Nella grotta Monello presso Siracusa è stato recentemente scoperto un coleottero privo di occhi e di ali, appartenente al genere Tychobythinus. È stato battezzato “Tychobythinus inopinatus Sabella, Costanzo & Nicolosi”: Sabella l’ha descritto, Nicolosi l’ha visto per primo e Costanzo è il direttore dell’area. In realtà l’ICZN, che regola la nomenclatura di nuove specie animali, suggerirebbe di usare solo uno dei nomi di eventuali scopritori multipli, facendolo seguire da “et al.”, purché i nomi di ciascuno scopritore siano forniti per esteso altrove (come in effetti è). Sarà la nostra malignità congenita (mischiata con l’afa) ma nel vero e proprio titolo di coda che lardella il nome del povero inopinatus (che starà forse ringraziando le grotte siciliane per averlo nei millenni reso cieco – e analfabeta), indoviniamo tutta una minima italianissima scenetta: tra stalattiti e stalagmiti, i tre zoologi si fissano come nel finale di Il buono, il brutto e il cattivo, nessuno dei tre disposto a cadere nella fossa comune degli et al.… In mezzo al triangolo l’animaletto si fa il più piccino possibile: non sia mai che il fuoco incrociato finisca per spiaccicarlo.
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Siamo sempre portati, siano o non siano malignità e afa, alla lettura più umbratile, anzi torva: ex ungue leonem: quando mai cattus? In realtà, difficilmente la grotta Monello è stata teatro del silenzioso conflitto che ci siamo immaginati. Più probabilmente si è trattato di semplice scrupolo di trasparenza scientifica, dove non ci fosse di mezzo anche un qualche cavillo ministeriale per cui chi vede il proprio nome accanto a quello di una nuova bestiola avrà diritto a più punti in non so che graduatoria accademica.
Sabella, Costanzo, Nicolosi. L’evocatività narrativa di una mera sequenza di nomi è prova da un lato della nostra sete di storie (che per una volta non siano la nostra storia), dall’altro del potere magico delle parole: magico ovvero affrancato da un senso preciso. I nomi propri sono per noi come parole sconosciute: di fronte a loro siamo come neonati che non capiscono quello che gli si dice, e l’infanzia è la sola età in cui il linguaggio si manifesta completamente e propriamente come mistero; per i bambini, dice Benjamin, «le parole sono ancora come caverne tra le quali essi conoscono strane vie di comunicazione». Ecco allora che i nomi propri ci offrono un breve e angusto accesso di ritorno a quelle caverne: li leggiamo come una chiromante legge la mano, e tanto più efficace sarà la lettura quanto più misterioso ovvero estatico il nostro sguardo.
In un’opera narrativa, l’alta densità di nomi propri richiede un lettore affatto particolare, incline come dire all’imbambolamento o se si preferisce alla rêverie. I più si limitano a saltare gli elenchi di nomi, o a leggerli per mero dovere d’ufficio (un po’ come con l’elenco di navi dell’Iliade). Pochi vi si soffermano (come, per dire, pochi passeggiano tra le tombe per leggere i nomi dei morti e così disimparare a parlare).
Esempi. Nella lunghissima nota n. 25, la più irta di nomi tra quelle che farciscono Infinite Jest essendo costituita da un elenco di film immaginari e dei loro cast, Wallace incapsula tutto un invisibile romanzo di tradimenti e matrimoni andati in pezzi dietro la sempre più lunga sequenza di cognomi che accompagnano il nome dell’attrice Soma (e quanti conoscono il piacere di restare in sala a film finito solo per leggere tutti i nomi della troupe e distillarne centurie di film inesistenti, instabili come particelle subatomiche?); nella deliberatamente ingarbugliata valanga di nomi e nomignoli che travolge il lettore delle prime pagine dei Malavoglia, di cui molti lettori si lamentavano (oggi non lo fanno più – hanno paura di prendere 4), Verga vedeva un efficacissimo mezzo per provocare l’illusione della vita; e molto giustamente Nabokov considerava l’elenco dei nomi dei compagni di classe di Dolores Haze come uno dei luoghi più alti del suo Lolita.
Speravamo esistesse un elenco di insetti battezzati dalle sequenze dei nomi dei loro scopritori, magari ordinabile dalla sequenza più lunga alla più corta. Invece più che altro ci sono elenchi di nomi strampalati (tra i nostri preferiti, Spongiforma squarepantsi, dal nome di SpongeBob Squarepants, pupazzetto creato da S. Hillenburg – prima di passare ai cartoni animati, Hillenburg era stato anche biologo marino, e quindi quello Spongiforma squarepantsi ci sa un po’ di chiusura di un cerchio); veniamo anche a sapere che per arrotondare la loro raccolta fondi alcune università hanno bandito delle aste i cui migliori offerenti vincono il diritto di dare il proprio nome a questa o quella specie appena scoperta. Non è quello che cercavamo.
Abbiamo però trovato molti altri Tychobythinus: tutte bestiole sotterranee battezzate con il loro bravo corteo di scopritori e scopritrici. Di Tychobythinus in Tychobythinus, alcuni nomi di scopritori restano, altri vanno e vengono, altri appaiono solo una volta: proprio come i protagonisti e le comparse di una storia. Ecco allora pararcisi davanti tutto un mondo di personaggi semictoni nascosto tra grotte, aule e laboratori, e sciami di ignari coleotteri i cui nomi recano traccia di spedizioni, incidenti, avventure, ossessioni, rivalità e amori scanditi dalla apparizione o sparizione di questo o quel cognome dopo questo o quel Tychobythinus. E alla fossa comune degli et al. si sostituisce così un labirinto di cunicoli, brulicante di cacciatori di farfalle.