellettuale, sia destinata presto a sfociare in una nuova delusione: “Ma tutta quell’impresa ha un senso casalingo, mite e inutile. Scrive articoli lui. E basterà un’impuntatura di Guerra o di Grillo perché i suoi articoli, scritti male poi, con poco calore, con poca convinzione, divengano anche ridicoli.” (p. 61). La prima parte del romanzo, che potremmo chiamare dell’iniziazione fallita, ha avuto come unico esito attivo, a parte le imprese solo raccontate del periodo di montagna, la spedizione che Andrea vuol fare da solo per punire la spia colpevole della fine di Aramis, un oste di campagna. Il racconto del fatto è condotto da Bartolini con molta abilità secondo un andamento ellittico, che quasi offusca le percezioni del protagonista nell’atmosfera infida e notturna, a simboleggiare il suo incerto procedere di comandante. Si veda il lunghissimo periodo paratattico, fitto delle confuse sensazioni del protagonista, con il compagno che gli toglie le castagne dal fuoco nel momento decisivo:
“Con un giro troppo ampio d’oscurità dentro cui scegliere, e masse compatte che saranno muri, e ombre che sono soltanto d’alberi, e un cane che latra a gran salti per quanto glielo permette la lunghezza della catena, lui comincia a rispondere, meccanicamente però, con una sorta di sfiducia in quanto sta facendo, e quasi un’incredulità per il grido sulla cui origine spara ancora, ma perché è l’unica cosa distinta nella confusione d’altri scoppi, d’altri latrati da ogni punto della notte; e solo di questo, in ultimo, sarà sicurissimo: che a sparare nella stessa direzione (dello scricchiolio prima, poi d’un vetro che s’infrangeva secco, poi del grido) erano in due: lui mentre cerca di raggiungere l’oscurità meno compatta di un portone e un altro (ma ci mette molto a pensare che sia il Monco, anche se gli basta pensarlo per convincersene immediatamente) che sta sparando dal muro di cinta, appostato – in ben diversa conoscenza di quella casa – per prevedere tutto e meglio, e che anche adesso vede tutto e meglio se spara per coprirgli l’unica possibilità di fuga”. (p. 95)
A più di 110 pagine dall’inizio, cioè oltre la metà della narrazione, una volta ottenuto il comando unitario a seguito di ulteriori discussioni, Andrea guida un’imboscata a una colonna tedesca su un ponte. All’improvviso la prosa di Bartolini diventa più rapida ed incisiva. Ecco vivide notazioni di paesaggio (“un’impressione di chiarore: tutti quei sassi del greto a rimandare la luce di cui s’erano imbevuti durante la giornata” p. 128), che del resto con i suoi giunchi, pioppeti, paludi, “tamosse, ed erano quei mucchi di canne di granoturco che, secondo le ordinanze tedesche, non si sarebbero potuti lasciare nei campi” (p. 132) è un elemento centrale di questa guerriglia: ambiente protettivo a cui i partigiani però finiscono per affidarsi tanto da condursi alla rovina. Si fa un uso frequente della similitudine per registrare un’atmosfera (“Uscì dall’ombra del camion ma lo stesso non distingueva niente di ciò che poteva succedere al bivio, e in quel chiarore della luna, diffuso e uguale, le cose davano un’ombra breve, da mezzogiorno.” p. 144), gesti di un singolo personaggio (“Grillo allungò un’altra carezza al suo mitragliatore, affettuosa, come a un gatto in grembo.” p. 135; “Puntato il suo Mauser contro la sagoma del camion, Fulmine sparò un colpo come si sputa su un affare andato male.” p. 140), movimenti di gruppo (i ciclisti tedeschi con gavette e borracce battenti sulle natiche “ per un attimo gli ricordarono i braccianti che, la falce legata alla canna della bicicletta, tornano dall’aver segato in palude.” p. 138) anche degli oggetti (così i camion tedeschi s’infilano nell’ombra “con dei ballonzolamenti come da uomo grasso” p. 136). La penetrazione psicologico-sentimentale del dopo azione viene ugualmente ben realizzata grazie all’interpolazione transitante di una similitudine:
“Il pericolo, allontanandosi come un vento, li lasciava svogliati, silenziosi, con quel movimento stracco di buttarsi le armi da una spalla all’altra, e la convinzione che l’impresa li avesse presi dentro in un modo del tutto contrario ai loro disegni. […] Ed erano discorsi straordinariamente adatti all’imprecisione e alla stanchezza dell’alba; discorsi che si fanno come in un’assenza, continuando ad andare curvi, ognuno pestando le orme dell’altro e gli stessi pensieri”. (pp. 146-47)
Il risultato dell’attacco non è stato del tutto soddisfacente per la banda – due nemici morti, uno dei loro, un camion fermato da cui prelevare diverse armi ma non tutte utili -; tuttavia ha rappresentato per Andrea l’iniziazione al comando. Il ruolo appena acquisito viene però messo subito in discussione dalle notizie su Porzûs, che frantumano in un colpo l’unità faticosamente raggiunta tra i rossi del Monco e gli osovani di Toti, che arriva sconvolto e rabbioso alla Cartera. Si riapre il dibattito tra le due parti:
“L’interno dell’Istria è croato; tutta l’alta valle dell’Isonzo è slovena: l’avete ammesso anche voi. E si tratta di gente duramente perseguitata proprio per la sua resistenza ad ogni processo di snazionalizzazione.” […]
“Ma voi intanto, gli Sloveni, li lasciate entrare in casa. E il più bello di tutto è che, in circolari, opuscoli, manifesti, manifestini, pretendereste che la Osoppo facesse altrettanto.” (pp. 170-71)
Particolarissima e complessa situazione quella della Venezia Giulia, appunto con i partigiani di Tito, comunisti e nazionalisti, che sono alle porte di Gorizia, e cercano la collaborazione delle brigate Garibaldi per controllare un territorio dove la X Mas di Junio Valerio Borghese voleva occupare Trieste italiana e che i Tedeschi avevano deciso di controllare da sé, sottraendolo all’autorità di Salò, per tenersi aperta la via del Brennero, e che quindi gestivano con particolare accanimento. In mezzo le malghe di Porzûs, in cui una spedizione gappista colpisce alcuni partigiani delle Fiamme Verdi, tra cui il comandante Bolla (zio di Francesco De Gregori) ed Ermes (fratello minore di Pier Paolo Pasolini), cosicché “dietro questo nome mai sentito di paese (monti ripidi devono circondarlo tutto all’intorno e, ogni tanto, un fragore concentrico di massi che, precipitando, ne fanno precipitare altri) molti volti tra l’attonito e lo spazientito.” (p. 154).
Inoltre l’uccisione dei due soldati tedeschi e la successiva, non raccontata, liberazione di alcuni prigionieri, attirano l’attenzione sul gruppo della Cartera. Un rastrellamento in grande stile, sottovalutato dai partigiani che pensano di avere una via di fuga alle spalle dentro gli anfratti conosciuti delle paludi, porta a uno sganciamento tardivo e parziale. La fine in straniata soggettiva può ricordare certe brusche e indecidibili interruzioni dei testi di Fenoglio. Eppure proprio nel finale i rovelli sul comando, che hanno così a lungo travagliato Andrea, all’improvviso si placano: “la consapevolezza che vedeva in questi suoi compagni, il loro coraggio s’erano comandati bene, la loro calma e anche quel convinto distacco per cui la morte non è che un fatto della vita.” (p. 203). E come in molti romanzi dell’Otto-Novecento l’iniziazione si compie soltanto in coincidenza con la morte. Un sentimento quasi dolce invade il protagonista colpito alla schiena (“Ma non provò nulla di ciò che immaginava si dovesse provare. Non ci fu uno sprofondamento, nessun buio, nessuna cosa insopportabile, brusca e rovente.” p. 207), che nella notte mischia il corpo abbandonato con la natura, in un suggello drammatico, forse prevedibile, ma comunque decisamente riuscito sul piano narrativo. Tanto da fare di Bartolini e del suo romanzo uno tra i migliori rappresentanti di quella seconda fila, dietro ai Fenoglio, Calvino, Meneghello, che meriterebbe di fare un passo in avanti verso la piena luce.
“C’era
una gallina adesso sulla porta. E, la testa girata e ferma, li guardava con
tutta la forza della vista in un occhio solo. – Toh, la gallina di Celeste –
fece il Monco. – È saltata fuori, poi. – Il becco scattò sulla scorza di salame
tirata precisa fin sulla porta. Il Monco si divertì a tirarne un’altra,
un’altra ancora, poi anche un pezzettino di mollica, e la gallina beccava tutto
senza muoversi, solo allungando il collo.” (p. 24).
[1] E. Bartolini, Il Ghebo, Roma, Avagliano, 2006, pp. 30-1.