GIORDANO, PAOLO, giovin scrittore in vitro. Su Paolo Giordano non mi viene in mente niente. Nemmeno una stroncatura. Rappresenta la soglia oltre la quale la critica cessa di esistere e, riconoscendosi sconfitta, firma la propria resa. Anzi, tenta il suicidio terapeutico, per preservare l’obsolescente ricordo della sua estinta funzione. Purtroppo, l’ordine di «non rianimare» è stato trasgredito dai superstiti della postrema Notte di Valpurga, i quali, riciclatisi in editors di Mondadori, hanno creato – per inerzia, per distrazione o per sadismo – lo specimen del perfetto invertebrato letterario. C’è qualcosa di incoraggiante nel vuoto pneumatico della sua intrepida carenza di idee, forse la traccia di un’incosciente complicità con i testi estivi degli Zero Assoluto, oppure di una zerofila vocazione ai numeri en travesti castrata dalle mielose maniere di via Solferino. Nessuno può confermarlo, in assenza di un esame autoptico dei tessuti cerebrali. D’altronde, non è da tutti violentare le Due Culture esibendo su entrambe le vittime la medesima imperizia nel cunnilingus. Qualora il resiliente onanista venisse citato in giudizio per la catena di crimini letterari che ha perpetrato con noncurante scelleratezza, non mancheremmo di testimoniare a suo favore, adducendo a discarico la perturbante involontarietà di ogni atto impuro da lui commesso.
LAGIOIA, NICOLA, amorevolmente soprannominato Nomen Omen dalle sue ausiliarie, è il più giovane generale di corpo d’armata dell’esercito italiano del XXI secolo. All’epoca della guerra contro il brigantaggio, quando era un semplice allievo ufficiale di complemento proveniente da Bari Vecchia, si appassionò alla lettura dei maggiori polemologi del meridionalismo – da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, da Vincenzo Cuoco a Rosario Fiorello –, ricavandone gli spunti necessari alla redazione del suo pluripremiato manuale di strategia, Riportando tutti a casa (2009), e comprendendo, tra astratti furori e meridiani languori, che le battaglie del Mezzogiorno si vincono al Centro e si combattono a Nord.
Erano tempi di straordinari fermenti militari, e l’allora tenente Lagioia seppe approfittarne, bruciando le tappe di una carriera nel Regio Esercito onusta di onorificenze e distinzioni, benché non scevra delle becere invidie dei suoi antichi commilitoni. Nel 2011 capì che finalmente era giunto il momento e, alla guida delle fedelissime truppe di ascari «tutto stupore e ferocia», mosse alla conquista dell’Urbe. Dai propri attendamenti, situati nel Galoppatoio di Villa Laterza, il generale Lagioia diresse, insieme ai suoi fidati luogotenenti, i colonnelli Desiati e Vasta, la durissima campagna di «Roma o morte», destinata a diventare il modello di riferimento delle contemporanee guerre di posizione. Fu spesso in prima linea, come nel sanguinario episodio della cosiddetta «Strage del Ninfeo di Villa Giulia», di cui tacciamo i particolari per non offendere la decenza dei nostri lettori.
Una volta concluso il sacco dei fatali colli, l’ormai capo di stato maggiore Lagioia pronunciò – violentemente deciso a riattraversare quanto prima il Rubicone – le parole che resteranno per sempre nella storia della cultura italiana: «iacta alea esto». L’orgiastico ardore delle sue soldatesche, incrudelite dai cimenti di mille pugne, lo spronò a stabilire i propri acquartieramenti sulla riva centro-sinistra del Po, dalla quale il nostro eroe ha continuato a riportare sfolgoranti e patinate vittorie. Purtuttavia non ne abbiamo mai dubitato, dato che stiamo parlando dell’autore dell’immortale apoftegma, degno di un ClauseWitz, che ancor oggi si insegna nelle migliori accademie militari: «Una grande battaglia la si vince in solitudine. Le regole del gioco bellico, invece, soltanto un megalomane come me può credere di scriverle da solo».
SCURATI, ANTONIO SUPERBO, imperatore e necrofilo, nipote naturale di Nerone l’Africano. Le mostruose virtù del progenitore hanno gettato più di un’ombra sugli irreprensibili vizi dell’implacabile, ancorché illegittimo, erede. Taluni annalisti da trivio – poi ridotti al silenzio, come di consueto, dalle nerborute centurie dei Pretoriani della Domenica – hanno reiteratamente accusato il Corrucciato Antonio di voler sacrificare la storia di milioni di Italici sull’ara di una speciosa inclinazione alla Vanità.
Il cursus honorum del Superbo pigliò l’abbrivo con il sospirato incarico proconsolare in Gallia, dove si fece seguace delle arti divinatorie degli aruspici e apprese la scienza dei segni e dei presagi, dimostrandosi assai poco versato nell’interpretazione delle viscere del passato e del presente. La sua repentina ascesa alla grandezza del trono di Eliogabalo – proditorio capolavoro di una mente ambiziosissima, perennemente paga di sé – venne glorificata dai vaghi cantori della decadenza e rovina dell’Impero Romano. Il Vallo di Antonio è tuttora lì, a futura memoria, astutamente illeggibile e, si direbbe, catafratto nella sua monumentale banalità. Absit iniuria verbo: allo scadere del Secolo, financo il più arrogante e improvvido dei sovrani acquisisce il diritto di lucrare laute prebende mitridatizzando le dittature e le guerre civili dei propri antenati.
Premettendo che mi sono divertita per la graffiante e brillante ironia del pezzo, bisognerebbe , come suggerì qualcuno, rilegare con la pelle di chi li ha scritti alcuni libri. Buono vero ?
Io avrei in mente uno scrittore ” stregato” che si può aggiungere alla compagnia di cui sopra. Per tutti non sarebbe sconveniente leggere Il Parini ovvero della gloria, il quinto capitolo in particolare.
Saluti evanescenti.